Giovanni Gastel (Sette – ottobre 2015)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 9 ottobre 2015).
Quello che non ti aspetti da Giovanni Gastel, fotostar planetaria, nobile nipote di Luchino Visconti e discendente dei duchi di Milano, è il racconto, tra l’ironico e il grottesco, dei sessanta minuti che hanno cambiato la sua vita: «Ero fuori dall’ufficio di Flavio Lucchini, art-director leggendario. Con lui c’era Oliviero Toscani. Discutevano. Toscani minacciava di abbandonare il mensile Donna. Lucchini urlò: “Vattene pure. Al posto tuo prendo il primo stronzo che mi capita”. Il primo stronzo, appunto, ero io. Quando entrai a parlargli, Lucchini era molto ben disposto nei miei confronti». La assunse subito? «Prima disse che le mie foto erano brutte e poi mi spiegò che a lui delle foto belle interessava poco, perché un fotografo di moda deve fondamentalmente far vendere vestiti».
Gastel ha appena dato alle stampe un’autobiografia (Un eterno istante, Mondadori), gonfia di aneddoti: l’infanzia dorata e un po’ malata, gli anni ruggenti della Milano da ingollare, il periodo parigino. La vita pimpante di un fotografo della moda? «Per molti anni siamo stati considerati un po’ scemi. Dei cazzoni che sguazzavano in un mare di modelle. Poi però siamo stati accolti dal mondo dell’arte». La sua prima mostra risale al 1997. Racconta: «Nel 2016 festeggerò i quarant’anni di attività con una personale a Milano, curata dal critico Germano Celant».
L’intervista si svolge via Skype. Alle spalle di Gastel c’è una selva di volumi impilati. Lui indossa una giacca bianca e una camicia blu a pois chiari. L’immagine va e viene, ma la qualità è buona. È un’immagine telefonica. Cominciamo a parlare della generazione selfie e del fatto che la Apple ha costruito una campagna pubblicitaria sui fotografi fai da te.
Il suo mestiere è destinato a scomparire per colpa della fototelefonia?
«No, anzi. Oggi viviamo il trionfo della fotografia. La fotografia, attraverso i telefoni, è diventata sempre di più una lingua per comunicare. È come la parola. E con la parola ci si può compilare la lista della spesa o scrivere Il barone rampante. Noi siamo come i pittori a metà dell’Ottocento».
Cioè?
«Loro rischiavano di essere travolti dalla fotografia, e invece si sono evoluti. Ne è nato l’Impressionismo. Oggi scattare una buona foto è facilissimo, ma realizzare una grande foto è molto molto più difficile. Per questo la prima cosa che dico ai ragazzi che vogliono fare il mio mestiere è di curare la propria diversità, per diventare autori».
Come?
«Cominciando a scartare le prime tre o quattro idee che gli vengono in mente, perché sono quelle che vengono a tutti. Bisogna cercare la variazione dalla norma».
Qual è stata la sua prima variazione dalla norma?
«All’inizio facevo still life: foto pubblicitarie a oggetti fermi, camicie, cravatte… Regnavano standard classici, piuttosto noiosi. Pensai: qual è il linguaggio più divertente, fermo, ma allo stesso tempo mosso?».
Il fumetto?
«Esatto. Nei miei scatti, i vestiti cominciarono ad animarsi in modo divertente. Chi voleva quello stile nuovo iniziò a rivolgersi a me».
Affoghiamo in un oceano di immagini. Oggi come si può variare dalla norma?
«Anche usando bene il digitale. Basta mettersi in testa, per esempio, che la post produzione non è solo una macchina per togliere i peli dal naso di una modella. E che il 50% del lavoro avviene dopo lo scatto, al computer».
Questa è un’immagine molto poco romantica del suo mestiere.
«Io ho lavorato per anni con ottiche ottocentesche, lastre, set complicatissimi. Ora lo scatto è diventato come il disegno preparatorio per il pittore. Il quadro, l’immagine finale, è un’altra cosa».
Fine della magia del clic fotografico che coglie l’attimo.
«Con Photoshop le potenzialità creative sono infinite. A un certo punto è come entrare in Matrix: la realtà diventa plasmabile. Io non sono un fotoreporter. La mia fotografia è pantomima. È teatro. Disegno un mondo che allude alla realtà, ma in cui sono io a dettare le regole».
Lei una volta ha detto: «Non mi riconosco molto nelle regole che dominano quest’epoca».
«C’è grande volgarità in circolazione. E molta violenza».
A un convegno ha detto anche: «Il gentiluomo paga le tasse».
«E chi mi ascoltava, mi ha preso per un marziano. Invece è un concetto basilare. Il gentiluomo non è un gagà con le ghette, ma una persona che vive l’imperativo etico di fare il suo dovere. Si rispetta l’impegno civico».
Oggi sembra più comune inneggiare allo sciopero fiscale.
«Abbiamo esultato quando se ne sono andati… ma ammetto che rimpiango i leader della Prima Repubblica. Avevano una caratura superiore».
Lei ha mai ritratto i nostri politici?
«Feci una serie sulla nuova classe dirigente dopo il 1992. C’erano Casini, Fini, Ferrara con un braccio rotto. D’Alema mi venne con le sembianze di Charlie Chaplin».
Ha mai fatto politica?
«No. In compenso ho frequentato una ragazza che poi si è rivelata essere una fiancheggiatrice delle Br, ahah».
Come vi eravate conosciuti?
«Un giorno mi lasciò un biglietto nella cantina che usavo come studio fotografico. Quel posto era un porto di mare. Amici, musicisti, artisti. Le ragazze erano piuttosto dirette. Mi scrisse: “Si potrebbe trombare!”. E di seguito il numero di telefono».
È vero che una volta hanno tentato di rapirla?
«Sì. La mia famiglia stava vendendo una grossa azienda farmaceutica ed eravamo abbastanza esposti. Mi si avvicinarono per strada, in macchina, ma riuscii a fuggire. Quando lo raccontai a mia madre la reazione fu sorprendente».
Che cosa le disse?
«Che non mi avrebbe affiancato una guardia del corpo, perché sarei diventato un bersaglio visibile. Che non mi avrebbe comprato una pistola, perché mi sarei sparato sui piedi. E che non mi avrebbe mandato all’estero, come facevano molti altri, perché la nostra famiglia nei momenti difficili per il Paese resta in Italia».
Patriottismi di altri tempi.
«Io esalto spesso il concetto di eleganza. L’eleganza per me è cifra estetica, ma è anche questo: un valore morale».
Eleganza: che cosa pensa di quella campagna pubblicitaria con cinque uomini intorno a una ragazza buttata per terra?
«Penso che sia un classico esempio di comunicazione aspirazionale».
Che cosa sarebbe?
«Negli anni Ottanta si tennero molte riunioni tra pubblicitari e art director, per elaborare una strategia di comunicazione per la moda. Dato che il pubblicitario non poteva seguire i ritmi dei prodotti stagionali della moda, si pensò che non ci si doveva rivolgere al fruitore finale, ma che era meglio costruire un mondo aspirazionale. Il messaggio è: se compri quelle mutande forse ti facciamo entrare nel nostro mondo dorato, fatto di modelle eteree e maschioni muscolosi».
Foto choc. Lei avrebbe pubblicato l’immagine del bambino siriano affogato?
«Certo. Perché sono contro ogni censura. E perché quella è una foto che scuote le coscienze. È un’icona potentissima».
Qual è la foto che avrebbe voluto scattare lei?
«Il ritratto sublime che Richard Avedon fece a Marella Agnelli. Le linee del corpo sono lavorate talmente bene da sembrare astratte».
La foto più difficile da realizzare?
«Quando ho scattato la serie sui miti del rock, mi dissero che Michael Stipe, dei R.E.M., sarebbe stato difficilissimo. Effettivamente lui arrivò in studio nel primo pomeriggio e disse che aveva cinque minuti. Replicai che un mio scatto dura un centoventicinquesimo di secondo e che quindi ne avremmo fatti una valanga. Alla fine, vide il mio lavoro e si fermò fino alle nove di sera».
La modella ideale da fotografare?
«Linda Evangelista. Diventa esattamente quello che vuoi tu».
In quarant’anni di carriera con quante modelle si è fidanzato?
«Di questo non parlo neanche sotto tortura».
Va bene. Allora parli del suo primissimo scatto fotografico.
«Due tazzine da caffè. Lo feci sotto casa e lo conservo ancora».
La foto che non mancherà alla mostra sui suoi quaranta anni di attività?
«Non lo so. Celant sostiene che gli autori siano negati nello scegliere le loro opere. Ed è stato abbastanza esplicito: “Se vuoi che curi io la mostra, vai fuori dai coglioni quando devo selezionare le foto”».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Rubare la Nikkormat a mio padre. Dopo averne preso possesso cominciai anche a dormirci insieme. Quando amo un oggetto me lo porto nel letto: capitava anche con la racchetta da tennis quando frequentavo la Nazionale italiana giovanile».
È vero che quando venne a sapere che lei voleva fare il fotografo suo padre le regalò un pettine e uno specchio?
«Sì. Mi disse che sarebbero stati utili soprattutto ai miei clienti, visto che avrei fatto fototessere tutta la vita. Negli anni Settanta quello del fotografo non era considerato un mestiere autorevolissimo. E papà, che tra l’altro era bravissimo nella fotografia, pensava che il mio fosse solo un modo per non far nulla».
L’errore più grande che ha fatto?
«Forse trascurare la scrittura. Continuo a dedicarmi alla poesia e ho un romanzo che mi porto avanti da quando ero ragazzo. Il titolo è Duetto profano».
Il libro preferito?
«Il Lupo della steppa di Hermann Hesse. Lo comprai quando, a sedici anni, dovetti trascorrere a Cernobbio, sul lago di Como, qualche settimana a causa di un esaurimento nervoso. Ogni tanto, nei viaggi, me ne porto dietro una copia».
La canzone?
«Pezzi di vetro dell’amatissimo Francesco De Gregori».
Il film?
«Resto in famiglia: Morte a Venezia di Luchino Visconti».
Frequentò il set lagunare?
«No. L’unico set di Luchino che ho visitato è stato quello di Lo straniero, ad Algeri».
Luchino…
«Mia madre un giorno mi costrinse a portagli le mie fotografie. Per avere un suo parere. Ne avevo già venduta qualcuna. Lui le guardò e subito abbandonò il tono familiare e cominciò a dare consigli tecnici: “Qui la luce può migliorare… qui l’inquadratura è giusta”. In quel momento non era zio Luchino, ma Visconti… un altro paio di maniche».
L’insegnamento dello zio?
«Non risparmiarsi mai. A ogni scatto penso sempre di giocarmi la carriera».
A cena col nemico?
«Con il mio adorato Gianni Berengo Gardin…».
… decano della fotografia italiana.
«Lui sostiene che il digitale sia la morte della fotografia e che sia un esercizio di elettronica applicata. Io credo che sia una rinascita».
Lei ha un clan di amici?
«Ho un clan familiare. Sono l’ultimo di sette figli. A Natale e a Pasqua ci vediamo tutti, con nipoti e bisnipoti, vicino a Lomello dove abbiamo un’azienda agricola».
Lei che cosa guarda in tv?
«Ne guardo tanta. Sono un figlio della tv. Ora sono sintonizzato spesso su Discovery Channel».
Sa quali sono i confini dell’Ungheria?
«Di geografia non so nulla».
Ma come, lei è un fotoglobetrotter!
«Alle elementari quando la maestra scoprì che le mie poesie non erano male, decise che non avrei dovuto fare altro. E in pratica mi esonerò dalle lezioni».
Sa quanto costa un litro di benzina?
«Di solito faccio il pieno».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«No».
È quello che descrive il Tricolore.
«Ah. Qualche settimana fa sono stato a Shanghai e ho incontrato il Console. Parlando del futuro dell’Italia, mi ha detto una cosa che condivido».
E cioè?
«Come si faceva nel Rinascimento… dovremmo preparare bene i giovani per mandarli in giro per il mondo a piantare la nostra bandiera».

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