Julia Cagé (Sette – febbraio 2016)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 12 febbraio 2016).
Il crollo del numero di giornalisti. La riduzione della qualità dell’informazione. Il pluralismo alle ortiche. La fuga della pubblicità dalle pagine e dei lettori dalle edicole. Pagina dopo pagina, tabella dopo tabella, Julia Cagé, 32 anni, ti porta nel gorgo scuro dei media. Lei è una ricercatrice francese di Sciences Po, prestigioso istituto di studi politici parigini, e ha appena dato alle stampe Salvare i media. Capitalismo, crowdfunding e democrazia (Bompiani), un pamphlet sulla crisi del mondo dell’informazione che suggerisce una via di salvezza tutta economico-societaria. Cagé è nata a Metz, ha studiato a Parigi e si è specializzata ad Harvard. È sposata con l’economista Thomas Piketty. L’intervista si svolge via Skype. L’immagine non è nitida, ma la ricercatrice scandisce con precisione la sua idea su che cosa dovrebbero fare i giornali e i tiggì: «Se gli elettori non sono informati, la democrazia è solo una facciata». Di più: «L’informazione, come l’istruzione, è un bene pubblico». E quindi va tutelato, partendo da un presupposto: «La crisi dei media, con il crollo dei ricavi pubblicitari, riguarda tutti i media, qualunque sia il supporto: radio, televisione, giornali, Internet… Nel mondo digitale in cui viviamo, la distinzione on line/off line ha perso importanza. L’approccio deve essere transmediale perché ciò che conta è la produzione di informazioni di qualità: solo la qualità spinge un lettore a pagare».
Il primo dato che si legge nel suo libro riguarda il numero di giornalisti… in calo continuo.
«È una tendenza diffusa. Negli ultimi sette anni in Spagna hanno perso il lavoro più di undicimila giornalisti, negli Stati Uniti… quindicimila. In Italia, il numero di cronisti dal 2007 continua a diminuire. Oggi non solo sono meno protetti, ma molto meno ben pagati. Tutto questo ha serie ricadute sulla qualità dell’informazione».
La qualità dell’informazione dipende anche dalla qualità del lavoro.
«Certo. Chi lavora male non si può lamentare se poi perde la fiducia dei lettori. Ma i dati parlano chiaro: quando ci sono meno giornalisti, ci sono anche meno articoli, meno pagine, meno inchieste, servizi più brevi con un uso eccessivo di copia-incolla da agenzie o da altre testate».
Negli anni Ottanta si cantava “Video killed the radio star”. Ora si può dire che i blog e i social network abbiano contribuito a uccidere i media di carta?
«No. Né blog né i social network sono in sé direttamente responsabili. Internet ha solo accelerato il calo degli introiti pubblicitari dei media e, per compensare, i media hanno ridotto il numero di giornalisti. Chi ha davvero grandi responsabilità sono i giganti del Web».
Di chi parla?
«Google & Co. Non producono nulla, ma si appropriano dei ricavi pubblicitari dei giornali. Una rapina! Urge una nuova regolamentazione europea».
In “Salvare i media” c’è anche un’allerta sulla concentrazione dell’informazione nelle mani di investitori miliardari.
«Qual è l’obiettivo di questi miliardari? Il caso di Berlusconi in Italia descrive gli eccessi di un uomo con le tasche senza fondo che decide di mettere i propri media al servizio dell’ambizione politica. In altri casi si cerca di influenzare la politica perché i propri affari dipendono fortemente dalle regolamentazioni statali. Oppure si favoriscono i propri amici».
Ci sono esempi eclatanti in Francia?
«Il magnate Vincent Bolloré qualche mese fa ha fatto spostare la collocazione di un documentario di Canal+ che avrebbe potuto dispiacere il suo amico Nicolas Sarkozy. Io non dico di rinunciare agli investimenti dei miliardari: sostengo solo che si debba limitare il potere dei grandi azionisti e rafforzare quello dei lettori e dei giornalisti. Va ripensato il collegamento tra capitale e potere. Inoltre la concentrazione del potere mediatico in poche grandi mani non aiuta: si restringe il mercato, diminuiscono le voci e il pluralismo».
In Italia si legge di grandissime manovre per accorpare testate storiche: un modo per resistere al crollo del mercato.
«Le imprese editoriali non possono essere considerate un business come un altro. La fusione delle redazioni permette un’economia di scala e può aumentare la redditività, ma allo stesso tempo il pluralismo ne soffrirà, e così l’indipendenza dei cronisti».
Lei propone un nuovo statuto di “associazione non profit” per i media…
«… a metà strada tra lo statuto delle fondazioni e quello delle società per azioni: oggi i grandi investitori non hanno vantaggi fiscali e i piccolissimi investitori non hanno alcun peso politico. La mia idea è un sistema che consenta investimenti esentasse, ma senza possibilità di ritirare l’investimento, come per le fondazioni, e una redistribuzione dei poteri, equa, che renda più protagonisti i piccoli azionisti/lettori e i giornalisti, con la possibilità di attivare il crowdfunding».
In Francia ha avuto riscontri concreti?
«Ho parlato con molti investitori. I miliardari che investono nei giornali dicono di farlo solo per il bene dell’informazione. Beh, lo dimostrino. So che sarà difficile scuotere la politica, ma non dispero. È lo Stato che deve concedere le detrazioni fiscali agli investitori, ma una buona informazione fa gli interessi di tutti, quindi…».
Quindi?
«Si potrebbe usare la carota degli aiuti pubblici alla stampa vincolandoli con il bastone degli statuti no profit che ho elaborato».
Se lo Stato finanzia, lo Stato pretende…non si rischia un’influenza della politica sui media ancora più diffusa?
«No, al contrario. Quando si tratta di indirizzare aiuti diretti a una testata o a un’altra, sì, c’è un rischio di ricatto da parte dello Stato. Ma il vantaggio in detrazioni fiscali che propongo io è automatico. Lo Stato non potrebbe avere in alcun modo qualcosa da dire».
In Italia il Movimento Cinque Stelle accusa giornali e tv tradizionali di essere sempre stati al servizio del sistema politico-imprenditoriale. Beppe Grillo è contrario a qualsiasi tipo di finanziamento di Stato all’editoria.
«Il sistema italiano di finanziamento dei media non è efficace. Andrebbe ripensato. E soprattutto si dovrebbe affrontare il problema della mancanza di indipendenza della radiotelevisione pubblica. Sinceramente credo che se Beppe Grillo ascoltasse le mie idee, si convincerebbe! Mi piacerebbe discuterne con lui».
In Francia esistono storiche associazioni di redattori che sono azioniste di quotidiani, in Italia le cooperative…
«Credo che l’idea del giornalismo autogestito sia un’utopia e storicamente non ha funzionato. Per questo va trovata una via di mezzo».
Lei quando ha cominciato a studiare il sistema mediatico?
«L’informazione e il corretto funzionamento della democrazia mi affascinano da quando ho cominciato a fare ricerca».
Quanti quotidiani legge al giorno?
«Un paio in francese, Libération e Le Monde, e uno in inglese, il New York Times».
Carta o tablet?
«Entrambi!».
Quando avrà dei figli consiglierà loro di fare i giornalisti?
«Se ne avranno voglia… sì! È un lavoro stupendo. Quando ero un’adolescente speravo di diventare giornalista!».
A cena col nemico?
«Con Michel Houellebecq. Sottomissione è un libro pericoloso. Ma lo ammiro molto per le opere precedenti».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Rinunciare ai ponti d’oro prospettati dalle università statunitensi dopo la tesi di laurea e rientrare in Francia».
L’errore più grande che ha fatto?
«Ne ho fatti tantissimi! Forse…aver interrotto lo studio del pianoforte».
Che cosa guarda in tv?
«Sono una consumatrice vorace di serie americane in dvd: Game of Thrones, Mad Men, Homeland, House of Cards…».
Il film preferito?
«Million Dollar Baby di Clint Eastwood».
La canzone?
«Life On Mars di David Bowie».
Il libro?
«Aurélien di Louis Aragona».
Piketty è stato criticato perché ha elogiato pubblicamente “Salvare i media” senza dichiarare i vostri buoni rapporti.
«Thomas Piketty è mio marito. Ha scritto un articolo in cui ha parlato del mio volume definendolo “dinamico e ottimista”. È un complimento che aveva già fatto e che farà di nuovo ad altri libri di altri autori. Non ha specificato che sono sua moglie? Non credo che fosse compito suo. Le note del redattore esistono per questo, no?».
La malizia sta nel sottolineare la sponsorizzazione parentale.
«Non abbiamo mai nascosto il fatto di essere sposati! Ma siamo anche colleghi ed è normale che le nostre ricerche si alimentino a vicenda».

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