Andrée Ruth Shammah (Sette – ottobre 2015)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 2 ottobre 2015).

A Milano è considerata una specie di figura mitologica: metà donna e metà teatro. Da quarantatré anni sforna spettacoli e performance nella meneghina via Pier Lombardo. Andrée Ruth Shammah, regista/artista, è l’inarrestabile madre-regina del Teatro Parenti: per convincere Filippo Timi a recitare sul suo palcoscenico gli ha regalato un camerino. E per celebrare la restaurazione della piscina Caimi, ha allestito un Hollywood Party da tremila persone con musicisti volanti e giochi di luci acquatici. Dice: «Io sono come i monaci tibetani con il Mandala. Stanno ore e ore a grattare e distribuire minuziosamente i colori per creare un’immagine stupenda e poi, appena terminata l’opera, la cancellano con un gesto della mano. Del loro sforzo, non rimane nulla. Ricominciano con coraggio e umiltà». Non solo “lo spettacolo deve continuare”, ma anche “dopo ogni spettacolo ce ne è subito un altro”. Senza fermarsi mai. Shammah, ebrea di origini siriane, non si è fermata nemmeno quando un gruppo di lefebvriani antisemiti, per protestare contro la messa in scena della pièce Sul concetto di volto nel figlio di Dio, l’ha minacciata e ha pubblicato sul web un’immagine del suo volto con sopra una svastica.
Dice: «Ha notato quale parola formano le mie iniziali?». ARS. Arte. Nel nome un destino? «Beh, ho scoperto anche che l’edificio su cui sorge il Teatro Parenti negli anni Quaranta apparteneva a una società che si chiamava Ars Cinema».
Durante l’intervista la regista sfodera una passione energica per la città di Milano. La provoco: «Immagino che lei, dovendo gestire uno spazio pubblico, non si voglia esporre sulle prossime Amministrative meneghine». Replica: «Io mi espongo ogni volta che ho qualcosa da dire. Ho dichiarato apertamente di essere craxiana quando Craxi era ad Hammamet e di potere ormai ne aveva davvero poco. Devo tutto a me stessa e devo ringraziare molte persone ma nessuna in particolare. Vuole il nome di chi vorrei fosse sindaco? Ferruccio de Bortoli».
De Bortoli ha già detto che non è disponibile.
«Conosce la città. E avrebbe una bella squadra. Ci parlo spesso, ma al momento è effettivamente non convincibile».
L’alternativa?
«Sono convinta che l’ultima volta non abbia vinto la sinistra. È Letizia Moratti ad aver perso. Quindi non escludo che nel 2016 possa vincere il centro-destra. Sento molti dire: “Corrado Passera non prenderà nemmeno il 2%”. Io invece credo che possa succedere qualsiasi cosa. A Milano oggi serve una persona per bene che voglia bene alla città».
Lei qualche mese fa ha detto: «Milano non ha bisogno di un sindaco».
«Confermo. Il vero merito di Giuliano Pisapia è di aver fatto muovere la città. Di aver delegato molto. Con lui i cittadini si sono ripresi i loro spazi. I milanesi sono tornati ad amare Milano. E questo è avvenuto anche grazie a due caratteristiche di Pisapia: la gentilezza e il far vedere a tutti che le cose possono cambiare. A Roma mi pare che questo atteggiamento stenti a radicarsi. Molti si lamentano: “Siamo rovinati”. Sbagliano. Antonio Calbi al Teatro di Roma si sta dando da fare. Luca Barbareschi, è circondato da pregiudizi, ma sta lavorando duramente all’Eliseo. Sono certa che anche a Roma ci siano molte energie positive: andrebbero valorizzate e non ignorate».
Sembra che per lei destra e sinistra, pari siano.
«È una contrapposizione che non c’è più. Soprattutto quando si tratta di amministrare una città. E poi Renzi, muovendosi trasversalmente, ha sbaragliato gli schieramenti».
Renzi…
«La prima volta che l’ho visto non era nemmeno segretario del Pd. L’ho sentito parlare in piazza e ho pensato: “Questo andrà avanti”. Ora mi chiedo: Renzi ha la dote di credere di potersi sempre migliorare e continua ad andare avanti. Ma avanti dove?».
Si dia una risposta.
«Non ce l’ho. Noto che, come Renzi, anche Giuseppe Sala, commissario per l’Expo, ha avuto come dote principale quella di credere che ce l’avrebbe fatta. E infatti…».
Lei è sempre stata Expo-scettica.
«Lo sono ancora, per quanto riguarda l’aspetto culturale. Ma è innegabile che per Milano Expo2015 sia stato un ottimo business».
Cultura e business. Ha seguito la polemica sull’assemblea sindacale che ha causato ore di disagi tra i turisti davanti al Colosseo?
«Non ne so molto. Certo, è scandaloso vedere i turisti ammassati fuori dai cancelli di un monumento, ma è altrettanto scandaloso constatare che i governi non abbiano ancora capito le potenzialità economiche e comunicative presenti nella cultura e nell’arte italiane. D’istinto… credo che il mondo del teatro si dovrebbe schierare con i lavoratori dei musei. Sono soli. Dovremmo fare come nel film Pride, dove un gruppo di omosessuali si univano alle lotte dei minatori. Per la cultura e per il teatro è giusto lottare».
Il teatro secondo Shammah.
«Il teatro è l’unica arte del presente. Non lo puoi mettere in pausa o rivedere, come un film. Non è come un quadro che sta lì e puoi tornare ad ammirarlo. Le riprese video non rendono mai giustizia a una performance teatrale. Ogni spettacolo è come un incontro d’amore, irripetibile e unico. E va costruito, bisogna esserci dentro. Io ho avuto la fortuna di incontrare grandi costruttori di teatro: Eduardo De Filippo, Franco Parenti, Paolo Grassi…».
Grassi, con Strehler fondò il Piccolo Teatro di Milano…
«Quando lo vidi per la prima volta parlare di Bertolt Brecht e del rapporto tra teatro e città, ero una ragazzina. Pensai: “Voglio andare dove va quel signore lì…”».
Da quel momento non ha mai smesso di fare teatro. Le hanno appena assegnato il premio alla carriera “Paolo Emilio Poesio”.
«Mi imbarazza un po’. Mi sento giovane e ho ancora un sacco di cose da fare. E poi trovo vergognoso che certi premi vengano dati anche a chi uccide il teatro».
A chi si riferisce?
«Ad Antonio Latella e al suo Natale in casa Cupiello, per esempio. Lui fa degli spettacoli belli da guardare, ma usa i testi altrui per esibire se stesso. Io credo che i testi teatrali vadano rispettati, anche se poi ognuno li può leggere e interpretare a modo suo. Con Timi sto per mettere in scena Casa di bambola di Henrik Ibsen…».
Lo spettacolo/bandiera dell’emancipazione femminile: Nora, la protagonista, lascia il suo uomo per trovare se stessa.
«Nora è una stronza. Fa la bambola perché vede nel marito il suo protettore. Lo manipola e lo incastra in quel ruolo. Poi quando lo vede in difficoltà, se ne va».
Ma è sicura…?
«La mia lettura di Ibsen è attenta e fedele, ma io voglio mostrare le ragioni degli uomini. Mi insulteranno, ma credo che a causa della stronzaggine delle Nora, ora abbiamo perso gli uomini, che sono diventati sempre più fragili e deboli. Invece di cercare se stessa, Nora avrebbe dovuto cercare il rapporto con il marito Torvald».
A cena col nemico?
«Con un anti-israeliano, che ormai equivale a dire con un antisemita, visti certi accanimenti. Penso sempre di poter faticosamente distruggere i pregiudizi».
Fuori un nome.
«Una volta sono stata a cena con Gino Strada: è un buon chirurgo, ma ha idee che non condivido».
Come è andata?
«Non l’ho convinto. Quindi mi sono alzata e me ne sono andata. La sera, comunque, sono sempre al lavoro e di cene ne faccio poche, soprattutto con i teatranti: hanno la necessità di esibirsi, anche a tavola, e io dopo un po’ mi stufo».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Raccontare una bugia ai miei genitori: volevo restare a Milano, per amore, e dissi loro che non potevo andare a Forte dei Marmi perché avevo un corso di recitazione. Ma in realtà credo che a prescindere da quella scelta il teatro fosse il mio destino, quindi la vera svolta è stata avere un figlio. Mi ha reso la vita più bella».
L’errore più grande che ha fatto?
«Ho rischiato di non accorgermi che mio figlio stava diventando un uomo. Mi sono ripresa in tempo. Il vero errore è stato fumare cinque pacchetti di sigarette al giorno».
Centocinquanta sigarette ogni ventiquattro ore?
«Per un breve periodo mi è capitato di far uso di cocaina, ne sono uscita facilmente. Il fumo invece… Sto combattendo con una grave malattia al sistema respiratorio».
Che cosa guarda in tv?
«Non riesco mai ad accenderla, ho sempre la pila del telecomando scarica».
Il libro preferito?
«Non esistono i libri preferiti. In questo momento leggo molto i giovani israeliani come Eshkol Nevo».
La canzone?
«L’aria Lascia che io pianga del compositore George Friedrich Händel. L’ho appena risentita, mi commuove».
Il film?
«Il terzo uomo di Carol Reed con Orson Welles».
Sa quanto costa un pacco di pasta?
«No. Non ho il senso dei soldi. Quando vado al mercato, scelgo che cosa comprare e poi mi portano il conto in teatro».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«No. Riguarda la cultura?».
Descrive la bandiera italiana. Che cos’è per lei il Tricolore?
«Un simbolo che mi dà una botta di appartenenza. È l’Italia, ma anche Milano, la mia città, la mia vita».

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