Vincenzo De Bellis (Sette – maggio 2016)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 13 maggio 2016).
Il mondo del 38enne Vincenzo De Bellis è fatto di artisti più o meno glamour, fondazioni della moda che investono in arte più di quanto non faccia un museo nazionale e opere scambiate sul mercato come fossero azioni di Wall Street. Per quattro anni ha diretto Miart, la fiera meneghina di arte moderna e contemporanea e, vox populi, ne ha risollevato le sorti. Ora è in partenza per Minneapolis, dove entrerà nello staff del Walker Art Center, seguendo le orme di altri curatori-star, in fuga dall’Italia. L’intervista si svolge via Skype. Quando si accorge della mia perplessità di fronte alla sua scelta di trasferire armi&bagagli nella ridente città del Minnessota, De Bellis prima si inorgoglisce: «Il Walker Art Center è uno dei Big Five dell’arte contemporanea americana». Poi tira un sospiro e spiega: «Io ho provato a rimanere. Ma tra chi ti dice che sei bravo dandoti una pacca sulla spalla e chi ti dà una vera chance e delle responsabilità, c’è una differenza enorme a cui io ho sempre dato grande peso».
Negli ultimi anni c’è stata un’emorragia di curatori italiani verso musei all’estero.
«Nei musei italiani, ci sono i direttori, ma mancano i curatori, cioè quelli professionalmente preparati per creare una mostra. C’è una generazione intera di curatori con grande esperienza da indipendenti, a cui però non vengono date opportunità adeguate. Io ho sempre cercato di cogliere le occasione anche quando non sembravano allettanti».
Un esempio?
«Quando nel 2012 arrivò la proposta di Miart, tutte le persone a cui chiedevo un consiglio cercavano di dissuadermi».
Perché?
«Perché quella di Milano era una fiera in difficoltà. Ma era la prima volta che qualcuno mi diceva: “Crediamo ciecamente in te». E quindi accettai l’incarico, con la presunzione di poter cambiare qualcosa. Credo che la sorte di un luogo dipenda dalle persone che lo abitano».
C’è un museo italiano che ti piacerebbe dirigere?
«I migliori per l’arte contemporanea oggi sono il Madre di Napoli, il Museion di Bolzano e il Mart di Rovereto che ha le caratteristiche di un museo internazionale».
Se avessi di fronte a te il ministro dei Beni Culturali, Dario Franceschini, che cosa gli suggeriresti?
«Due cose: completare il ricambio generazionale nelle direzioni dei musei e dare stabilità alla loro governance con una separazione netta e totale tra le scelte politiche e quelle tecnico/artistiche: il direttore è un tecnico e non è più pensabile che venga nominato per motivi politici».
Da tecnico del mercato dell’arte, invece, che cosa chiederesti al ministro dell’Economia, Giancarlo Padoan?
«Di abbassare l’Iva sulle opere d’arte. Se vogliamo un mercato più trasparente, dobbiamo renderlo più attrattivo».
Traduco: se non vogliamo che le opere vengano vendute in nero, abbassiamo l’Iva.
«Esatto. Se io cerco una fotografia dell’artista Thomas Ruff e ne trovo tre identiche, una in una galleria americana, un’altra a Parigi e un’altra a Milano, perché la dovrei comprare in Italia dove costa il 10% in più?».
È vero che in questo momento c’è un rischio omologazione negli acquisti d’arte?
«Un po’ sì. Siamo vittime della libertà che abbiamo di osservare gli altri attraverso la Rete. Molti collezionisti si inseguono a vicenda. E se un trendsetter del collezionismo si fa vedere su una rivista con tre Fontana gialli, dopo poco vedremo un po’ ovunque i Fontana gialli. Questo anche perché il collezionista che può acquistare un solo pezzo non vuole sbagliare investimento».
È vero che esistono i personal shopper dell’arte?
«Si chiamano advisor. Spesso non vengono dal mondo dell’arte e suggeriscono opere soprattutto per motivi di investimento. Poi ci sono i curatori delle collezioni personali che sono un’altra cosa».
E cioè?
«Sono quasi sempre studiosi d’arte e collaborano con le persone che vogliono una collezione di tipo museale. Sono quelli che cercano di evitare le scelte omologanti».
Non è che tra curatori, investimenti, feste glamour, advisor e collezionisti omologati, il mondo dell’arte ha ceduto troppo al marketing e ha reso secondari e intercambiabili gli artisti e le loro opere?
«È un rischio reale. Ma ci sono anche molti curatori bravissimi e influenti che mettono l’artista al centro dei loro interessi».
Fuori i nomi…
«Massimiliano Gioni, Vicente Todolì e Carolyn Christov-Bakargiev»
Vedi all’orizzonte qualche artista italiano che otterrà i successi di Cattelan e di Beecroft?
«Vedo crescere artisti meno pop e più riflessivi, diversi dalle star che hai citato: Lara Favaretto, Roberto Cuoghi, Pietro Roccasalva, Diego Perrone…».
Quando hai cominciato a occuparti d’arte?
«La passione è nata al liceo, grazie a una professoressa talentuosa. Poi mi sono iscritto alla facoltà di Conservazione dei Beni Culturali di Lecce. Il giorno dopo la laurea ho cominciato a spedire il curriculum in tutta Italia».
Chi lo ha accolto?
«La Fondazione Prada, a Milano».
Prima mansione?
«Guardiania. In sala».
Il custode con laurea in tasca. Un classico italiano: anni di studi gettati nel tritacarne storto del mondo del lavoro.
«Diciamo che c’è più di una generazione di storici dell’arte italiani che non avendo accesso al mondo accademico si sono dovuti adeguare alle opportunità che offre il mondo dell’arte: spesso ruoli organizzativi. Negli Stati Uniti la divisione tra chi vuole continuare a studiare e chi invece vuole affrontare il mondo delle esposizioni comincia già all’università. Comunque quella della guardiania fu un’esperienza utilissima. Se hai la fortuna di vedere Germano Celant muoversi tra i capolavori, qualcosa impari. Dopo quell’esperienza mi sono rimesso a studiare: un master che si svolgeva al Museo d’arte contemporanea di Roma (Macro) che mi ha portato a uno stage alla Galleria di Arte Moderna e Contemporanea di Bergamo (Gamec)».
A Bergamo hai cominciato a curare qualche mostra?
«No. Esordio pulendo i pavimenti in sala…».
Scherzi?
«…e approdo alla stesura di qualche testo. Uno dei primi giorni mentre ero in sala mi è caduta in testa un pezzo di un’opera del 1975 di Alighiero Boetti: Cimento dell’armonia e dell’invenzione. Giacinto Di Pietrantonio, direttore della Galleria, era molto più preoccupato per l’opera che per la mia testa, ahah. In quegli anni grazie alla guida di Giacinto ho viaggiato e ho conosciuto molti artisti di cui sono diventato amico: Alberto Garutti, Francesco Vezzoli, Vanessa Beecroft, Diego Perrone… Molti erano stati suoi allievi all’Accademia».
Quanto sei rimasto a Bergamo?
«Due anni. Quando ho capito che non arrivava mai la possibilità di vedere la mia firma su un progetto e che tutte quelle collaborazioni non sarebbero mai diventate un lavoro vero, ho fatto domanda per un master di studi curatoriali al Bard College e sono partito per New York. Gli insegnanti erano i migliori curatori del mondo. Diciamo che ho vissuto due anni con parecchia pressione addosso».
Il rientro in Italia?
«Duro. Non avevo grandi possibilità di curare mostre. Allora, con Anna Daneri e Bruna Roccasalva abbiamo aperto un nostro spazio, il Peep-Hole».
È una galleria?
«Non esattamente. È un centro che si finanzia attraverso donazioni e con l’aiuto degli artisti che regalano opere. Quando abbiamo aperto, nel 2009, Milano non era come è ora. Il mondo dell’arte contemporanea era più fermo. Sembrano passati secoli. In poco tempo, intorno a Peep-Hole, si è creato un grande gruppo di appassionati d’arte, collezionisti, artisti. La rivista Mousse ha aperto una casa editrice grazie a un nostro progetto. Insomma è nata una comunità».
Ora vai in America…
«Bruna, che è anche mia moglie, viene con me. Ma Peep-Hole continua a vivere».
Il critico Luca Beatrice della mostra Ennesima che hai curato alla Triennale di Milano ha scritto: «Opere cool… aria di buona educazione… artisti giovani, carini e mosci… Scivolano nel decorativo».
«Beatrice solleva una questione importante: lo spaesamento di molti giovani artisti italiani. Ma io ho aperto la mostra con due lavori di Fabro e Garutti, ex grandi mentori e docenti dell’Accademia, e l’ho chiusa con le opere di artisti nati lavorativamente dopo che Fabro e Garutti avevano smesso di insegnare. Questo per mettere in luce la fragilità del momento in cui versa l’Accademia come istituzione educativa».
A cena col nemico?
«Con Celant, che però non è affatto un nemico. Più semplicemente è il maestro di una generazione diversa dalla mia, con cui non ho mai parlato, ma che è stato importante per la mia formazione».
Qual è l’errore più grande che hai fatto?
«Non cominciare a fare figli prima. Ne ho uno, Corrado, ha tre anni mezzo».
Sai quanto costa un pacco di pannolini?
«Circa dieci euro».
Sai dove si trova La crocifissione di San Pietro di Caravaggio?
«Nella chiesa di San Luigi dei Francesi, a Roma?».
Città giusta, chiesa sbagliata: a Santa Maria del Popolo. Conosci l’articolo 9 della Costituzione?
«No».
Dice che la Repubblica promuove lo sviluppo della cultura. Che cosa guardi in tv?
«Le serie. Ora c’è Gomorra 2».
Di fronte a quale opera metteresti tuo figlio per farlo appassionare all’arte?
«Un Balloon di Jeff Koons».
L’opera che vorresti assolutamente in casa?
«Qualsiasi cosa nata dalle mani di Thomas Schütte».
Potevi citare Luciano Fontana o Alberto Burri e hai citato Schütte!
«È un gigante. Tedesco e poco à la page».
Qual è la prima opera d’arte che hai acquistato?
«Un vaso di Formafantasma».
Ma è un pezzo di design!
«La ritengo più opera d’arte di molte opere che si vedono in circolazione».
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