Serge Latouche (Sette – aprile 2015)
0 commenti(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera, il 24 aprile 2015)
Serge Latouche, 75 anni, economista e filosofo, è il sacerdote della decrescita felice: un indice perennemente puntato sugli eccessi del consumismo. Lo incontro a Parigi, nella hall di un minuscolo albergo a pochi passi dal College des Bernardins. Arriva in bici. Indossa vestiti rigorosamente no logo. E custodisce i suoi appunti in un porta-documenti prodotto con le frattaglie di una vela. Latouche è un orso bretone no global. Parla italiano, anche perché viene spesso dalle nostri parti. Una delle ultime volte ha convinto il sindaco di Bolzano a salvare una pianta secolare di Ginkgo biloba minacciata dalla costruzione di un parcheggio. Scandisce lentamente le parole, considera il movimento Slow Food di Carlin Petrini un solido alleato, e quando si accorge che smanetto troppo con lo smartphone mi consiglia la lettura del libro Accelerazione e alienazione del filosofo Hartmut Rosa.
Latouche ha appena ripubblicato per Bollati e Boringhieri il suo Usa e getta: piccolo pilastro saggistico per chi combatte l’obsolescenza programmata, cioè la tendenza dell’industria a produrre oggetti con una vita brevissima. Al centro della sua invettiva c’è quello che lui definisce “il ciclo infernale”, fatto di pubblicità che crea i consumatori, di credito che mette i consumatori nelle condizioni di spendere e, appunto, di obsolescenza programmata, che costringe gli stessi consumatori a reiterare gli acquisti. Ogni pagina configura un meccanismo consumistico oliatissimo e leggermente claustrofobico. Provoco: «leggendo i suoi libri viene un po’ d’ansia». Sorride e comincia a ipotizzare una resistenza possibile: «Parlare di obsolescenza programmata, averne coscienza, aggiustare invece di ricomprare, sono i primi modi per avvicinarsi anche al concetto di decrescita felice. Lo sa che in tutta Europa stanno nascendo dei Repair Café? Sono luoghi in cui si riparano oggetti e si condividono saperi e idee».
La decrescita felice. L’abbondanza frugale. Sono i Leitmotiv latouchiani, la fine dello sviluppo fine a se stesso.
«L’abbondanza frugale è un orizzonte di senso. La decrescita è un’utopia positiva. Ma anche quella della crescita infinita e fine a se stessa è un’utopia».
Dopo la crisi la crescita è ripartita.
«Direi invece che la crescita è finita. Vediamo un bagliore, ma è come quello di una stella morta: continua a brillare ad anni luce di distanza, pensiamo che sia lì, ma in realtà… Se c’è una cosa demenziale è aggrapparsi a quelle stime striminzite che circolano: la crescita dello 0,4%. Roba da feticisti».
In Italia da qualche anno si parla di spread e di rapporto deficit/Pil anche nei baretti di campagna.
«È una forma di colonizzazione dell’immaginario. Truffe. Come quando si raccontò la favola della globalizzazione che avrebbe creato un mondo migliore. Invece ha creato un mondo unico in cui si è passati da una società dei mercati a una società del mercato. Dove tutto diventa merce».
Esiste un’alternativa?
«Ri-localizzare le produzioni, de-mondializzare. Capisco che per gli italiani sia una parola quasi indicibile, ma talvolta si dovrebbe ricorrere al protezionismo: per tutelare le economie dei territori e la loro cultura. Bisogna tornare a proteggere la salute: incentivare l’agricoltura ecologica produttiva, ma non produttivista. Faccio mie le parole d’ordine di Slow Food che sono coerenti con la decrescita: buono, sano e giusto. E poi il lavoro…».
Il suo slogan sul lavoro è…?
«Lavorare meno per vivere meglio. Bisogna tornare a scoprire che la vita non è solo lavoro».
Lei una volta, citando delle statistiche sui consumi planetari e confrontando gli eccessi frenetici Occidentali con le abitudini africane, ha scritto: “Ho dei dubbi sul fatto che un parigino che prende la metro tutti i giorni sia più felice di un abitante del Burkina Faso”.
«In Occidente, oltre che gli imprenditori in crisi, hanno cominciato a suicidarsi anche i bambini. La Francia ha il record per consumo di Prozac. Ormai siamo dei tossici da lavoro e da consumo. Capisco che non tutti vorrebbero un modello di vita africano, ma sia chiaro che i consumi non danno un senso alla vita. I consumi sono una droga illusoria che non soddisfa un vero desiderio. Dalla Francia oggi partono tanti ragazzi delle periferie per combattere in Siria. La vita per loro non ha un senso e ne cercano uno in una guerra lontana. Davvero immaginiamo per i nostri figli una società dove l’unico senso siano i soldi e i consumi?».
Lei dove ha trascorso la sua infanzia?
«A Vannes. Una città bretone circondata da mura».
Quando si è trasferito a Parigi?
«Nel 1957. Mi volevo iscrivere a SciencePo, la facoltà più prestigiosa di Scienze politiche. Non mi presero. Cominciai a studiare diritto e lingue orientali. Nel 1964 mi trasferii in Congo e dopo un paio di anni andai nel Laos. Lì, per la prima volta, ho pensato alle virtù della decrescita».
Folgorato sulla via di Vientiane.
«Ero marxista, terzomondista, ma pur sempre produttivista. Il Laos era un piccolo paradiso: la gente viveva tranquillamente lavorando una cinquantina di giorni all’anno. Avevano molto tempo per i rapporti sociali e familiari. Per fare festa. Io collaboravo con il ministero della Pianificazione. Capii presto che la religione dello sviluppo e dei consumi avrebbe distrutto questa felicità popolare».
Ha mai sorpreso se stesso in una pulsione consumistica?
«Tendo a non risparmiare sul cibo buono. E sui libri…».
Ne compra di costosissimi?
«Qualche settimana fa avevo prenotato la versione con traduzione bilingue de L’adone di Giovan Battista Marini. Però costava 85 euro. Davvero troppo».
Lo può cercare online e leggerlo su un tablet.
«Orrore!».
Le tavolette elettroniche contengono migliaia di libri. Sono ecologicamente sostenibili.
«Vista la durata dei tablet e i costi energetici per produrli e smaltirli, ecologicamente vince ancora il libro».
A cena col nemico?
«Devo fare un nome?».
Andrebbe a cena con Nicholas Sarkozy?
«No. Ma recentemente ho cenato con Giulio Tremonti».
Come è andata?
«Su molte cose eravamo d’accordo. Con noi c’era anche Yanis Varoufakis. Un giornalista ci ha definiti “lo strano terzetto».
Varoufakis, la Grecia, l’Euro e l’Europa.
«Per salvare se stessa la religione dello sviluppo ha imposto l’austerità. La Grecia deve uscirne. Io ho consigliato a Tsipras anche l’uscita dall’Euro».
Qual è il futuro dell’Euro?
«Non credo che ne abbia uno. L’Europa non può mantenere una moneta comune avendo un diverso fisco, diversi welfare, diverse leggi sull’ecologia».
Si potrebbero uniformare i sistemi fiscali e di welfare dei Paesi europei.
«Mi sembra davvero impossibile».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Più che una scelta, una bocciatura: non aver passato la selezione per entrare a SciencePo, nel 1957. Se mi avessero preso oggi forse sarei ambasciatore».
L’errore più grande che ha fatto?
«Sposarmi a 19 anni con la mia prima moglie. Due anni dopo ho divorziato».
Quanti figli ha?
«Una dal primo matrimonio, Florance. E due dal secondo Gwendal e Morgwana. Sono nomi bretoni».
Lei che cosa vota?
«Non sono legato a un partito. Scelgo di volta in volta. Di solito alle presidenziali opto per il meno peggio. Ma ormai siamo arrivati a un punto… Di sicuro non voto Sarkozy».
Conosce i confini della Libia?
«Certo: Tunisia, Egitto, Sudan…».
Il film preferito?
«Che domanda terribile! Amo Woody Allen. Diciamo La dea dell’amore con Mira Sorvino».
La canzone?
«L’opera. Le nozze di Figaro di Wolfgang Amadeus Mozart».
Il libro?
«Anna Karenina di Lev Tolstoj».
Qual è il libro che suggerirebbe a un adolescente per introdurlo alla decrescita felice?
«Convivialità di Ivan Illich».
Non uno dei suoi tanti saggi?
«Faccio parte di quella generazione che ha imparato la lezione di Pascal: l’io è odioso. Il contrario del narcisismo dominante».
Immagino che lei non sia su Twitter.
«Ahahah. Mi sembra una cosa oscena».
Che cosa guarda in tv?
«Non ho un televisore. Me lo avevano regalato, ma quando c’è stato il passaggio sul satellite… l’ho buttato via».
Ha un telefono cellulare?
«No».
Se glielo regalassero?
«Non potrei accettare. Mi sporcherebbe la vita».
Vittorio Zincone