Antonio Calabrò (Sette – marzo 2016)
0 commenti(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera l’11 marzo 2016).
Antonio Calabrò ha 65 anni e due vite: una da giornalista, l’altra da manager delle istituzioni imprenditoriali e culturali. Redazioni fumose e salotti industriali. È stato cronista e caporedattore dell’Ora di Palermo, vicedirettore del Sole24Ore e direttore dell’agenzia di stampa Ap-com. Ora è consigliere delegato della Fondazione Pirelli, Coordinatore del gruppo tematico Cultura di Confindustria e vice-presidente di Assolombarda. Lo incontro in un bar del centro, a Roma. È domenica mattina. Mazzetta dei quotidiani sul tavolo e caffè. Leggera cadenza palermitana, passione smodata per la politica. Quando gli chiedo che idea si sia fatto di Rosario Crocetta, il presidente (anti-politico?) della Regione Sicilia, colpisce senza esitazione: «Di fronte alla complessità siciliana un arruffone come Crocetta rivela la pochezza nel rapporto tra le cose dette e le cose fatte». La complessità è un leitmotiv di Calabrò. Lui ha appena dato alle stampe un libro (I mille morti di Palermo, Mondadori) che insieme alla montagna di omicidi malavitosi ha l’ambizione di raccontare anche alcuni sorprendenti intrecci politici. Palermo, anni Ottanta. C’è la mattanza: la pulizia etnica organizzata dai boss Corleonesi contro i loro avversari mafiosi. Ci sono le sparatorie, i morti sciolti nell’acido, gli assassini spietati con nomi pittoreschi (scarpuzzedda). C’è Totò Riina, il criminale che “ha il cervello a forma di pistola”. C’è la notte in cui Calabrò lascia precipitosamente la clinica dove è appena nato il suo primogenito, perché hanno ucciso il superboss Stefano Bontade. Ma poi ci sono anche i congressi della Dc, la lotta tra l’ala democristiana che vuole dialogare con il Pci e quella, feroce, che vuole mantenere i rapporti con la Mafia e con le clientele.
Storia politico-criminale di una città in guerra.
«I Corleonesi sono sempre stati raccontati come una banda mafiosa capeggiata da Riina e da Provenzano. In realtà c’era un terzo protagonista: Vito Ciancimino».
Ex potentissimo sindaco diccì.
«Racconto questa triade. All’epoca ero caporedattore dell’Ora. Mi occupavo di politica, ma l’intreccio era talmente fitto che inciampavo continuamente negli omicidi mafiosi».
È vero che ha già ricevuto la telefonata di alcuni superstiti democristiani di quel periodo?
«Mi ha chiamato Calogero Mannino».
Ex ministro della Balena Bianca che qualche mese fa ha accolto l’assoluzione al processo sulla trattativa Stato-Mafia, accarezzando un santino della Madonna del Soccorso.
«Mannino è uomo di cultura sofisticata. Gli devo la scoperta delle interpretazioni di Mahler da parte di Claudio Abbado».
Le ha fatto il fact-checking del libro?
«Non ce ne era bisogno. Lo conosco da quando avevo 18 anni. Proprio allora mi propose di andare a lavorare al Giorno. Non essendo io democristiano, rifiutai».
Lei ha cominciato all’Ora di Palermo. Quotidiano legato al Pci.
«Avevo la tessera del partito in tasca».
Lei è ancora comunista?
«Rivendico con forza quella stagione, fino al 1985».
Quando ha deciso di diventare giornalista?
«La prima volta che ho scritto un articolo è stata a 8 anni. Con altri due bambini facemmo un giornale battuto a macchina e lo vendemmo ai nostri genitori. A 13 ne realizzai un altro, ma col ciclostile. E al liceo divenni direttore del Garibaldi, il periodico della scuola: raccoglievamo anche un po’ di pubblicità».
Siamo nel 1967/68?
«Sì. In quel periodo iniziai a frequentare l’Ora, perché dedicava molto spazio al movimento studentesco. A 22 anni il direttore Vittorio Nisticò mi inviò a Catania per dirigere il piccolo ufficio di corrispondenza. Alcuni di noi erano giovanissimi. Ragazzini messi a fare un lavoro da grandi. La felicità. Nel 1974 tornai a Palermo».
La leggenda narra che nelle stanze dell’Ora nacque anche una tv.
«Eheh. Nel 1981 demmo vita a Telel’Ora».
Una all news?
«Non esattamente. Piazzavamo una telecamera in modo che inquadrasse la stanza principale della redazione. Io presentavo e, man mano che rientravano, facevo raccontare ai cronisti che cosa avrebbero scritto».
Nel 1986 lasciò definitivamente il capoluogo siciliano.
«Ero stanco di contare morti. L’ultimo fu Ninni Cassarà».
Il super poliziotto antimafia ucciso nell’estate del 1985.
«Gli volevo bene. Insieme con Falcone e Di Lello era uno di quelli che ogni tanto ti convocava e ti spiegava che cosa stava succedendo. All’epoca avevo già due figli, Carlo e Manfredi. Capii che non avrei più avuto la lucidità di andare avanti senza peccare o di eccesso di cinismo o di enfasi».
Approdò al Mondo, a Milano.
«A Milano recuperai felicità».
La Milano da bere, su cui poi ha messo le mani la ’ndrangheta.
«Già. Tra il 1988 e il 1989 sulle pagine di Repubblica, dove ero approdato, pubblicammo un paginone con la mappa delle influenze mafiose. La città era un po’ distratta».
Ora sono circa dieci anni che lei non fa più il giornalista.
«Non ho rimpianti. Ma un po’ di nostalgia sì».
Crollano le vendite dei quotidiani. Si fondono i gruppi editoriali. I giornali si salveranno o sono in via di estinzione?
«Gli editori hanno molti problemi economici ed effettivamente non sono bravissimi: sono convinti che si possano fare i giornali senza giornalisti riempiendo le redazioni di ragazzi malpagati. Non si riesce a fare un giornale senza autorevolezza, conoscenza e competenza. E senza giornali si determina una lesione della democrazia».
Il racconto della realtà può passare anche attraverso la fiction. Il libro e il film Gomorra sono stati una sveglia per gli italiani poco attenti alle malefatte del clan dei Casalesi.
«In Gomorra l’infamia e la miseria morale dei personaggi criminali è resa in modo efficace. In altri casi i film e le fiction sulla mafia hanno anche fatto danni».
Un esempio?
«Il padrino».
Un capolavoro.
«Che però falsa la realtà: mette la mafia in un circuito mitico affascinante, descrive una grande epopea di eroi che si fanno la guerra. E non si sofferma sulle aberrazioni delle relazioni mafiose, la crudeltà, il sangue…».
È una critica che è stata fatta anche a Il capo dei capi.
«Una delle fiction peggiori da questo punto di vista. Claudio Gioè è bravissimo, ma Totò Riina non ne esce come un criminale orrendo».
Il male affascina. Da sempre.
«Certo, ma non è detto che con il male si debba stabilire un rapporto simpatetico. Quando Bertolt Brecht nell’Opera da tre soldi introduce il personaggio di Mackie Messer ti fa capire subito che è un infame».
Nel caso di Gomorra si è arrivati a dire: “Basta con questi film che danno una cattiva immagine del Paese”.
«Eh, no. Il problema della brutta immagine riguarda il Paese, non chi lo racconta. Nel 1958 l’Ora pubblicò l’inchiesta La mafia dà pane e morte. Beh, se non ci fosse stato quel racconto saremmo un Paese peggiore».
Il miglior film sulla mafia?
«I cento passi. Il più vero e attento anche alla complessità delle relazioni familiari».
Se un produttore le proponesse di realizzare una fiction ispirata al suo libro…
«Chiederei di rispettare la realtà e di bandire dalla sceneggiatura ogni ombra di propaganda. Mi piacerebbe che venisse riprodotta la complessità delle cose».
I protagonisti positivi…
«Oltre ai più noti Pio Latorre e Piersanti Mattarella, politici e amici onesti trucidati dalla mafia… Direi Gaetano Costa, un magistrato per bene: ex partigiano senza mai vantarsene, viene ammazzato davanti al teatro Massimo mentre passeggia tra le bancarelle di libri antichi. O Pietro Patti, imprenditore che si rifiuta di pagare il pizzo e viene ucciso davanti alle sue figlie mentre le accompagna a scuola. Sono tutte storie che meritano un grande racconto».
Il film preferito?
«Mezzogiorno di fuoco: la preparazione all’assunzione delle proprie responsabilità avendo un fondo di paura».
Il libro?
«Ne leggo davvero tanti».
Quanti?
«Un centinaio all’anno. Però seguo il decalogo dei diritti del lettore di Daniel Pennac».
Quando si annoia abbandona la lettura?
«Perché perdere tempo? Il libro preferito comunque è Cent’anni di solitudine di Gabriel García Márquez».
A cena col nemico?
«Con Berlusconi. Per chiedergli che cosa lo ha frenato nell’attuare le riforme promesse, se ci credeva davvero o se erano propaganda».
Chi ha cenato con Berlusconi racconta che si finisce sempre a pacche sulle spalle e barzellette.
«Ho seguito da giornalista la guerra di Segrate e le barzellette di Berlusconi non mi hanno mai sedotto. Forse perché sono un vecchio moralista».
Berlusconi, Dell’Utri…
«Su Dell’Utri mi fermo alla sentenza di condanna».
Concorso esterno in associazione mafiosa.
«Ricordo i titoli dell’Ora della metà degli anni Ottanta in cui ci si chiedeva quale relazione ci fosse tra i giovani saliti con Ciancimino a Milano, i Rapisarda, i Dell’Utri e Berlusconi, questo imprenditore nuovo che per noi era sconosciuto».
Lei ha un clan di amici?
«Ne cito uno antico. Piero Violante, ha scritto un libro bellissimo, Swinging Palermo, in cui descrive una città che era intellettualmente vivacissima».
Qual è l’articolo 3 della Costituzione?
«Non lo ricordo».
È quello per cui siamo tutti uguali di fronte alla legge. I confini della Libia?
«Algeria… Egitto…».
L’errore più grande che ha fatto?
«Non ce ne è uno così memorabile».
O c’è e se lo è perdonato?
«Forse. Ho un grande amore verso me stesso: sono indulgente in modo sano».