Massimiliano Casacci (Sette – gennaio 2015)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera, il 2 gennaio 2015).
Massimiliano Casacci, 51 anni, è uno dei fondatori dei Subsonica. Soprannominato Max, o “il Presidente” in quanto anziano del gruppo, è anche tecnico del suono, produttore, chitarrista e autore di gran parte dei testi. Lo incontro a Torino, in una delle tane della band: armadi colmi di cd, poster, locandine, computer portatili sulle scrivanie. Max parla svelto con una lieve cadenza sabauda. Ha una lunga storia professionale dark, punk, new wave nella scena underground torinese ed è l’animatore del Traffic – Torino Free Festival.
I Subsonica riempiono i palazzetti italici da più di venticinque anni. I loro concerti sono spesso un trionfo tecnologico: nel tour 2014/2015, che prosegue in primavera con alcune tappe europee, vestono giacchette luminescenti e futuribili che proiettano immagini inviate loro dai fan. Sono maniacali nella cura del suono, delle immagini e dei colori. Ma sono anche portatori sani di impegno. Negli ultimi anni hanno regalato ai seguaci un repertorio parecchio engagée: la denuncia sulla vita in carcere nel pezzo Come se, la ribellione di Liberi tutti, canzone usata per la campagna “Io voto”, il testo di Sole silenzioso ispirato a Carlo Giuliani, le rime di Piombo, che parla di mafia, e la critica al mondo della finanza di Prodotto interno lurido: «Libera l’Italia subito dal prodotto interno lurido». L’ultimo album (Una nave in una foresta) è ufficialmente dedicato a don Gallo, prete di strada, ma non contiene testi esplicitamente politici. In compenso, durante la conferenza stampa per il concerto di Capodanno a Roma, la band ha lanciato una bordata contro Mafia Capitale: «Non suoneremo certo per coloro che da decenni continuano ad ancorare il nostro futuro al palo del declino culturale e morale». Max rincara la dose: «Si parla tanto dell’Italia in declino, del fatto che non attiriamo investimenti dall’estero e che quindi bisogna mettere mano all’articolo 18. E poi si scopre che la mafia è ovunque. È mortificante».
Il dibattito sull’articolo 18 è un’arma di distrazione?
«È un elemento simbolico che crea contrapposizioni. Ma si sa che in realtà le aziende non investono in Italia soprattutto a causa della corruzione e di una pubblica amministrazione gestita male. Io su questi punti seguo don Ciotti».
E cioè?
«Penso che la prescrizione per certi reati andrebbe abolita».
Un album dedicato a don Gallo. E la linea politica di don Ciotti. In Italia solo i preti danno l’esempio?
«Il mondo della politica è screditato, anche perché tutto viene ridotto a contrapposizioni schematiche tra schieramenti. La lettura della realtà è distorta. E in questa distorsione ci sono generazioni che non hanno voce».
Un quadretto tragico. A parte i “don” non si salva nessuno?
«Ma certo. C’è un tessuto maggioritario fatto di persone oneste che danno più di quanto gli venga richiesto. Sono le navi nella foresta di cui parla il nostro disco. In un momento in cui non sembrano esserci ancore di salvezza abbiamo puntato il nostro obiettivo sul disorientamento individuale: sull’individualità contemporanea di chi non ha più punti di riferimento, che è cosa molto diversa dall’individualismo borghese del passato. La canzone Lazzaro parla di questo».
Il testo dice: «…resuscita un pezzo alla volta la volontà…».
«Lazzaro è una persona che ogni giorno deve trovare l’energia e l’immaginazione per andare avanti. La sinistra italiana dovrebbe cominciare a esercitarsi sui problemi di questi individui».
Non è la prima volta che usate riferimenti biblici: il cd Eden, Lazzaro,…
«Sintetizzano bene alcuni aspetti complessi. Noi abbiamo bisogno di parole precise che, scandite, possano funzionare su un tessuto musicale molto ritmico».
Sei tu che scegli le parole dei testi?
«Io e Samuel…».
Samuel è la voce del gruppo.
«Lui è molto attento al suono delle parole, io più al significato per il quale a volte forzerei anche la metrica. Ogni tanto, per trovare la quadra ci affidiamo al mio amico scrittore Luca Ragagnin. È neutrale come la Svizzera. Ha anche collaborato direttamente alla scrittura di alcuni testi, tra i quali Tutti i miei sbagli».
Tutti i miei sbagli è il pezzo che avete portato a Sanremo nel 2000. Quand’è l’ultima volta che vi hanno invitato al Festival canoro?
«Lo fanno continuamente. Ma persino le persone che fino a un paio di anni fa ci dicevano che Sanremo era fondamentale per vendere dischi, ora dichiarano che non lo è più».
Ormai è diventato solo uno show televisivo?
«È una considerazione che lascio fare a te».
La musica e la tv. Amici, X Factor, The Voice… I cantanti italiani più famosi ormai escono da queste trasmissioni.
«È una realtà che si perpetua».
In che senso?
«C’è stato un periodo in cui la musica ha avuto l’ambizione di essere rappresentata da persone capaci. Da visionari, liberi e irregolari. Si cercava di imporre la qualità, invece di seguire i fantomatici “gusti” del pubblico. Poi qualcosa si è rotto».
Quando?
«Direi tra la fine degli Anni Ottanta e l’inizio dei Novanta. Le case discografiche in alcuni casi hanno smesso di essere dei motori per le sperimentazioni e la musica è diventata un semplice strumento di intrattenimento. Nelle trasmissioni di cui parli si fa televisione. Non si fa musica».
Uno dei pilastri di X Factor è Morgan, musicista con cui anche i Subsonica hanno collaborato.
«Oggi di Morgan si esaltano le turbolenze da personaggio pop. Ma nei prossimi anni sarà rivalutato anche come artista. Nelle sue canzoni c’è molta qualità. Detto ciò ammetto di non seguire i talent».
Che cosa guardi in tv?
«Ne guardo poca. Qualche cartone animato con mia figlia e RaiNews24 che viene subito dopo i canali per bambini».
Il film preferito?
«Ho una certa età. Scelgo Blade Runner di Ridley Scott».
Il libro?
«American tabloid di James Ellroy. Per la lettura in controcampo e per quel dare voce ai cattivi, che porta con sé un accesso a più sfumature».
La canzone?
«L’album Remain in light dei Talking Heads del 1980: strumenti non convenzionali, tessuto urbano… C’era tutto».
A cena col nemico?
«Sarei andato a cena volentieri con Giulio Andreotti. Andrei con Licio Gelli. Per capire. Perché sono curioso».
Hai un clan di amici?
«Hanno quasi tutti a che fare con la creatività. E con i Subsonica. Ne cito uno su tutti: Marco Rainò, designer, che ha curato la copertina del nostro ultimo album».
Qual è la scelta che ti ha cambiato la vita?
«Prestare un amplificatore a Madaski, tastierista degli Africa Unite. All’epoca vivevo di musica con mille espedienti. Lui mi chiese se volevo andare a mixare un loro concerto. Dopo un po’ divenni membro attivo del gruppo: chitarra, testi… Cominciai a produrre».
L’errore più grande che hai fatto?
«Le cose non dette o non espresse. Roba sentimentale, poco giornalistica».
Sai dov’è il Kurdistan?
«Tra la Turchia, la Siria e l’Iraq. In Iraq ci sono stato nel 1992 per suonare con gli Africa Unite subito dopo la prima guerra del Golfo».
Quanto costa un pacco di pannolini?
«Non lo so. Non li compriamo più e comunque è mia moglie a fare la spesa».
Conosci l’articolo 12 della Costituzione?
«No».
E quello che descrive il Tricolore. Che cos’è per te il Tricolore?
«È un elemento visivo che mi ispira. Amo molto l’Italia e mi riconosco in tutte le sfumature dell’essere italiano. Ma detesto il termine Patria».
Perché?
«Per me vale il detto Anni Settanta: “Patria è il nome che si dà a una nazione quando questa si prepara a uccidere con una guerra”».

Vittorio Zincone

Categorie : interviste
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