Gianrico Carofiglio (Sette – novembre 2014)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 28 novembre 2014)
All’ingresso del suo piccolo appartamento romano, per terra, luccica un manubrio d’acciaio da dieci chili. Serve per i bicipiti. Gianrico Carofiglio, 53 anni, barese, ex magistrato antimafia ed ex parlamentare democrat, ha molto poco a che fare con l’immagine tradizionale dello scrittore italiano: quando gli chiedo se sia vero che è cintura nera di karate, parte subito con il racconto di alcune risse rocambolesche a cui ha preso parte. Mi mostra pure una foto in cui sferra un calcio volante al suo maestro. Dice: «Le arti marziali mi hanno aiutato ad affrontare la goffaggine adolescenziale».
L’avvocato Guerrieri, protagonista dei suoi romanzi più celebri, invece, ama la boxe. Nell’ultimo volume appena sbarcato in libreria (La regola dell’equilibrio, Einaudi), lo si trova spesso mentre chiacchiera con il sacco da allenamento. Il nuovo giallo si apre con l’immagine di un Pm arrogante e ruota intorno alla storia di un giudice in odor di corruzione. Chiedo: ha deciso di demolire il buon nome della magistratura? Replica: «Al massimo me la prendo con quelli un po’ cialtroni». Ce ne sono tanti? «Quanti nelle altre categorie. Ma la cialtronaggine di un magistrato è più visibile. Quello di cui mi interessa parlare in questo romanzo, in realtà, è la tendenza italianissima all’autoassoluzione: facciamo molti errori e deragliamo spesso dai nostri codici di comportamento morale e giuridico, e invece di ammetterlo e rimetterci sul binario giusto, regaliamo a noi stessi meravigliose giustificazioni». Gli faccio notare che alcune pagine del romanzo hanno il piglio del manuale deontologico. Altre svelano meccanismi poco noti della procedura penale. Il discorso cade inevitabilmente sulla riforma della giustizia del governo Renzi.
Ha letto la polemica sulle ferie dei magistrati? Renzi le ha ridotte drasticamente.
«Mi sembra un’operazione poco seria».
È poco serio anche insistere sulla responsabilità civile dei magistrati?
«No. Ma la questione non va strumentalizzata dalla politica».
Da ex Pm, suggerisca al ministro Andrea Orlando la riforma più urgente per far funzionare meglio il sistema giudiziario…
«Dovremmo mettere mano alla prescrizione e regolamentare meglio le impugnazioni».
Che cosa pensa dell’idea di sfoltire l’arretrato degli uffici giudiziari archiviando i reati minori?
«A certe condizioni e con un sistema di regole preciso sarebbe una buona idea».
Andrebbe regolato anche il via-vai tra politica e magistratura?
«Sì. Fermo restando che non si può impedire ai magistrati di concorrere alle elezioni. Ma bisogna soprattutto vigilare su quei magistrati che per entrare in politica si sono comportati in modo discutibile».
Fuori i nomi.
«Non è il caso».
Quando lei ha abbandonato la magistratura…
«Io non ho mai abbandonato la magistratura. Me ne sono andato proprio per non abbandonarla. L’avrei abbandonata se, da scrittore, fossi rimasto in magistratura cercando di lavorare il meno possibile per dedicarmi alla narrativa. In politica sono stato chiamato per i miei romanzi e non per le mie inchieste antimafia».
La chiamò Veltroni. Le piaceva l’idea lingottiana di Pd?
«Sì, abbastanza».
Ora il Pd…
«C’è un problema serio di svuotamento della forma partito».
C’è anche uno smottamento al centro della linea politica?
«Questo non saprei dirlo. A me piace molto lo slogan renziano per cui “la sinistra che non cambia diventa destra”. Considero i suoi contenuti di sinistra e, anche se non ho votato per Renzi, ho sempre considerato ridicoli quelli che un paio di anni fa lo descrivevano come un cripto-fascista e ora sono alla sua corte. È lo stile di comando a piacermi molto poco».
Perché?
«Non amo il disprezzo esibito per l’avversario. E considero la violenza verbale sempre un errore, anche quando sembra necessaria per raggiungere la vittoria. Puoi abbandonare il passatismo sindacale, ma non per questo ti devi abbassare a uno stile di comunicazione berlusconiano».
La comunicazione politica oggi impone di individuare un nemico.
«Lo so. È roba da duri. Ma ci sono confini etici che andrebbero sorvegliati».
Prima di diventare senatore nel 2008 lei aveva mai fatto politica?
«No. Al massimo, quando avevo sedici anni, ho fatto a botte con un fascista».
Usando il karate?
«Sì. Dopo una discussione in classe mi aveva detto: “Ti aspetto fuori”. Gliene diedi tante. Da quel momento a scuola smisero di considerarmi un sedicenne allampanato e innocuo».
Le è capitato spesso di usare il karate per strada?
«Una volta, anche mentre ero con un’amica magistrato».
Dove?
«A Firenze. Stavamo camminando. Due ragazzi nordafricani si sono avvicinati e hanno cercato di scippare la mia collega. Poi uno si è gettato contro di me. Gli ho detto: “È chiaro che stai cercando guai”. E lui: “Ti spezzo tutte le ossa”. Ha provato a colpirmi e si è preso una gomitata in faccia”. Sono volate sedie, bottiglie rotte…».
Far West puro: il Pm karateka e vendicatore.
«Solo per legittima difesa. Sono convinto che uno si mette a fare a botte solo se non ha il coraggio di andarsene. L’ho pure scritto in un racconto».
Lei scrive di mattina, come Alberto Moravia, o ha altri momenti prediletti nella giornata?
«Scrivo a tutte le ore. E prendo appunti su pezzi di giornale e tovaglioli di carta».
Una volta ha parlato della fatica di scrivere.
«Alcune parti del racconto mi pesa scriverle più di altre».
Quali?
«Quelle descrittive, di narrazione. Invece amo molto i dialoghi. Mi ci immergo ed è lì che creo lo spessore di un personaggio. Le parti processuali, poi, le scrivo con grande facilità. Anche perché non ho bisogno di controllare uno stile letterario: da ex magistrato è un gergo che conosco bene».
Quando ha deciso di entrare in magistratura?
«Nella primavera del 1985».
Mosso da afflato civico per la giustizia?
«In realtà per caso. Dopo la laurea ho cazzeggiato per un anno, saltando da uno studio legale all’altro. Poi, un pomeriggio, incontrai Michele Emiliano…».
…attuale sindaco di Bari…
«…Parlando dei futuri possibili spuntò un concorso per entrare in magistratura. Decidemmo di provare e ci iscrivemmo nell’ultimo giorno possibile. Nessuno di noi due aveva toccato libro. A poche settimane dall’esame, per concentrarci, ci trasferimmo nella villa al mare dei genitori di Michele. Venne fuori una preparazione con luci e ombre. Tra lo scritto e l’orale, però, capii che avrei voluto fare davvero il magistrato».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Ne ho in mente diverse. C’è anche una sconfitta che in modo inatteso me l’ha cambiata in meglio».
Quando?
«Nel 1998. Concorrevo per un posto nel comitato scientifico del Csm. Per vanità più che per ambizione. Non passai per un voto. E l’anno successivo cominciai a scrivere romanzi».
Il libro preferito?
«Lo studente straniero di Philippe Labro».
La canzone?
«Thunder road di Bruce Springsteen”.
Il film?
«Picnic a Hanging Rock, Un mercoledì da leoni e Momenti di gloria».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«L’11 è quello sui rapporti internazionali. Il 13 è quello sulla libertà personale. Il 12… Non lo so».
È quello che descrive la bandiera nazionale. Che cos’è per lei il Tricolore?
«I simboli della Patria mi emozionano. Ma non amo l’espressione “Patria terra dei padri”».
Perché?
«Perché preferisco pensare alla Patria come terra dei figli».

Vittorio Zincone

Categorie : interviste
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