Una storiella della Prima Repubblica – Dc

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(articoli pubblicati su Sette – Corriere della Sera nel luglio/agosto 2016).

C’era una volta la diccì. Lo Scudo Crociato. La Balena Bianca. Il partito Stato, il partito delle correnti, dei dorotei, dei morotei, dei basisti, degli andreottiani…Il partito di cui fanno parte sia Giorgio La Pira, soprannominato “il sindaco santo”, sia Vittorio “Ajo oio Campidoio” Sbardella, detto lo Squalo. Il partito in cui c’è tutto e il contrario di tutto. «Nel ventre della Balena convivevano la reazione e il progresso, l’onestà e la corruzione, la riforma agraria e la speculazione edilizia, il buon governo e il colera, la santità e la mafia, Bachelet e Ruffilli vittime del terrorismo e la P2». Lo scrive Marco Damilano in Democristiani immaginari (2006), che è un catalogo travolgente di democristianerie assortite. Quando nel 1993 la Dc muore spiaggiata, insieme con tutta la Prima Repubblica, Michele Serra su Cuore gli dedica un’orazione funebre, Souvenir Dc: «I caffé dell’Ucciardone, i ministri coi cappucci, i figlioli di Leone, le Carlucci (…). Le uniformi di Cossiga, i notabili in grisaglia, il costume con la riga di Bisaglia». E ancora: «Nonno Alcide in aeroplano, sull’Oceano americano, la Renault senza decoro di Aldo Moro».
«La Renault senza decoro» è quella rossa dove il 9 maggio 1978 viene trovato il corpo accartocciato di Moro, assassinato dalle Br. Nonno Alcide, invece, è Alcide De Gasperi. C’è De Gasperi a capo del gruppo che si riunisce clandestinamente nell’abitazione milanese dell’industriale Enrico Falck per dare vita alla Democrazia Cristiana nell’ottobre del 1942. «De Gasperi in pochi anni diventa il vero punto di equilibrio della democrazia in Italia». Lo dice Ciriaco De Mita, ex segretario Dc anni Ottanta ed ex presidente del Consiglio, che ci accompagna in questo viaggio scudocrociato. De Mita è democristiano da sempre. Nel 1942, ha solo quattordici anni ma già si occupa di politica: «A metà degli anni Quaranta ero presidente dei giovani di Azione Cattolica. Quando durante una riunione dei comitati antifascisti sentii alcune espressioni forti contro la Chiesa pensai: “Non ci siamo!”». Nel 1946 malgrado non possa votare per motivi d’età, De Mita è attivo nella campagna elettorale che sforna l’Assemblea Costituente e che decide la forma repubblicana del Paese. La Democrazia Cristiana non dà un’indicazione di voto. «La stragrande maggioranza dei diccì campani era a favore della Monarchia – racconta De Mita – Io, che ho sempre avuto la tentazione della guida, costrinsi un gruppo di ragazzi a giurare che avrebbero sostenuto la Repubblica anche se nessuno di noi poteva votare. Mio padre, sarto, che a Nusco era vice segretario cittadino dello Scudo Crociato e che votava Monarchia, si lamentava con mia madre: “Che figura! Che figura!”. La sera delle elezioni cercai di discuterne, ma lui chiuse la conversazione dicendo che a tavola non si parla di politica».
La Dc manda alla Costituente una classe dirigente multicolor: eredi del popolarismo sturziano, ex partigiani, giovani professori, sacerdoti illuminati, intellettuali al sapor d’incenso. Tra gli altri ci sono Alcide De Gasperi, Attilio Piccioni, Paolo Emilio Taviani, Giorgio La Pira, Giuseppe Dossetti, Aldo Moro, Amintore Fanfani… Spiega De Mita: «Un partito articolato, ma unito. La pluralità delle opinioni si misurava sull’intelligenza più che sulle ragioni del contrasto. Ho letto tutti gli atti della Costituente. E ho letto anche che oggi per supportare le riforme renziane c’è chi rispolvera le pulsioni monocameraliste del Pci di quegli anni, scordandosi che quelle proposte non puntavano a una democrazia efficiente, ma al modello del Soviet supremo».

La rottura con Pci e Psi. Fino alla primavera del 1947 la Dc collabora dialetticamente con gli altri partiti alla stesura del testo costituzionale e governa con il Pci e con il Psi. Poi De Gasperi rompe. La vulgata a sinistra ritiene che sia il frutto amaro del viaggio a Washington che il leader Dc compie nel gennaio di quell’anno. Pietro Nenni, segretario del Psi, annoterà: «Il viaggio in America ha cambiato De Gasperi più di quanto credessi». De Mita: «In realtà la collaborazione all’epoca non poteva proseguire. I ministri comunisti e socialisti nelle riunioni a Palazzo Chigi erano collaborativi, ma appena scendevano in piazza organizzavano manifestazioni contro i provvedimenti del governo. Diciamo che il loro sforzo non era concentrato verso il consolidamento del sistema della democrazia rappresentativa. De Gasperi stesso propose alla direzione della Dc di interrompere la serie di governi nati intorno al Comitato di liberazione nazionale. La Direzione si disse contraria, perché non avevano idea di quali sarebbero state le conseguenze di questa rottura, ma De Gasperi li convinse. Era lui che guidava». Nel discorso con cui presenta il suo IV governo, il leader trentino per stemperare le polemiche cita il suo buon rapporto con Giacomo Matteotti, martire del regime mussoliniano e il cameratismo anti-fascista con cui hanno collaborato Dc, Pci e Psi fino a quel momento. Ma dice anche che c’è un’emergenza e bisogna evitare la rovina economica e finanziaria del Paese. De Mita: «L’accordo che De Gasperi fa con liberali, repubblicani e socialdemocratici e con cui si presenta alle elezioni del 1948 non è basato sulle opinioni dei partiti, ma su un programma. È una politica. De Gasperi in quel momento inventa una nuova istituzione: la coalizione. Nella coalizione le persone non hanno lo stesso pensiero, ma mettono da parte le ambizioni personali e perseguono uno stesso obiettivo».
18 aprile 1948. Elezioni feroci. Il Fronte Democratico Popolare di cui fanno parte il Pci di Palmiro Togliatti e il Psi di Pietro Nenni usa come simbolo la faccia di Garibaldi. I Comitati civici organizzati da Luigi Gedda e voluti da papa Pio XII preparano dei cartelloni con un volto dell’eroe dei Due Mondi dietro al quale si nasconde quello di Stalin.
Giovannino Guareschi, scrittore e polemista, inventa uno slogan definitivo: «Nel segreto della cabina elettorale Dio ti vede, Stalin no». «La Dc però non era ancora un partito organizzato – racconta De Mita – Ci penserà Fanfani negli anni Cinquanta a strutturarlo. Io nel ‘48 feci molti comizi. Mentre i comunisti e i socialisti puntavano tutto sull’attenzione al popolo e sui problemi sociali, la Dc puntava sulla dimensione politica e sulla consapevolezza che in quel momento si doveva fare una scelta di libertà».
Vince la Dc. Sale la tensione. Quando d’estate Antonio Pallante, studente esaltato, attenta alla vita di Palmiro Togliatti con una revolverata, il popolo della sinistra scende in piazza, spuntano i mitra. La leggenda narra che a quel punto De Gasperi chiama Gino Bartali, che è impegnato nel Tour de France e che ha conosciuto anni prima, per spronarlo alla vittoria: «Sarebbe importante, qui c’è un’enorme confusione». Bartali vince. Il Parlamento interrompe i lavori per applaudire il trionfo ciclistico. Per le strade si riduce un po’ la tensione.

Colpi bassi. Cominciano gli anni del cosiddetto centrismo e la Dc consolida il suo potere. Alla segreteria del partito si succedono Attilio Piccioni, Paolo Emilio Taviani e Guido Gonella. Al governo, tetragono, c’è De Gasperi. «Questa storia del partito pigliatutto, del partito Stato, però non è vera – spiega De Mita – La Democrazia Cristiana non ha praticamente mai fatto governi da sola. Si è sempre accordata con le forze laiche, che era un po’ come chiedere a qualcuno che legge solo giornali sportivi di immergersi in un saggio politico». Nel 1953, la Balena Bianca si presenta alle elezioni apparentata con le cosiddette “forze laiche” e con una legge elettorale che assegna il 65% dei seggi a chi conquista il 50% dei voti. La legge Truffa. «Prima che venisse approvata intervenni all’Università per spiegare la mia contrarietà al fatto che si votasse la fiducia su una legge elettorale», racconta De Mita. Anche quella è una campagna elettorale movimentata, con qualche colpo basso. Un manifesto dello Scudo crociato recita: «Donna italiana anche la tua femminilità è affidata al voto!», in primo piano c’è una signora elegante con la scheda elettorale in mano e sullo sfondo una cicciona col pugno chiuso. La Dc non raggiunge il 50%. «Moro in quell’occasione dimostrò per la prima volta la sua finezza d’analisi – spiega De Mita – Disse che il voto degli italiani era stato un voto intelligente perché aveva premiato i governi della Dc, ma allo stesso tempo era anche una sollecitazione a capire le domande che emergevano dalla società. Se penso che lui è passato per uno dal linguaggio incomprensibile… E sarebbero comprensibili questi scemi di oggi che quando parlano non dicono niente?».
Il governo si dimette, De Gasperi si riprende la segreteria del partito, ma solo per qualche mese. Tra il 1953 e il 1954 la Dc, cambia pelle: fuori la vecchia generazione che aveva frequentato il Partito popolare e dentro i nuovi che si raggruppano intorno alla corrente di “Iniziativa democratica” e al leader Amintore Fanfani. De Mita: «Fanfani era professore alla Cattolica. Andai a sentire una sua lezione e non mi ci trovai. A me piace il pensiero delicato, lui aveva un pragmatismo veloce». Tra i soprannomi di Fanfani c’è “il Motorino”. «A una riunione dei giovani democristiani parlai di fanfanismo deteriore. E ricordo ancora un convegno durante il quale Fanfani, in piena strutturazione del partito, aveva convocato i diccì juniores per dar vita a un giornale. Arrivai nella sessione pomeridiana convinto di discutere temi e linea editoriale, Fanfani mi stoppò: «Di questo abbiamo parlato stamattina, ora discutiamo l’impaginazione». Replicai un po’ arrabbiato: «“Ma io non sono un tipografo”».
Comincia un ciclo trentennale di elezioni e congressi, congressi e elezioni con cui le correnti dc regolano i conti interni e cambiano linea al partito. L’avversario di Fanfani nella corsa per la segreteria è Attilio Piccioni. Proprio durante la faida tra i due scoppia uno scabroso caso di “nera”: Wilma Montesi, una giovane romana, viene trovata morta sulla spiaggia di Capocotta. Nell’indagine viene coinvolto il musicista Piero Piccioni, figlio di Attilio, che poi verrà scagionato. Il caso di cronaca, diventa caso politico. Giancarlo Pajetta, dirigente del Pci, conia il termine “capocottari” per insultare i diccì. Fanfani cavalca la difficoltà di Piccioni. E negli anni successivi Giulio Andreotti ogni volta che sentirà odore di tranelli politici dirà: «Mi sta venendo in mente come è montato il caso Montesi». De Mita: «Non credo che sia stato addirittura organizzato un complotto. Ma se una persona sta correndo sotto la pioggia e trova un albero sotto cui ripararsi, si ripara, non è che abbatte l’albero».

Il petrolio di Mattei. Si chiude un’era, De Gasperi muore proprio in quel 1954. «Nella mia vita ho pianto due o tre volte – racconta De Mita – Una di queste è stata quando è morto Alcide». Nel frattempo nasce la Base, corrente di sinistra di cui fanno parte Giovanni Marcora, Ezio Vanoni e lo stesso De Mita. Tra i fondatori finanziatori c’è anche il mega boiardo del petrolio italiano Enrico Mattei, parlamentare Dc della prima legislatura ed ex partigiano bianco. «La Base è un’esperienza culturale complessa – racconta il leader irpino – È l’individuazione su varie parti del territorio di elementi di vivacità culturale, giovani, militanti delusi, persone di capacità straordinaria. A me in questo movimento è sempre piaciuto pensare, elaborare piani. Pasquale Saraceno, economista e collega di Vanoni, proprio durante il congresso Dc di Napoli del 1954, mi disse che un piano è l’individuazione di un insieme di obiettivi e che la stesura dei particolari poi la fanno i geometri o i ragionieri. Ecco, io ho sempre amato la gestione come equilibrio e non come amministrazione. L’elaborazione delle idee e l’organizzazione del consenso necessario per realizzarle, non tanto il fare». A metà anni Cinquanta, e soprattutto dopo la rottura del Psi con il Pci in seguito all’invasione sovietica dell’Ungheria, l’idea che comincia a balenare nella testa di De Mita è la possibilità di un’alleanza con i socialisti. L’ex premier racconta: «Iniziai a riflettere sul come e sul perché. E iniziai a teorizzare non tanto l’alleanza tra i partiti ma la convergenza delle culture che collaborano per la realizzazione di un disegno comune. Questo disegno era l’organizzazione dello Stato moderno, la risposta ai nuovi bisogni, alle nuove libertà e alle nuove relazioni». La gerarchia ecclesiastica non è molto d’accordo. Quando De Mita si presenta per la prima volta alle elezioni nel 1958, i vescovi del suo territorio gli remano contro e appoggiano i suoi concorrenti all’interno delle liste democristiane. «A uno di questi vescovi che cercava di convincermi a non candidarmi proposi un patto: “Lei spiega ai contadini che l’idea del centrosinistra non costituisce eresia e io non faccio la campagna elettorale insistendo su quella posizione”. Il monsignore domandò: “Mi vuole insegnare a fare il vescovo?”. E io replicai: “Lei vuole dire a me come fare politica?”». Alla fine della campagna elettorale De Mita nella piazza di Avellino arrivò ad accusare i vescovi di simonia perché si vendevano le preferenze. Ora spiega: «La cultura più moderna espressa nella Democrazia Cristiana è quella sturziana del popolarismo. Il dato fondamentale è la distinzione tra ruolo religioso e ruolo politico. È una distinzione delle funzioni. Quando don Luigi Sturzo negli anni Venti è costretto a lasciare l’Italia in vista della firma del Concordato tra lo Stato fascista e il Vaticano, si rivela tignosissimo con l’autorità ecclesiastica e fedele sul piano dell’obbedienza alla Chiesa». Allo stesso modo Indro Montanelli nel libro I protagonisti racconta che di fronte all’eventualità voluta dalla gerarchia ecclesiastica di creare una coalizione di centrodestra per amministrare la capitale nel 1952 (tra l’altro proprio intorno alla figura di Sturzo), De Gasperi da antifascista si oppose, dicendo: «Se mi verrà imposto, dovrò chinare la testa, ma rinunzierò alla vita politica». «Vede? – sorride De Mita – La cosa che dovrebbe colpirci di più della storia democristiana è che un partito di ispirazione religiosa sia stato in realtà il partito più laico».

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La Dc che nasce in clandestinità e che lotta con la Resistenza, la Dc pilastro cattolico della Costituente, la Dc baluardo (anche feroce) dell’Occidente capitalista nel 1948, la Dc che definisce la sua natura di partito-Stato negli Anni 50. Eravamo rimasti qui. Con uno Scudo Crociato che comincia a costruire i riti politici della Prima Repubblica: congressi cruenti il cui risultato si decide di notte, riunioni clandestine tra i marmi delle sagrestie, correnti alternate. Leader che vanno, che vengono e che dopo essere stati sconfitti, ritornano. Ciriaco De Mita, ex segretario Dc, ex premier Anni 80 e nostra guida in questo viaggio nel ventre della Balena Bianca, usa un’immagine marinara per spiegare le dinamiche interne della diccì: «Ho partecipato a tutti gli scontri e sono stato praticamente sempre in minoranza. La Democrazia Cristiana era come un mare, che si muove per mezzo delle onde: qualcuno ogni tanto si inabissava, ma poi riemergeva più forte. C’era rispetto per chi perdeva». Tra il 1958 e il 1959 si inabissa per la prima volta Fanfani e affiora un nuovo leader: Aldo Moro.
Alle elezioni del 25 maggio 1958 la Dc raccoglie più del 42% dei voti. Amintore Fanfani diventa allo stesso tempo segretario del partito, presidente del Consiglio e ministro degli Esteri. Troppo. Le truppe del Biancofiore lanciano segni di insofferenza. E dopo qualche passaggio parlamentare bersagliato dai voti contrari dei franchi tiratori scudocrociati, Fanfani decide di dimettersi dai tre incarichi. In un piccolo convento romano di suore dedicato a Santa Dorotea, in una notte di inizio 1959, i leader del corpaccione democristiano si riuniscono per scolpire una linea comune al prossimo Consiglio Nazionale convocato d’urgenza. Il vicentino Mariano Rumor e il padovano Luigi Gui per trovare ispirazione vanno a pregare sull’altare di san Pio X, Papa veneto. Alla fine decidono, a sorpresa, di accettare le dimissioni di Fanfani. Nasce così l’arcinota corrente dei dorotei. Il Consiglio Nazionale che si svolge tra le mura della Domus Mariae sceglie come nuovo segretario Aldo Moro. «Moro durante il suo discorso di insediamento definì la Dc un partito nazionale popolare antifascista. Cioè andò oltre Sturzo. Quando mi chiesero di intervenire alla successiva riunione dei segretari provinciali, allora, domandai pubblicamente a Moro: «Se la Dc è un partito antifascista, come facciamo a sostenere il governo Segni che ha l’appoggio del Movimento Sociale Italiano?». Moro prima mi diede una risposta pubblica e poi mi chiese se ero disponibile a confrontarmi con lui a piazza del Gesù. Lui ascoltava chi aveva opinioni diverse dalle sue, non lo definiva “gufo”, come fa oggi Renzi. Andai a trovarlo. Parlammo per due ore. Io gli dicevo che volevo realizzare l’accordo con i socialisti, lui mi spiegava che cosa bisognava fare per raggiungere il traguardo. Erano necessarie tre condizioni». Quali? «Spiegare a livello internazionale che l’alleanza con i socialisti non avrebbe modificato la collocazione italiana all’interno del patto Atlantico. Spiegare al mondo cattolico che l’ispirazione cristiana della Dc non sarebbe venuta meno. Sosteneva che metà avrebbe capito e l’altra metà no, ma bisogna farlo. E infine evitare di perdere l’elettorato reazionario del Mezzogiorno. In maniera capace e suadente, preparò queste condizioni da segretario e le mise in pratica da presidente del Consiglio». Bisognava lavorarci, insomma. Nel frattempo, le correnti della Dc inondano il Paese con il governo Tambroni. Siamo nel 1960 e il premier riceve l’appoggio esterno dei post fascisti del Msi. Una parte della Dc fibrilla. Intuita la natura della maggioranza si dimettono subito i ministri della sinistra del partito Giulio Pastore, Giorgio Bo e Fiorentino Sullo. «In realtà Sullo tentennava» racconta De Mita. «Per accelerare la sua decisione pubblicammo un comunicato in cui annunciava le sue dimissioni». Nel Paese sale la tensione. Durante una manifestazione a Reggio Emilia le forze dell’ordine uccidono cinque manifestanti. In seguito agli scontri genovesi tra i militanti della Camera del Lavoro di Genova e la celere, la direzione della Dc licenzia il governo.

La sorpresa del 1968. Il congresso di Napoli del 1962 è quello che traghetta definitivamente la Dc nella prospettiva del centrosinistra. Moro, segretario in carica, riconfermato, parla per sette ore. De Mita: «Più che relazioni, le nostre erano spesso delle lezioni. Moro è stato il gestore della Dc più raffinato, aveva una spiccata intelligenza operativa». Nascono i governi con l’appoggio dei socialisti. Ma comincia anche un quindicennio durissimo in cui si alternano riforme, piani eversivi, governi balneari, colpi di Stato abortiti, stragi, contestazioni giovanili, lotte operaie e di nuovo scontri durissimi all’interno della Dc. All’epoca De Mita ha ricoperto anche l’incarico di Sottosegretario agli Interni: «Mi ritrovai a spiegare a un prefetto che certi atteggiamenti non andavano repressi. Nessuna forza politica, neppure la Democrazia Cristiana, arrivò preparata al Sessantotto. La lettura più affascinante di quegli anni la diede proprio Moro, quando analizzò le trasformazioni in corso nel mondo giovanile e nell’universo femminile e disse che dopo la stagione dei diritti il Paese si sarebbe salvato solo se avesse aperto la stagione dei doveri».
Tra la fine degli Anni 60 e l’inizio dei Settanta nella Dc, viene anche introdotto il leggendario manuale Cencelli. La necessità si palesa plastica durante il congresso di Milano del 1968, quando la corrente dei “pontieri” ottiene il 12% dei delegati e ci si chiede quanti posti debba avere nel governo. A quel punto Massimiliano Cencelli, funzionario bianco, elabora un metodo di calcolo infallibile per spartire le poltrone: con tanto di ministri di serie A, B e C da assegnare in base alla forza delle correnti. Si alternano governi di centrodestra e di centrosinistra. Il centro è sempre la Dc. Con quella disinvoltura che solo un partito che era esso stesso “una coalizione” (copyright De Mita) può avere: Moro, padre del centrosinistra manda al Quirinale Antonio Segni, che aveva governato con i post fascisti e che nel 1974 viene accusato di aver avallato l’eversivo piano Solo del generale De Lorenzo. Andreotti nel 1972 guida un governo con il liberale Malagodi (che in pratica mette fine al centrosinistra) e quattro anni dopo è alla presidenza del consiglio con l’appoggio esterno dei comunisti italiani. La Dc governa mentre viene approvato lo Statuto dei lavoratori nel 1970 e nel 1974 entra nella trincea fanfascista del referendum sul divorzio. Ne esce con le ossa rotte. Alle amministrative del ’75 c’è un tracollo. Fanfani che nel frattempo era tornato alla segreteria, traballa e cade. «Io partecipo all’organizzazione della sfiducia a Fanfani», racconta De Mita. «Poi cerco di capire se è possibile far tornare Moro alla guida di piazza del Gesù. Vengo mandato a parlare proprio con Fanfani. Si possono immaginare le mie condizioni psicologiche». Il carnefice di fronte alla vittima. «Sorprendentemente mi accolse con simpatia. Alla fine facemmo segretario Benigno Zaccagnini anche con i voti dei centristi storici del partito, che erano contrari agli accordi a sinistra, ma erano anche persone di grande saggezza».
L’anno successivo si svolge uno dei congressi più drammatici dello Scudo Crociato. Roma, 1976. Andreotti lo definì: «Gladiatorio». L’Espresso si divertì a srotolare gli insulti volati in sala riferiti ai vari leader: «Buffone e bugiardo» a Fanfani, «venduto, Giuda, traditore» a Rumor, «puzzone» a Piccoli.
Critiche feroci tra “amici”, critiche feroci da sinistra. Quando Leonardo Sciascia scrive Todo modo nel 1974 descrive così la diccì siciliana: «Ministri, deputati, professori, artisti, finanzieri, industriali: quella che si suole chiamare la classe dirigente. E che cosa dirigeva in concreto, effettivamente? Una ragnatela nel vuoto, la propria nobile ragnatela». Lotta Continua nel 1975 dedica alla Dc uno speciale “Trent’anni di regime”. Nello stesso anno Luigi Pintor sostiene che la Dc è «… la forma micidiale e contagiosa di cinismo politico, la ragion di Stato come cornice e copertura del crimine di Stato, le trame e le bombe e gli omissis come arti complementari di governo». Pier Paolo Pasolini in una serie di articoli pubblicati sul Corriere della Sera e sul Mondo immagina addirittura un processo alla Democrazia Cristiana. Ecco i capi d’imputazione: «…Indegnità, disprezzo per i cittadini, manipolazione di denaro pubblico, intrallazzo con i petrolieri, con gli industriali, con i banchieri, connivenza con la mafia, alto tradimento in favore di una nazione straniera, collaborazione con la Cia, responsabilità nelle stragi di Milano, Brescia e Bologna (almeno nell’incapacità di punirne gli esecutori)…». De Mita non ci sta. Oggi dice: «La lettura della storia della Dc non è colpa di chi l’ha fatta, ma di chi non l’ha spiegata. E, certo, l’attraversamento politico della Democrazia Cristiana della storia di questo Paese non è stata un’opera di beatitudine. È stato uno scontro tra interessi vari che si è espresso con la violenza della forza. A me non interessa il giudizio moralistico sul comportamento dei singoli. Il comportamento politico si giudica dal risultato politico. E il risultato politico è un Paese che esce dalla guerra e dall’esperienza del fascismo con una struttura clericale arretrata e ha una trasformazione inimmaginabile. Credo che nessun altro pezzo di terra del pianeta abbia subito una simile trasformazione in soli trent’anni. Merito solo della Dc? No. Ma io sono uno di quelli che ha lottato per assegnare alla sinistra un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra democrazia. Finita questa storia democristiana che molti vogliono solo negativa, mi sapete dire che cosa è successo dopo? Chi è arrivato? C’è stato un periodo in cui io ero molto più duro con alcune espressioni della Dc, ora ho corretto il giudizio. Non nel senso che assolvo i singoli, ma ho capito la lezione morotea: individuata una difficoltà non ci si rassegna, la si riduce».
Sono parole simili a quelle usate dallo stesso Moro, nel 1977, al termine dei lavori della Commissione parlamentare inquirente che si occupa dello scandalo Lockheed (che ha coinvolto alcuni ministri e dirigenti Dc in un giro di mazzette): «Abbiamo certo commesso anche degli errori politici, ma le nostre grandi scelte sono state di libertà e di progresso ed hanno avuto un respiro storico (…) Onorevoli colleghi che ci avete preannunciato il processo sulle piazze, vi diciamo che noi non ci faremo processare. Se avete un minimo di saggezza, della quale, talvolta, si sarebbe indotti a dubitare, vi diciamo fermamente di non sottovalutare la grande forza dell’opinione pubblica che, da più di tre decenni, trova nella Democrazia Cristiana la sua espressione e la sua difesa».

I giorni più difficili. Un anno dopo Moro viene processato e ucciso dalle Br. Molti hanno sostenuto che la Dc si sia sgretolata in quel momento. E che la Prima Repubblica sia morta insieme con Moro. La mattina del 16 marzo 1978, quando Moro viene rapito e la sua scorta massacrata dai terroristi, si deve votare la fiducia del secondo governo Andreotti. Il Pci ha alcune perplessità sui nomi dei ministri. «Stavo andando in Consiglio dei Ministri», racconta De Mita, che allora era titolare del dicastero per gli Interventi straordinari nel Mezzogiorno. «Mi chiamò Mastella per darmi la notizia. Corsi alla Camera. Poi a Palazzo Chigi. C’era grande smarrimento. Giancarlo Pajetta disse ad Andreotti di andare in Parlamento, ché il Pci avrebbe votato la fiducia. Quando arrivò la prima lettera di Moro, quella indirizzata al ministro dell’Interno Francesco Cossiga, ci riunimmo alla Camilluccia». Lì c’era la scuola quadri della Dc. «Io che non ho mai preso appunti, in quell’occasione tenni il verbale degli interventi. La tesi prevalente era che non si doveva trattare con le Br, perché la trattativa non era praticabile». È la linea della fermezza, su cui Dc e Pci si saldano durante tutti i 55 giorni della prigionia di Moro. Inamovibili. «Ero amico fraterno di Riccardo Misasi. Lui era molto legato a Moro e sosteneva che dovevamo cedere. Io gli spiegavo che cedere per poi smarrirsi sarebbe stato molto pericoloso. Un giorno, a piazza del Gesù, scrivemmo un comunicato in cui facevamo un minimo accenno all’ipotesi di una trattativa. Il comunicato venne letto dal nostro Giovanni Galloni a Gerardo Chiaromonte del Pci. Non avemmo una risposta positiva. I comunisti non lo condivisero. Erano in difficoltà per la linea che avevano assunto all’interno del loro partito nella lotta alle Br. Col senno di poi, bisognava trattare, certo, ma non sembrava proprio che ci fosse alcuna agibilità».
Con la morte di Moro crolla la solidarietà nazionale. I partiti sbandano. Alle elezioni del 1979 la Dc tiene, il Pci arretra, il Psi di Craxi resta sotto il 10%. Il Presidente della Repubblica, Sandro Pertini, prova ad affidare l’incarico di formare il governo al leader socialista Bettino Craxi. «Proposi alla Direzione della Dc», racconta De Mita, «di stilare un comunicato facendo notare al Capo dello Stato che con quell’incarico evidentemente lui prevedeva l’organizzazione di una diversa maggioranza”. Alla fine Craxi non passò. «Ipotizzai un nuovo governo con l’appoggio del Pci. Ma Chiaromonte, dirigente di Botteghe Oscure, mi spiegò che i comunisti avrebbero accettato solo partecipando con dei ministri. Portai la proposta di nuova alleanza col Pci al congresso della Dc del 1980, ma nel frattempo i centristi avevano organizzato il cosiddetto governo del preambolo».
Il segretario eletto da quel congresso è Flaminio Piccoli. «Le amministrative del 1980», ricorda De Mita, «furono catastrofiche. Noi della base ci riunimmo nella sagrestia di una piccola parrocchia dell’Eur per analizzare i risultati. Quasi tutti proposero la sostituzione di Piccoli. Io sostenni che la priorità era cambiare il modo di essere della Dc. E portai questa linea nel successivo Consiglio Nazionale. Lì, a sorpresa, Fanfani mi disse che lo avevo quasi convinto. La linea maturava». Nel frattempo esplode anche lo scandalo P2. Nelle liste della loggia massonica di Licio Gelli compaiono molti democristiani. Il governo Forlani si dimette.
«Alla fine del 1981» spiega De Mita, «organizzammo un’Assemblea con militanti, professori universitari, economisti». L’Assemblea degli Esterni. «Un modo per recuperare il rapporto con il retroterra del mondo cattolico, perché negli anni precedenti ci eravamo un po’ sputtanati. Fu un successo. Io preparai una bozza di intervento conclusivo. Spiegai a Piccoli che se l’avesse pronunciato il Segretario sarebbe stato molto più efficace. Lui lo lesse e si prese molti applausi. Nei giorni successivi Piccoli si presentò nel mio ufficio. Era molto soddisfatto. Mi disse che aveva parlato con la moglie e che dovevo essere io il segretario. Lui parlava sempre con la moglie prima di prendere una decisione. Appena cominciammo le riunioni di periferia per organizzare il congresso, però, Piccoli, galvanizzato dal nuovo clima che si era creato intorno al partito, cambiò idea. Io non sono uno stratega, non mi piace ottenere le cose per forza, però ormai ero in gioco, e allora mossi le mie relazioni all’interno della Dc per giocare». Siamo alla vigilia del congresso Dc del 1982, quello che porterà De Mita a un lungo periodo di leadership scudocrociata e alla nascita di nuovi conflitti tra nuovi leader.

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La Dc costituente degli anni Quaranta e la Dc trionfante degli anni Cinquanta. La Dc ruvidamente anti-comunista e quella che con il Pci diventa solidale. La Dc dell’apparato statale degli anni Sessanta e quella della traversata nel fuoco degli anni Settanta, al centro di opposti estremismi. La Dc processata dagli intellettuali della sinistra. La Dc paralizzata dall’omicidio Moro. Eravamo arrivati qui. Il terrorismo non frena, la strage alla stazione di Bologna squarcia il Paese. L’Italia si affaccia ammaccata sugli anni Ottanta. Il partito cerca il rinnovamento ed elegge un segretario che sarà il più longevo della storia scudocrociata: Ciriaco De Mita, che è anche la nostra guida nel ventre della Balena Bianca.
Siamo nel maggio 1982, vigilia dei Mundial spagnoli che vedranno trionfare gli Azzurri di Enzo Bearzot. De Mita racconta: «Al congresso di Roma, che si tenne all’Eur, mi appoggiarono sia Fanfani sia Andreotti». A Palazzo Chigi c’è Giovanni Spadolini, segretario del Pri e primo premier non diccì della storia repubblicana. «In quel momento portavo avanti una riflessione sui costi eccessivi della spesa pubblica e sulla necessità di politiche di risanamento – racconta De Mita – una sera, a cena a casa di Carlo De Benedetti, raccontai a Spadolini i miei propositi. C’erano anche Bruno Visentini, Eugenio Scalfari e Inge Feltrinelli. Spadolini mi disse che lui non avrebbe mai proposto la manovra che ipotizzavo. Neanche a sinistra accettavano quella prospettiva: l’Unità cominciò ad attaccarmi sostenendo che volevo cancellare lo Stato sociale. Io sostenevo solo che per mantenere un welfare sano si dovessero organizzare i servizi in maniera diversa».
Qualche mese dopo il suo insediamento, De Mita deve gestire la crisi del governo Spadolini. «Ci fu un tentativo maldestro dei socialisti d’indebolirmi. Rino Formica, ministro delle Finanze, si dimise per un contrasto sul prezzo della benzina. Pertini, che era in Trentino, tornò a Roma convinto di sciogliere le Camere. Nel frattempo, però, avevo avuto rassicurazioni da parte di Berlinguer sul fatto che il Pci avrebbe consentito la continuazione della legislatura. Allora, lavorai per formare un governo identico al precedente, proprio per far capire ai socialisti che la loro operazione era stata inutile». Quel governo passa alla storia come “il governo fotocopia” e regge fino a dicembre 1982. Poi tocca di nuovo a Fanfani. De Mita ricorda: «Proposi ad Amintore di mettere Andreotti agli Esteri, ma lui si rifiutò. Evidentemente tra i due era maturata un’ostilità insormontabile. Il braccio destro di Andreotti, Franco Evangelisti, venne da me sostenendo che non era immaginabile che un segretario della Dc non riuscisse a imporre un ministro. In qualche modo aveva ragione. Ma che cosa potevo fare? Andai a trovare Andreotti. Mi accolse con un’espressione funerea. Sembrava che avesse perso un parente. Fuori dal governo, si sentiva morto».
Fanfani dura poco. Nel giugno 1983 si va a elezioni. La Dc ha un tracollo: passa dal 38% al 33%. Il Psi sale. «A quel punto ipotizzai un governo Craxi – racconta De Mita – c’incontrammo in un convento sull’Appia Antica. Craxi mi disse che lui avrebbe voluto fare metà legislatura a testa. Replicai che ero d’accordo, perché sarebbe stato strano se la Dc, partito di maggioranza, non fosse andata alla guida del governo per l’intera legislatura. A Craxi ho sempre spiegato che lui aveva due strade percorribili: mettersi a capo del rinnovamento della sinistra o allearsi con me, a condizione, però, di rinnovare insieme le istituzioni». La vulgata vuole che sia stato Craxi in quegli anni il motore di una possibile riforma istituzionale. «Non è vero – continua De Mita – i socialisti durante i loro congressi parlavano dell’elezione diretta del presidente della Repubblica. Ma poi politicamente non aprivano mai un dialogo sulle riforme. Lo stesso Bobo, figlio di Bettino, qualche anno fa ha scritto un articolo dicendo che se il padre avesse accettato di realizzare le riforme proposte da me la storia sarebbe cambiata».

Cossiga piccona. Con Craxi e il pentapartito si raggiunge una solida stabilità di governo. La Dc, però, fibrilla. Al congresso del 1984, durante il quale De Mita si esibisce in una relazione fiume di più di quattro ore, i delegati vengono alle mani. Da una parte i demitiani e le cosiddette truppe mastellate, dall’altra i cislini di Franco Marini. De Mita: «Dissi pubblicamente a Marini che se era venuto al congresso per fare bassa propaganda aveva sbagliato indirizzo. Gli animi si scaldarono. Diciamo che all’epoca la selezione della classe dirigente era un percorso a ostacoli. In quegli anni, cercai di rinnovare profondamente il partito, soprattutto in alcune Regioni: non volendo confermare certi politici siciliani un po’ chiacchierati, m’inventai che non era possibile partecipare a più di tre legislature». De Mita rottamatore pre-renziano? «No. Io non ho mai posto la questione dell’età. Ho cercato di cambiare dirigenti dialogando e mai insultando. Nel caso siciliano trovai semplicemente un modo discreto per allontanarli, un po’ diverso dalle epurazioni giudiziarie fatte con infamia e senza alcuna prova certa che vanno di moda oggi».
Il 1985 è l’anno dello scontro tra il Psi, il Pci e la Cgil spaccata per il referendum sulla Scala Mobile. È l’anno degli attriti con gli Stati Uniti per la crisi di Sigonella e della proclamazione al Quirinale di Francesco Cossiga. «Andreotti voleva diventare presidente – racconta De Mita – Alessandro Natta, segretario del Pci post berlingueriano, però mi fece sapere che loro non lo avrebbero sostenuto. Allora, con una liturgia ben preparata, feci in modo che il nome di Francesco Cossiga entrasse nelle terne dei papabili di tutti i partiti». Cossiga alla fine del suo mandato diventa “il presidente Picconatore”, comincia a sparare a palle incatenate contro il sistema dei partiti, anche contro la Dc. Quando esplode l’affaire Gladio, il presidente della Repubblica difende l’organizzazione segreta anticomunista e anche per questo, nel 1991, il Pds di Achille Occhetto ne chiede la messa in stato d’accusa. «Gladio l’aveva tirata fuori Andreotti per fare un favore alla sinistra e cercare un appoggio per il Quirinale – dice De Mita – il clamore che ne venne fuori è assolutamente ingiustificato: la possibilità di un conflitto Est-Ovest prima del crollo del Muro è stata alta. Non si può giudicare Gladio senza tener conto della complessità degli eventi e della necessità di tutelare le istituzioni democratiche. Fu stupido da parte di Spadolini e di Craxi affermare che non ne sapessero nulla, perché a tutti i presidenti del Consiglio dopo l’insediamento veniva fatta firmare una presa di coscienza sull’esistenza di Gladio».

Il clan degli avellinesi. Alla fine degli anni Ottanta, l’irpino De Mita oltre che segretario della Dc diventa anche presidente del Consiglio. In Transatlantico comincia a circolare la battuta secondo cui «Napoli è stata ribattezzata Avellino marittima». Il “clan degli avellinesi”, i collaboratori più stretti dello stesso De Mita, diventa perno centrale prima della Regione Campania e poi del governo nazionale. Quando si rinfacciano a De Mita le assunzioni in Rai di quegli anni in quota Dc, lui ammette di «aver segnalato decine di persone», ma dice di averlo fatto «anche con giornalisti vicini al Pci» perché il suo impegno «è sempre stato quello della costruzione delle novità». Sul rapporto tra preferenze, voto di scambio e clientele che in quegli anni sembrano esplodere, ha un’idea molto precisa e molto poco pop: «La lettura per cui la Dc amasse il voto con le preferenze per coltivare le clientele è idiota. Per noi il rapporto con l’elettore non era la cattura del voto. Il nostro scopo era la rappresentanza dell’elettore e la tutela dei suoi interessi». Il problema sorge quando gli interessi locali confliggono troppo con quelli nazionali e fanno esplodere la spesa pubblica. «Sì, ma sia chiaro che il rapporto con l’elettore mette in difficoltà il candidato perché l’elettore si aspetta riforme e una migliore qualità della vita. Se il medico non ti guarisce, tu cambi medico. A me hanno sempre rinfacciato il fatto di aver portato imprenditori nel mio territorio e di aver cercato di tutelare le loro imprese. In realtà tutti i parlamentari, anche quelli comunisti che mi criticavano, hanno sempre cercato di curare il loro collegio elettorale». La difesa dell’operato democristiano continua quando si parla dell’arretratezza del Meridione. De Mita non ritiene che la Dc abbia particolari responsabilità di malgoverno. Ha anche nostalgia della Cassa del Mezzogiorno. «Venne smantellata una struttura piena di tecnici capacissimi e di funzionari che hanno tutelato il territorio e l’ambiente. Le scelte politiche e gli eventi vanno interpretati per come hanno cambiato la realtà. Ed è innegabile che le regioni del Sud tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta abbiano avuto una evoluzione inimmaginabile».
Craxi e De Mita, i due pesi massimi della politica italiana degli anni Ottanta, pur facendo parte della stessa maggioranza, si combattono politicamente per un decennio. Sulla stampa si arriva addirittura alla diatriba becera su chi dei due abbia più “palle”. De Mita: «Credo che fossimo d’accordo sul fatto che le avevamo entrambi. La prima volta che ho incontrato Craxi non mi fece una buona impressione. Stavo camminando per strada con Giovanni Marcora e lui, che lo conosceva, vedendolo venirci incontro gli chiese: “Dove vai?”. Craxi replicò: “A chiavare!». Nel 1989, poi, Craxi si comportò in modo mediocre per come fece cadere il mio governo. Ma dopo di allora ci fu un rapporto d’incredibile solidarietà umana. Veniva a casa mia, discutevamo». Sono gli anni del Caf, l’asse politico Dc-Psi, tra Craxi, Andreotti e Forlani che governa il Paese, mentre crolla il Muro di Berlino e finisce la storia del Pci.

Andreotti sconfitto. Politiche del 1992. Le indagini di Tangentopoli sono già in corso, ma i partiti non sono ancora consapevoli di che cosa gli si sta per rovesciare addosso. «Allora ero presidente della Dc – ricorda De Mita – dopo le elezioni proposi un governo di larga solidarietà, anche con il Pds. Ne andai a parlare con Craxi. Non era disponibile. Spostò il discorso proponendomi di fare il presidente della Camera, ma gli spiegai che avrei preferito guidare la Bicamerale per le riforme. Alla presidenza della Camera andò Oscar Luigi Scalfaro. Dopo qualche giorno si cominciò a discutere del Quirinale. Incontrai di nuovo Craxi e lui mi disse che non avrebbe votato per Andreotti. Tornai dai miei. In segreteria s’ipotizzò proprio il nome di Andreotti. Lui era convinto di avere tutti i voti dei partiti di governo, ma io sapevo che gli mancavano i voti socialisti. Allora provammo a candidare il nostro segretario, Arnaldo Forlani. E casualmente vennero a mancare trenta voti, lo stesso numero dei parlamentari andreottiani. A quel punto spostammo la scelta su uno dei presidenti delle Camere. La delegazione comunista, guidata da Luciano Lama, a sorpresa, ci diede il nome di Scalfaro».
Il 23 maggio 1992, quarantotto ore prima dell’elezione di Scalfaro, a Capaci, Giovanni Falcone viene assassinato dalla mafia insieme con sua moglie e con la sua scorta. È un colpo feroce allo Stato. De Mita: «A marzo di quell’anno Falcone mi cercò. Io credevo che volesse parlare della nomina del giudice istruttore di Palermo e all’inizio cercai di evitarlo. Mi fece sapere che mi avrebbe raggiunto ovunque fossi. Si fece trovare all’Hotel Hilton. Entrò nella mia macchina e mi disse quel che temeva. E cioè che la mafia dopo la sentenza della Cassazione sul maxi processo si doveva riorganizzare e stava elevando lo scontro a livello dello Stato. Quando obiettai che in realtà la mafia aveva appena ucciso Salvo Lima, uomo della Dc, andreottiano, più volte comparso nelle relazioni della Commissione parlamentare antimafia, lui replicò che Lima rappresentava il governo sul territorio, non la mafia». Che la Dc abbia avuto collusioni con Cosa Nostra è cosa arcinota, ma anche su questo punto De Mita elabora una contro-vulgata: «Inizialmente i rapporti della Dc con una parte della mafia furono necessari per sconfiggere l’indipendentismo siciliano. Governare in Sicilia senza avere alcun contatto con la mafia o lottando contro di essa non è facile».
Dopo la morte di Falcone, i partiti lavorano per la nascita del nuovo governo. «Craxi era convinto di ricevere l’incarico – racconta De Mita – voleva assegnare l’Economia a Bruno Visentini. A me disse: «Ma quale Bicamerale? Vieni a fare il ministro degli Esteri e giriamo il mondo». Non aveva capito nulla di quello che sarebbe successo ai partiti con Tangentopoli. Quando si rese conto che Scalfaro non lo avrebbe indicato come premier, stilò la terna dei possibili presidenti del Consiglio: Giuliano Amato, Gianni De Michelis e Claudio Martelli». Nel giugno del 1992 Giuliano Amato va a Palazzo Chigi appoggiato da un quadripartito: Dc, Psi, Psdi e Pli. Siamo agli sgoccioli della Prima Repubblica. Montano i processi per micro e maxi-tangenti. Il 1992-1993 è il biennio durante il quale arrivano gli avvisi di garanzia del pool di Mani Pulite sulle scrivanie dei segretari di partito. Arnaldo Forlani affronta pietrificato le domande di Antonio Di Pietro in diretta tv.

Nessuno escluso. Craxi si difende sia in tribunale sia dai banchi della Camera. Ecco una parte del suo intervento: «I partiti, specie quelli che contano su apparati grandi, medi o piccoli, giornali, attività propagandistiche, promozionali e associative, e con essi molte e varie strutture politiche e operative, hanno ricorso e ricorrono all’uso di risorse aggiuntive in forma irregolare o illegale. Se gran parte di questa materia deve essere considerata materia puramente criminale, allora gran parte del sistema sarebbe un sistema criminale. Non credo che ci sia nessuno in quest’aula, responsabile politico di organizzazioni importanti, che possa alzarsi e pronunciare un giuramento in senso contrario a quanto affermo perché presto o tardi i fatti si incaricherebbero di dichiararlo spergiuro». De Mita ricorda: «Da premier io ero stato in visita in Giappone. A un certo punto chiesi ai miei ospiti come avevano vissuto la fine della guerra e la sconfitta. Loro mi dissero che, siccome avevano sbagliato tutti, era stato considerato inutile trovare un capro espiatorio. Ecco, il discorso di Craxi, se condiviso, avrebbe potuto costituire una via di uscita dignitosa e autorevole. Ma era un momento in cui il rapporto nei partiti e tra i partiti si era slacciato. E così abbiamo preferito sbranarci a vicenda». La Balena Bianca annaspa. Alle Comunali del 1993 ottiene l’11,2% su scala nazionale. Nel gennaio 1994, lasciano il partito sia il leader referendario Mario Segni sia alcuni parlamentari scudocrociati che creano il Centro cristiano democratico. Il segretario Mino Martinazzoli decide di chiudere i battenti: la Dc muore e nasce il Partito popolare italiano. «La Dc in realtà non è finita per colpe – spiega De Mita – la Dc è finita perché il Padre Eterno l’ha punita: vedendo che avevamo esaurito la grande motivazione ideale, negli ultimi anni mandò a dirigere il partito persone poco competenti. Oggi che sono andate in crisi le culture tradizionali del Novecento, a partire da quella socialista, l’unica che sopravvive è quella popolare. Vado in giro dialogando con le persone e la cosa che mi sorprende è il ripensamento della storia democristiana da parte di vecchi comunisti che non hanno aderito al Pd: hanno capito che la forza della cultura popolare consiste nel fatto che faccia riferimento a un metodo fondato sull’accrescimento della rappresentanza dell’elettore. Il voto come strumento, non come fine. Negli ultimissimi anni, però, mi pare che il voto serva per legittimare chi comanda e non per tener conto della rappresentanza. E… ecco, credo che la crisi del sistema democratico in Italia più, che esser figlia della grande storia Dc, faccia riferimento all’incapacità di chi oggi organizza la politica».

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