Gianfranco Maraniello (Sette – luglio 2015)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 12 luglio 2015).
E’ cresciuto a pane e performance di Marina Abramovic. Ha organizzato mostre in tutta Italia, frequentato fiere e curato biennali esotiche. Gianfranco Maraniello, 43 anni, neo- direttore del Mart di Rovereto, è il teorico del museo glocal: lo sguardo fisso sul mondo e le radici ben piantate nel territorio. Napoletano, è stato adottato prima da Milano, dove è cresciuto, e poi da Bologna, dove per una decina d’anni ha guidato il MamBo. Quando era il boss dell’arte contemporanea bolognese propose di celebrare la morte di Lucio Dalla invitando i tifosi dello stadio Dall’Ara a cantare Caruso. Gli ultrà reagirono con un coro di fischi, perché non volevano che a dettar legge in curva fosse un partenopeo. Lui, in realtà, di napoletano ha origini e passioni (la musica, il calcio…), ma ormai parla con cadenza pseudo-nordica.
Maraniello è stato scelto con una selezione internazionale tra 128 candidati. Quando gli faccio notare che non è un momento molto florido per i musei di arte contemporanea in Italia, dribbla le polemiche trite sul rapporto tra soldi pubblici (assenti) e finanziamenti privati e introduce le sue parole chiave: identità, coerenza e continuità.
Salvare i musei italiani in tempi di crisi.
«Si parla tanto di finanziamenti pubblici e privati. Si immaginano assurdi scontri manichei tra manager spietati e assetati di denari e soprintendenti duri e puri, votati unicamente a una polverosa tutela. L’obiettivo dovrebbe essere un altro».
Quale?
«Garantire una continuità ai progetti museali».
Un buono slogan. Ma in pratica?
«I musei devono lavorare su un processo identitario, sulla loro riconoscibilità, sulla creazione di un immaginario che prescinda dalle singole mostre. E poi dovrebbero dare continuità a questo processo».
Appena nominato direttore a Rovereto hai detto che negli ultimi anni non avevi trovato molti motivi per visitare il Mart.
«Intendevo dire che non si va in una città solo perché c’è una mostra. Il museo deve essere una componente del territorio. L’arte, moderna e contemporanea, deve essere collocata all’interno di un itinerario e di un’offerta complessiva e contribuire a creare quell’identità necessaria a far tornare i visitatori. Certo, poi bisogna essere coerenti».
Non si deve tradire la propria identità?
«Esatto. Io non arrivo a Rovereto con un pacchetto di artisti e di mostre buoni per tutte le occasioni. So che se mi defocalizzo con una mostra che ha poco a che fare con l’immaginario che voglio creare, posso avere qualche titolo sui giornali e un momentaneo bagno di folla, ma alla lunga rischio di tradire l’aspettativa di chi viene a Rovereto per trovare una certa identità».
Nel caso del Mart quale sarebbe?
«Per disegnare traiettorie precise sto incontrando tutti quelli che hanno fatto nascere il museo: l’architetto Mario Botta che con Giulio Andreoli lo ha progettato, Gabriella Belli che lo ha diretto per prima… Di sicuro c’è il Futurismo, che è un’immagine fortissima dell’Italia nel mondo. E poi gli artisti delle Collezioni private: Morandi, Casorati, Carrà, Sironi, Melotti. Ma la stessa architettura del museo, con i suoi spazi, è un elemento fortissimo».
Sei un manager museale da molti anni. Suggerisci al ministro della Cultura, Dario Franceschini, tre provvedimenti urgenti.
«Franceschini sta impostando bene il suo lavoro, ma siamo sicuri che sia lui l’interlocutore di chi opera nel mondo dell’arte? Temo che c’entri di più il ministero del Tesoro. Abbiamo competitor europei agguerriti. Andrebbero rivisti i parametri legati all’economia dell’arte: l’Iva così alta sulle opere favorisce i mercati stranieri. Il ruolo delle Soprintendenze, da noi talvolta paralizzante, non può essere così diverso dall’estero. Infine va ridotto lo spoil system: le istituzioni si governano con la continuità. Cambino pure gli attori, ma venga messa al centro la continuità dei progetti museali».
Dovrebbe migliorare anche il criterio di selezione dei direttori dei musei di arte contemporanea?
«Per selezionare gli interpreti giusti nelle specifiche situazioni servono parametri e persone qualificate. Il curriculum non certifica il futuro… Mi hai fatto tutte domande da manager, ma ti assicuro che io sono più un teoreta e uno studioso di arte».
Vivi nell’arte da sempre. Tuo padre Giuseppe è scultore.
«Casa mia era un rifugio. Un avamposto. Arrivavano continuamente artisti. Mimmo Paladino quando è stato nostro ospite, in cambio di una mia vecchia bici destinata a sua figlia Ginestra mi regalò due disegni».
Hai mai avuto il desiderio di fare l’artista?
«No. Ho saltato quel confronto edipico. L’ambiente familiare mi ha regalato una specie di bilinguismo».
L’arte come seconda lingua naturale.
«Ricordo le atmosfere, ogni tanto le rivivo: una volta a Basilea sfuggii a mio padre, che mi ritrovò pietrificato di fronte alla performance Death control di Gina Pane. Verificavo se stesse simulando o se era morta davvero».
Che studi hai fatto?
«Il classico al Carducci di Milano».
La Milano dei paninari.
«Ero rappresentante d’Istituto e dirigevo il giornalino della scuola, Neopoli. Poi presi una laurea in filosofia teoretica».
Il primo lavoro?
«All’inizio dei Novanta. Giancarlo Politi, direttore di FlashArt, mi chiese se volevo frequentare la sua redazione. Con alti e bassi, ci sono rimasto sei anni. Il mio compagno di stanza era Massimiliano Gioni…”.
… curatore arcinoto, per anni alter ego di Maurizio Cattelan e direttore della Biennale dell’Arte nel 2013.
«Ci chiamavamo reciprocamente Gilbert & George».
Come la coppia di artisti.
«Fu un’incredibile apprendistato. Andavamo in giro per l’Europa in macchina a caccia di mostre».
Quando hai cominciato a curare qualche esposizione?
«Nel 1999. Sergio Risaliti mi chiamò a Siena, al Palazzo delle Papesse. Lì si riuscivano a realizzare progetti che nelle istituzioni tradizionali non erano molto praticabili. Un paio di anni dopo Danilo Eccher mi chiamò come curatore del Macro, a Roma».
Elenchi queste esperienze come se ti fossero piovute addosso tuo malgrado.
«In effetti io non ho mai pianificato nulla. Ho sempre cercato di fare al meglio le cose che mi capitavano».
Qual è il pezzo che vorresti vedere esposto nel museo che dirigi?
«L’Angelus novus di Paul Klee. Walter Benjamin ci vide un’insuperata visione della storia».
Che cosa non vedremo mai negli spazi del Mart.
«Opere di terz’ordine. O oggetti commerciali esposti come se fossero opere. Per finanziare un museo vanno bene le cene e le convention, ma non ci possono essere equivoci sui contenuti e i linguaggi di un museo».
Tu sei anche collezionista?
«No. Mi piace che le cose esistano, non che siano mie».
Come mai sono così pochi gli artisti italiani che hanno un successo internazionale? Cattelan, Beecroft, Vezzoli…
«Loro sono diventati star vivendo all’estero. È vero che gli emergenti sono pochi. In compenso si assiste a una straordinaria rivalutazione di tendenze e di figure degli anni Cinquanta e Sessanta: Scheggi, Buonalumi, Melotti… Evidentemente l’attenzione all’arte italiana è rivolta al consolidamento di posizioni storiche. L’Italia oggi non rappresenta l’avamposto di una contemporaneità omologata su parametri internazionali».
A cena col nemico?
«Vittorio Sgarbi: è lontano da me e non condividiamo idee e obiettivi, ma trovo piacevole e divertente conversare con lui».
Qual è la scelta che ti ha cambiato la vita?
«Sposare mia moglie Kaharu. Anche i suoi genitori si conobbero in Italia. Il padre, giapponese, è architetto e da venti anni sta ristrutturando la sua casa ideale nelle Marche».
Hai figli?
«Due: il grande si chiama Akira, ha dodici anni, e la piccola Ali, ne ha dieci. Sono in Giappone per l’estate».
Che cosa guardi in tv?
«Il Napoli. Telegiornali e film».
Il film preferito?
«8 e 1/2 di Federico Fellini. È un film perfetto».
Il libro?
«L’uomo senza qualità di Robert Musil».
Il libro che faresti leggere a un ragazzo per farlo appassionare all’arte?
«Alice nel paese delle meraviglie di Lewis Carroll».
Sei su Twitter?
«No. Mi costringerebbe a comunicare per forza qualcosa. È un impegno che non mi voglio assumere».
Conosci i confini della Libia?
«Egitto… Tunisia… E Algeria. Oppure, come nelle definizioni dei cruciverba: L e A».
Sai quanto costa un litro di benzina?
«Certo. Il diesel è a 1,6. Ma servito».
L’articolo 12 della Costituzione?
«Non lo conosco. Spero di rispettarlo».
È quello che descrive la bandiera italiana. Che cosa è per te il Tricolore?
«In molte circostanze mi ha fatto provare emozioni profonde. È un’espressione cromatica della mia lingua».

Categorie : interviste
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