Roberto D’Agostino (Sette – dicembre 2016)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 23 dicembre 2016).
Una tavola da surf appesa al muro con sopra stampato uno scheletro dal volto ridente. La gigantografia di un nudo femminile, crudo. Teschietti di cerbiatto a mo’ di trofeo. Il busto di Pippo Baudo con gli occhialini tondi di John Lennon. Quadri, sculture, installazioni, bambole, statuette del presepe. Un groviglio di oggetti multicolor che pendono dal soffitto. Ricordi, ritratti e scatti famigliari, ammassati uno sopra all’altro. La scrivania è completamente sommersa da giornali e da riviste. C’è anche un florilegio di falli: spuntano da ogni angolo, di ogni dimensione e materiale. Uno, dorato e alato, è circondato da icone della Madonna. Dico: «Qui un prete creperebbe d’infarto». Replica: «Qui ci entrano spesso monsignori e porporati». Siamo a casa di Roberto D’Agostino, giornalista e dj, 68 anni, da 16 padre padrone del sito www.dagospia.com, gazzettino d’informazione on line, senza freni. Clic, clic. «Guardi qui», sorride mostrandomi una schermata del pc. «Ieri ho avuto due milioni di visualizzazioni!».
Da qualche mese D’Agostino ha trasferito il suo horror vacui domestico in tv: la trasmissione Dago in the Sky è un uovo catodico. Ogni puntata trenta minuti gonfi di immagini e di suoni. Coltissime analisi antropologiche si intrecciano a considerazioni ultra pop: dal corpo tatuato come bene rifugio al ruolo del pene nell’arte, passando per la politica, «che ormai è un relitto perfetto» e per la pornomania. Spiega: «La tv da anni fa radiofonia. Nei talk si parla, ma non succede nulla. I telespettatori quindi si distraggono. La mia sfida è incollarli allo schermo, sparando raffiche di idee, di video e di pezzi musicali. Mentre guardano non devono mai avere la tentazione di prendere in mano il telefonino. Io e Anna Cerofolini, altra artefice del progetto, prendiamo tutto il materiale dalla Rete».
L’intervista si svolge in una saletta con vista Cupolone. D’Agostino, outfit post punk, porta un tutore al polso sinistro: «Scafoide rotto. Fa male. Non riesco manco ad allaccia’ i pantaloni». Vino rosé e taralli. Un piattino pieno di scaglie di parmigiano è appoggiato in bilico su un libro fotografico di Helmut Newton e copre il profilo black&white di Gianni Agnelli.
L’Avvocato ha a che fare con la nascita del sito Dagospia.
«Alla fine degli anni Novanta avevo una rubrica di gossip e di costume su l’Espresso».
La spia.
«Mentre era in corso l’America’s Cup, a Auckland, mi raccontarono un aneddoto gustoso: Agnelli era voluto salire sopra Luna Rossa e dopo quella visita… all’imbarcazione ne erano successe di tutti i colori. Patrizio Bertelli, il proprietario, aveva esclamato: “Agnelli porta sfiga”. Riportai tutto».
Lesa maestà.
«Nel giro di qualche giorno la mia rubrica passò da cinque pagine a una. Me ne andai. Barbara Palombelli, che allora aveva aperto uno dei primi blog giornalistici, mi consigliò di trasferirmi sul web».
I primi pezzi pubblicati su Dagospia?
«Ne scrivevo tre al giorno. Pensavo di fare solo un sito di costume. Ma dopo una settimana mi proposero una bomba: lo smascheramento dell’operazione Enel-Telemontecarlo. Il simbolo dell’accordo era l’assunzione di Sonia Raule, moglie di Franco Tatò, come capo dei programmi di Tmc. Titolai: dal materasso alla Rete».
Gossip e sabotaggio finanziario.
«Feci zompare anche una fusione che coinvolgeva Banca Intesa e le Generali».
Non teme di essere usato dalle fonti come una clava contro i loro nemici?
«Frequento le redazioni da molto tempo. A parte quelli, rari, frutto di un’inchiesta, so che gli scoop arrivano su un foglietto, o su una chiavetta usb. E quel che c’è scritto sul foglietto o nei file ha sempre delle conseguenze».
Quando ha cominciato a fare il giornalista?
«A tempo pieno dalla fine degli anni Settanta, quando decisi di lasciare il posto in banca. Sono stato tra assegni e cambiali per dodici anni: avevo la sedicesima».
Ora, con Dagospia, le danno dell’avvelenatore di pozzi, anche un po’ moralista.
«Moralista? Lo sono quanto lo può essere chi fa satira. Anche Crozza allora è moralista. Mi diverto a svelare i tic degli italiani».
Fioccano querele.
«Ho una linea diretta con il mio avvocato».
L’ultimo che si è arrabbiato con lei chi è?
«Michele Santoro».
Lei lo ha soprannominato Sant’Euro.
«Da qualche settimana pubblico notizie sulla sua rottura con Marco Travaglio. Mi arrivano lettere furiose da parte di Cinzia Monteverdi, amministratore delegato del Fatto».
Ha sbertucciato per anni la Roma godona e la politica Cafonal.
«Dopo la caduta di Berlusconi nel 2011 il mondo Cafonal è finito. E la politica italiana, oggi è completamente svuotata».
Si spieghi meglio.
«La democrazia liberale con i suoi riti è stata resa un baccello vuoto dal web. Renzi, Merkel, Trump…è il piccolo mondo antico. Oggi ci dovremmo occupare soprattutto delle scelte di Google e di Amazon».
Internet fa dilagare la cosiddetta post verità. The post truth: i fatti oggettivi sono meno influenti delle credenze personali nel formare l’opinione pubblica. Balle che circolano vorticosamente in Rete e alla fine vengono considerate vere.
«La post verità è una definizione usata dai rosiconi che non sono entrati nel ventre della balena web e quindi non riescono a interpretare i tempi. Parliamo di giornalisti le cui testate hanno avallato per anni bugie e idiozie di ogni tipo. La post verità semmai è quella costruita dai giornalisti. Chi vi ha aderito poi si è sorpreso per Grillo, per la Brexit, per la vittoria di Trump e per quella del No al referendum in Italia. Ci raccontano un mondo che non esiste e poi chiamano post verità quello reale».
In Rete e sui social network regna anche una violenza verbale incontrollata.
«La violenza è un’altra cosa. Io ho vissuto la violenza degli anni Settanta con quei disgraziati che usavano le pistole al posto delle parole. Ho avuto paura quando da ragazzo, passando per piazzale Clodio, un gruppo di fascistelli mi riempirono di sputi solo perché avevo i capelli lunghi».
Il giovane D’Agostino.
«Facevo parte di un gruppone che cavalcava la scena beat romana. Io, Paolo Zaccagnini, Alberto Dentice, Loredana Berté, Renato Zero… La discoteca Piper, di Roma, era il nostro oratorio laico. Leggevamo Allen Ginsberg e Gregory Corso, o i saggi situazionisti di Guy Debord come La società dello spettacolo: quando è arrivato il ’68 noi avevamo già seppellito le ideologie».
Roma Sixties.
«Chi tornava da un viaggio portava sempre con sé qualcosa di nuovo: dischi, vestiti… Io da Londra portai le prime scarpe Adidas con le tre righe. E se qualcuno rientrava dall’India magari faceva arrivare anche una pallina d’oppio. All’aeroporto di Fiumicino facevano passare qualsiasi cosa».
Lei non ha mai nascosto una certa attitudine alle droghe.
«Ai viaggi sulla Luna c’è chi preferisce quelli nella propria mente. Con la musica e con qualche sostanza. Una sera di fine anni 80 stavo realizzando un servizio per Mixer sui party afterhours in una discoteca di Gabicce. Sapevo che il servizio sarebbe iniziato alle 5 del mattino e così pensai: “Famose n’acido”».
Lsd.
«Già. Solo che alle 5 non riuscivo ancora a connettere il cervello con la lingua. E dovevo registrare. Mi prese un po’ di panico. Decisi di intervenire con una striscia di coca».
Una cosetta leggera.
«Terapia omeopatica: il male si cura con il male. Diciamo che soprattutto negli anni Settanta e Ottanta ne ho viste parecchie. La Riviera Romagnola era una roba che neanche a New York: musica, sesso, droga».
Perché non ha realizzato una delle puntate di Dago in the Sky sulla droga?
«Perché è un argomento bilama. Rischi di risultare bigotto o di essere scambiato per uno che invita allo spaccio. Ogni testa reagisce in modo diverso alla droga. E quel che resta nel cervello di ognuno è un mistero. Quindi bisogna essere cauti. Però credo che girerò una puntata sulle farmacie che ormai sono diventate luoghi di culto di una nuova religione: ti assicurano l’eternità con integratori, botox, papaya… Quella sui tatuaggi l’ha vista?».
Sì. Lei è pieno di tatuaggi.
«Ho cominciato tardi».
Quando?
«Nel 2008. Dopo una pesante operazione di decorticazione ai polmoni. È stato un gesto di ringraziamento. Ho realizzato il disegno, una croce infuocata, e l’ho portata al tatuatore. Lui mi ha sconsigliato di cominciare con una cosa così complessa e dolorosa sulla schiena. E così mi ha tatuato prima la scritta “Dagospia “sull’avambraccio. Da quel momento non mi sono più fermato».
Ha tatuaggi anche sulle dita delle mani.
«Sono indonesiani. Indicano la protezione familiare. Su una mano mio figlio Rocco, sull’altra mia moglie Anna».
Anna Federici. Famiglia di costruttori romani. Sembrate venire da due pianeti diversi.
«Ci siamo incontrati durante una delle feste che organizzavo a casa mia a inizio anni 90. Si ballava solo musica del juke-box. Con lei ogni mattina, a colazione, leggiamo i giornali e ci confrontiamo sull’attualità».
Giornali di carta o tablet?
«Carta, carta. Così strappo gli articoli più interessanti e li passo ai ragazzi del desk».
Quante persone lavorano a Dagospia?
«Tre fenomeni: Giorgio Rutelli, Riccardo Panzetta e Francesco Persili. Poi ci sono molti collaboratori».
Ci sono siti a cui si ispira o da cui prende molte news?
«Il faro del cambiamento per me è stato il britannico Daily Mail. Un sito schifato da tutti come tabloid e oggi stracopiato».
Come Dagospia, anche il Daily Mail affianca notizie politico-finanziarie a tette e culi.
«Bisogna sempre copiare, ma bisogna copiare il meglio».

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Categorie : interviste
Commenti
Ezio D'Alessandro 4 Gennaio 2017

La post-verità cos’è?
una bugia è una mancata verità che prima o poi succederà; quello che le donne non dicono; dolcemente.
Mannoia, Ruggeri/Schiavone 2006.
Allora la post-verità?
Parole insensate che prima o poi potranno essere appiccicate ad un solido e materiale fatto per poter dire domani che ora non è più post. Pazzia, più semplicemente e volgarmente, senza scomodare il codice penale: cazzate!.

Antonio 22 Gennaio 2017

Personaggio assolutamente detestabile.

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