Max Gazzè (Sette – ottobre 2016)

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(Intervista pubblicata su Corriere della Sera – Sette il 7 ottobre 2016).

Il chopper nero parcheggiato sotto all’ufficio. Una maglietta verde con disegni psichedelici. L’iPad in mano, i ricci esplosi e lo sguardo vispo. Max Gazzè, 49 anni, musicista e cantante, ha appena finito di montare e perfezionare il video del suo ultimo singolo Teresa. Me lo mostra. C’è lui che canta seduto su un divano mentre intorno si scatena un piccolo inferno domestico: «È un piano sequenza di quattro minuti». Ride: «Senti, senti… Il rumore del basso frantumato a terra l’ho aggiunto in post produzione». Comincia l’intervista: il flusso di coscienza gazzeiano galleggia tra i manoscritti di Qumran del Mar Morto, i cavalli motore di una Formula 1, l’opera di Ermete Trismegisto e un’ironica disillusione per la politica. Ha quattro figli e quando gli chiedo come gestisca il ménage bi-familiare replica: «Evito i contrasti e punto alla serenità». Gli faccio notare che la parola “serenità” è molto poco rock. Spiega: «Ho imparato che se uno naviga nei casini, non fa altro che attirare su di sé altri casini».
Lo provoco: stai per partire con un tour mondiale (che comincia oggi a Montréal e finisce a Milano il 29 ottobre), ti presenterai di fronte a un pubblico canadese e statunitense, ma i tuoi testi, apparentemente frivoli, sono complessi anche per un cittadino italiano. Ride: «Ci sono appassionati della nostra lingua in tutto il mondo. Lo sai che all’Università di Liegi stanno studiando le metriche delle mie canzoni?». Gazzè scrive molti dei suoi pezzi con il fratello Francesco: «Lui vede cose che io non vedo. Ha una meticolosità per le parole quasi paranoica».
Prima i testi e poi la musica?
«Ultimamente sì. Sui testi facciamo un lavoro scientifico. Una ricerca. Curiamo il suono di ogni singola parola. Come nelle poesie di Eugenio Montale e di Stéphane Mallarmé. Il suono della parola si fa musica. E così anche i bambini di cinque anni che non conoscono il significato delle parole, lo memorizzano come una filastrocca».
Molti tuoi colleghi partono dalla melodia e poi pensano al testo.
«Anni fa ho scritto Una musica può fare proprio per sfottere l’abitudine anglofona di adattare i testi alla struttura limitata e limitante della melodia, e l’abuso dell’inglese maccheronico condito da parole con accento finale».
Questa ricerca non rischia di sacrificare il senso del testo delle tue canzoni e di creare un insieme di parole che non risultano molto comprensibili?
«Esiste un livello impressionistico dell’ascolto. Le parole che vibrano a prescindere dal loro significato analitico. L’uomo percepisce emozioni attraverso i suoni anche dribblando la capacità del cervello di interpretare quegli stessi suoni».
Siamo lontanissimi dalla tradizione italiana del cantautorato engagé.
«Non ho mai usato le mie canzoni o il palco per fare proclami politici».
Hai partecipato a una manifestazione del M5S con Beppe Grillo.
«Ma che c’entra? La musica è di tutti. E io negli ultimi decenni mi sono disinteressato alla politica».
Perché?
«Mio padre lavorava alla Comunità Europea. Ho toccato con mano quanto poco la politica possa fare rispetto a decisioni che vengono prese a un livello di potere superiore. Ho avuto un percorso scolastico che mi avrebbe portato in quell’establishment, ma appena ho potuto sono scappato di casa e mi sono trasferito a Londra per vivere della mia musica. In ogni caso ai testi esplicitamente politici preferisco l’ironia o la denuncia sociale».
Un esempio?
«Atto di forza. È una canzone che ha vinto il premio di Amnesty International contro la violenza sulle donne. Ora ho letto Homo videns di Giovanni Sartori e lì ci sarebbe da indagare parecchio: il mondo costruito sull’immagine».
Tu frequenti Twitter o Facebook?
«Al momento mi limito a pubblicare stronzate. Cerco di spiegare ai miei figli la differenza tra il reale e il virtuale, perché mi accorgo che oggi per i ragazzi questa distinzione non è sempre chiarissima. Sono convinto che il contrasto tra il mondo reale e il modo di viverlo, spesso virtuale, da parte degli esseri umani, alla fine ci facciano ammalare. È una asimmetria, anche di aspettative, che crea sofferenza. Forse si dovrebbe introdurre nelle scuole la materia “Realtà organica”. Per far riavvicinare i giovani a come è il mondo veramente. È un discorso applicabile anche alla musica».
La musica italiana oggi si fa nei talent: X-Factor, The Voice
«Mi piacerebbe che le case discografiche avviassero delle strutture per far crescere gli artisti anche fuori dai talent, magari con una specializzazione nei concerti dal vivo. Esistono talenti stonati, ma molto espressivi, che oggi verrebbero cacciati dagli show televisivi. Bob Dylan e Vasco Rossi non credo che sarebbero andati molto avanti».
Se ti proponessero di fare il giudice di X-Factor
«Ogni giudice ha un ruolo. E io non credo che sarei capace di recitarne uno. Quest’estate ho fatto le selezioni della sezione “gruppi” con Alvaro Solèr, in Spagna. Prima X-Factor mi sembrava solo la sagra del bel canto. Ora hanno ampliato un po’ gli orizzonti. Ma troppo spesso nei talent si vedono copie di copie di copie di cantanti. L’emotività non passa. E allora si cerca di riprodurla artificialmente con un gigantesco corredo di immagini. Credo ci sia anche un discorso legato al passaggio dall’analogico al digitale».
Che cosa c’entrano l’analogico e il digitale?
«L’analogico, il vinile e la cassetta col nastro, riuscivano a trattenere anche le frequenze elettromagnetiche dell’artista, l’empatia del musicista. E con esse le emozioni tipiche che si provano durante un concerto live. L’opera d’arte che si compie nel momento in cui si fa tramite tra le emozioni dell’artista e chi contempla l’opera. Con il digitale, invece, al momento non si riesce a replicare quelle frequenze, quell’empatia. E quindi l’ascolto della musica oggi rimane a un livello di interpretazione cerebrale, non riesce ad essere emotivo. E allora che cosa si fa? Si compensa con le immagini, con gli show. Costruendo quelle grandi pantomime che sono i talent. Vorrei lanciare una proposta».
Ne hai facoltà.
«Si dovrebbe fare in modo che i proprietari dei locali pagassero meno denari alla Siae quando fanno esibire giovani gruppi o artisti esordienti. Io rinuncerei volentieri a una parte della mia quota Siae se questo potesse aiutare i ragazzi a crescere e a esibirsi in concerto».
A cena col nemico?
«Parliamo di esseri umani? Di tutti quelli che come me hanno il fegato, i polmoni, il cuore…? Non amo le persone senza anima».
Servirebbe un nome.
«Donald Trump, che è una merda. Oddio, ma lo posso dire? Tra poco sarò a Chicago…».
Hai un clan di amici?
«Quelli con cui vado in tournée da anni. A Nicolò Fabi e a Daniele Silvestri voglio bene come a dei fratelli. Per loro ci sono e ci sarò sempre».
Qual è la scelta che ti ha cambiato la vita?
«La nascita di Samuel, il mio primo figlio, nel 1998. Il ‘98 per me fu in generale un anno magico: un figlio, un disco di successo con dentro Cara Valentina, Vento d’estate e La favola di Adamo ed Eva…».
L’errore più grande che hai fatto?
«Gli errori servono. Ci aiutano a cambiare».
La tua canzone-errore?
«Tutto il primo album, Contro un’onda del mare, aveva un errore di mixaggio. L’ho realizzato troppo in fretta. Mi piacerebbe ri-registrarlo».
Che cosa guardi in tivvù?
«Guardo la televisione, ma spesso mi dimentico di accenderla. Ahahah. Il tennis, il Moto GP e il Gran Premio».
Hai una Harley.
«Ma amo soprattutto le monoposto. Ho gareggiato sui go kart e nel 2006 per un po’ ho collaudato le Renault da Formula 1. Parliamo di motori da 900 cavalli. Un non-pilota non riuscirebbe nemmeno a farli partire. Ogni tanto mi alleno ancora nei kartodromi. È lì che si sono formati tutti i piloti».
Il film preferito?
«Oltre il giardino di Peter Sellers»
Il libro?
«In questo momento sto leggendo Il cervello anarchico di Enzo Solesi. Bellissimo».
La canzone?
«Difficile… The Light dies down on Broadway dei Genesis».
Hai quattro figli. Sai quanto costa un pacco di pannolini?
«Dipende dalla marca e dal modello».
Conosci i confini della Siria?
«No».
L’articolo 12 della Costituzione?
«Che cosa dice?».
È quello che descrive la bandiera dell’Italia. Che cos’è per te il Tricolore?
«La forza alchemica e metafisica delle persone che si aggregano per tifare la Nazionale. La complicità nell’emergenza. Ma non amo né i confini, né i nazionalismi. Ecco, politicamente sono molto distante dal tricolore. E arrivederci».

Categorie : interviste
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