Valentina Lodovini (Sette – febbraio 2017)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 17 febbraio 2017)
Roma. Tardo pomeriggio. Piove. Appuntamento in un bar/ristorante del quartiere Ostiense. Valentina Lodovini è avvolta in un maglione nuvoloso. Ha i capelli un po’ arruffati. Ha fama di essere una forchetta voracissima e per questo Valerio Mastandrea mentre giravano Cose dell’altro mondo la ribattezzò Capannelle, come il leggendario personaggio perennemente affamato dei Soliti ignoti. Davanti al registratore si modera: «Prendo solo una tisana». Gesticola vorticosamente. Toscaneggia intercalando con frequenti “sicché”. Ci diamo del tu. A breve Lodovini sarà protagonista di uno dei nuovi episodi di Montalbano (Un covo di vipere). Domando: «Avrai un ruolo da femme fatale un po’ scollacciata, come capita di frequente alle donne che affiancano Zingaretti?». Replica: «Certo, come da buon cliché della bella siciliana». Sorride: «In realtà ho uno dei ruoli più sfaccettati della saga di Camilleri». Chiude con spot: «Montalbano ormai fa parte della cultura nazionale. È la tv di qualità che riusciamo a esportare in tutto il mondo».
Lodovini, attrice dallo sguardo orientale, galleggia tra monologhi teatrali e pellicole blockbuster, come Benvenuti al Sud: nata e cresciuta a Sansepolcro, nell’aretino, vive nella Capitale, è poco diva, dice di fraternizzare molto con le troupe con cui lavora, non è malata di pubbliche relazioni ed è parecchio attiva nelle campagne contro il femminicidio. Si autodefinisce di sinistra. Non è grillina, ma sostiene che il Movimento 5 Stelle abbia dato forma al pensiero di tanti cittadini per troppo tempo inascoltati. Racconta: «Ora sto cominciando a girare una serie tv con Marco Risi su l’Aquila e sulla ricostruzione post-terremoto. Da qualche settimana tengo il diario quotidiano del mio personaggio, Elena».
A Sette, qualche anno fa, avevi raccontato di avere un tuo diario che aggiorni tutti i giorni.
«Ormai sono più attenta a quello dei miei personaggi. Mi serve per portare in scena o sul set un essere umano».
Per diventare tu stessa il personaggio?
«Il personaggio ti toglie qualcosa e ti dà qualcos’altro. Diventa la tu’ cugina, la tu’ migliore amica. Si cerca di andare oltre quel che si trova nel testo di una sceneggiatura. Certo, a volte mi fanno passare il piacere per l’impegno».
Chi e perché?
«Alcuni registi. Quando ti affidano ruoli troppo deboli. So di essere fortunatissima eh, però mi sono un po’ rotta di interpretare personaggi senza conflitti, con poco spessore».
Se dovessi lasciare ai posteri l’interpretazione di cui vai più fiera…
«Spero che debba ancora venire. Il grande ruolo non ce l’ho ancora avuto. Ho avuto opportunità meravigliose…».
Ci sarà una scena che hai interpretato di cui sei fiera. Che se ti rivedi, pensi: “Però… Sono stata brava”.
«Ahahah. Decisamente no».
Hai vinto un David di Donatello con Benvenuti al Sud.
«… Una sorpresa. Ma il grande ruolo è un’altra cosa: è quello che ti permette di mettere in gioco il tuo talento, se ce l’hai».
Un esempio di grande ruolo che ti avrebbe fatto piacere avere?
«Tra i film recenti italiani… Miele interpretato da Jasmine Trinca. Dopodiché dico anche molti “no”. Sono convinta che i percorsi e le carriere si costruiscano sui “no”».
Mi puoi raccontare un tuo “no” costruttivo?
«No. Ahah. È successo diverse volte, per il cinema e per la tv».
Fai molti provini?
«Sì. E mi dispiace quando scopro che una “parte” è stata assegnata prima ancora dell’inizio delle selezioni. Capisco la stima, la fiducia e l’amore che ogni tanto stanno dietro la scelta di un determinato attore, ma poi se il cast non funziona il pubblico se ne accorge».
Tu hai praticamente esordito con Paolo Sorrentino.
«Mentre ero al Centro Sperimentale ci fecero assistere al film L’uomo in più. Da quel momento cominciai a dire che Sorrentino era uno dei registi con cui avrei lavorato volentieri. E nel 2006, dopo una serie di provini, mi scelsero per una parte in L’amico di famiglia».
Una piccola parte.
«Piccola, ma che vale un film».
Sorrentino ora si è concesso alle serie tv.
«The Young Pope ha stravolto le mie abitudini di Capodanno».
In che modo?
«Da molto tempo a Capodanno costringo chiunque sia con me a rivedere la trilogia del Padrino. Il brindisi lo consumo distrattamente tra un film e l’altro. Quest’anno, proprio mentre stavo per infilare il dvd nel lettore, un amico ha confessato di non aver mai visto l’ultima meraviglia sorrentiniana. E allora ho tirato fuori il cofanetto ed è partita una maratona Young Pope che è finita dopo due giorni».
Roba da cinephile maniacali.
«Una malattia che ho sin da quando avevo tredici anni: ogni settembre io e mia madre ci trasferivamo da Sansepolcro al Lido di Venezia per assistere al Festival del Cinema. Non chiedevo autografi, ma scattavo molte foto».
Selfista ante-litteram.
«No, no. Io non comparivo mai nelle mie foto. Una volta rimasi paralizzata di fronte a Robert De Niro: era spuntato all’improvviso, stava litigando con qualcuno della produzione di The sleepers e aveva uno sguardo cattivissimo, alla Cape Fear. Ricordo anche Vittorio Gassman, in giacca bianca… Nella scatola rossa dove tengo stampe e negativi di quel periodo ho ritrovato pure una foto buffa di Claudio Bisio. Gliel’ho spedita con la didascalia: “Non ti si po’ guarda’”».
Fai ancora fotografie?
«Sì e uso ancora la pellicola. Mi piace l’attesa».
Curi tu lo sviluppo e la stampa?
«No, porto tutto a San Sepolcro».
Ci sono laboratori di sviluppo anche a Roma, dove vivi.
«Ma io prendo tutto a Sansepolcro: cibo, arredamento… I mobili che ho in casa sono stati realizzati lì. Lì c’è l’aria bòna. Ahahah. Sono anche tifosa del Sansepolcro Calcio».
Hai fama di super juventina.
«Anche, sì. L’unica volta che ho accorciato uno spettacolo teatrale è stato per colpa della Juve».
Hai accorciato…
«Era una sera di quelle in cui i bianconeri rischiavano di vincere lo scudetto con largo anticipo. Mi ero comprata la maglietta con su scritto “Stai calma e passala a Pirlo”. Ero in scena a Torino con un monologo di settanta minuti: Quando Nina Simone ha smesso di cantare. Una roba intensa, in cui si parla anche della strage di Sabra e Shatila. Avevo chiesto ai tecnici di non dirmi come stava andando la partita. E invece… Quando ho capito dai loro gesti che la Juve aveva vinto, non sono più riuscita ad andare avanti per bene. Mi veniva da ridere per la gioia. Alla fine ho fatto durare lo spettacolo cinquanta minuti e sono corsa in piazza a festeggiare. E sì che io sono una precisissima e di solito resto sul palco anche se in platea ci sono solo due persone. E studio, studio… Ho un senso di responsabilità e un rispetto nei confronti del pubblico giganteschi».
Riassunto: sei un’attrice secchiona.
«Quando Alberto Barbera, il 27 giugno dell’anno scorso, mi ha chiamata per propormi di entrare nella giuria della sezione Orizzonti, ho cominciato a ripassare».
Che cosa?
«La storia del Festival, i film degli altri giurati… Mi sono allenata a casa a vedere 4/5 film al giorno».
Giuria. Lo daresti un David di Donatello a Checco Zalone?
«E perché no? Mi piace molto. Lui, come Ficarra e Picone, ha trovato una chiave per raccontare il nostro Paese riscoprendo il riso amaro: è leggero e un po’ crudele».
Sono fustigatori pop dei costumi italiani.
«In Italia ci sono talmente tante ingiustizie. Come mai non abbiamo mai fatto una rivoluzione?».
C’è stata la Resistenza, mossa anche da principi rivoluzionari.
«Non è bastata a creare un vero senso di cittadinanza, l’identità, l’unità…».
A cena col nemico?
«Con un giornalista. Non ho grande fiducia nella categoria».
Con Donald Trump andresti volentieri a cena?
«No».
Con Matteo Salvini?
«Nemmeno».
Con Silvio Berlusconi?
«Sì, lo rispetto di più».
Qual è la scelta che ti ha cambiato la vita?
«Aver partecipato alla selezione per la scuola di teatro che poi ho frequentato, a Perugia».
Che cosa guardi in tv?
«Quando entro in casa accendo sui canali satellitari che trasmettono musica classica».
Il compositore preferito?
«Frédéric Chopin e Franz Schubert».
Suoni qualche strumento?
«L’ukulele e la chitarra».
Il film preferito?
«Paisà di Roberto Rossellini. Mi fa impazzire il racconto capillare del nostro Paese».
Il libro?
«L’insostenibile leggerezza dell’essere di Milan Kundera. L’ho letto da ragazza, ma ci torno spesso. I bei libri e i bei film vanno riletti e rivisti».
Conosci l’articolo 12 della Costituzione?
«No».
È quello che descrive il Tricolore.
«Ah. La Nazionale, la mano sul petto durante l’Inno… Le faccio tutte. Ho imparato ad apprezzare la Costituzione anche interpretando i discorsi di Piero Calamandrei».
Quando è successo?
«Un paio di anni fa, durante lo spettacolo di Marco Travaglio È Stato la mafia. Tra l’altro in quell’occasione ne ho combinata una…».
Racconta.
«Per l’emozione ho sbagliato una citazione di Sandro Pertini. Quando sono uscita di scena ero mortificata. Rivolta verso l’alto, tipo preghiera, ho cominciato a dire: “Sandro scusami. Perdonami Sandro”. Solo che avevo ancora il microfono acceso. Mi hanno presa tutti per matta».

Vittorio Zincone

Categorie : interviste
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