Maurizio Martina (Sette – agosto 2014)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera l’8 agosto 2014)
Giovanissimo, ma con un Dna politico di cui va fiero: Pds-Ds. Identitario senza esagerare: «L’Italicum può decisamente migliorare, ma conosco la fatica della mediazione politica». Maurizio Martina, 36 anni, atalantino sfegatato, è il ministro dell’Area riformista, la minoranza Pd lealista. Nell’estate delle tagliole e dei canguri senatoriali, ha l’ambizione di cambiar pelle al dicastero dell’Agricoltura per farlo tornare ai fasti cavouriani. Dice: «Qui ci sono grandi professionalità, ma i tempi di reazione sono spesso da burocrazia pachidermica». L’intervista si svolge nella sua enorme stanza ministeriale. Sul tavolo ha un libretto che parla di eco-mafie e dei rischi di investimenti malavitosi nell’agroalimentare. Il Tg annuncia difficoltà nel trovare un accordo sulla riforma del Senato. Martina non ha dubbi: «Il bicameralismo va cambiato. Lo capisce anche chi non si occupa di politica». Obietto: «È sicuro che i piccoli imprenditori agricoli siano interessati alla riforma di Palazzo Madama?». Replica secca: «Sì, certo. Capiscono che le Istituzioni devono cambiare».
Ha fatto studi tecnico-agrari e ha una laurea in scienze politiche. A un certo punto srotola una biografia che sembra elaborata per la stampa: «Da ragazzo volevo fare la guardia forestale». Davvero? «Leggevo i libri di Danilo Mainardi ed ero innamorato dell’etologia». Ora ha il compito di fare la guardia all’Expo e di varare la kermesse mondiale dell’alimentazione del 2015. È a stretto contatto con il presidente dell’Anticorruzione, Raffaele Cantone. Domando: «Andare avanti malgrado gli scandali e le tangenti, dicendo che non ci si può fermare perché sarebbe una débâcle nazionale, non è un ricatto?». Martina sfodera un gioco di parole di stampo renziano: «Più che di ricatto, parlerei di riscatto».
A un certo punto, parlando di riforma del lavoro e di quanta acqua sia passata sotto i ponti del riformismo da quando lui stesso era al Circo Massimo con Sergio Cofferati per difendere l’articolo 18, dice: «Il mondo è cambiato. Il lavoro è la madre di tutte le battaglie. Dobbiamo prepararci per l’autunno».
Sarà un autunno caldo?
«Sarà il crocevia di dinamiche economico-sociali toste. Questo governo ha una forza incredibile. Dovrebbe avere anche il coraggio di impostare scelte come quelle fatte da Schröder in Germania alla fine degli anni ’90».
Credo che il premier si ispiri di più a Blair.
«Penso che i tedeschi abbiano innovato meglio: hanno introdotto un nuovo ruolo del sindacato, diverse responsabilità delle imprese e, ovviamente, nuovi strumenti di welfare pubblico. Noi dobbiamo aiutare soprattutto i piccoli imprenditori che ci hanno dato credito».
Parla dei voti conquistati al Nord alle ultime Europee?
«Renzi ha abbattuto un muro. Anche i piccoli imprenditori ci hanno votati per disperazione e per speranza. Ma ti misurano subito. E il loro voto potrebbe tornare facilmente altrove. Dobbiamo sbrigarci. Renzi, tra l’altro, ha intuito la centralità dell’agroalimentare nel futuro del Paese».
Volete far tornare l’Italia un Paese agricolo?
«Non esageri. Di sicuro dobbiamo innovare il settore. Dobbiamo far collaborare meglio la produzione, la trasformazione e la distribuzione dei beni alimentari. A settembre lanciamo l’iniziativa “Quota 50”».
Che cosa sarebbe?
«Un piano di internazionalizzazione. Vogliamo far aumentare l’export alimentare da 33 miliardi all’anno a 50. Gli incentivi per l’aggregazione delle imprese, sono la madre di questa rivoluzione. L’aggregazione è necessaria per affrontare il mercato globale».
Per affrontare il mercato globale le nostre imprese dovrebbero usare di più e meglio Internet.
«Stiamo lavorando sull’e-commerce. Lo sa quali sono le tre richieste principali dei viticoltori italiani?».
Quali?
«Più controlli, meno burocrazia e ricevere una mano sulla proprietà dei domini “.wine”. C’è una società americana che detiene i domini generici e chiunque paghi può usare anche le nostre denominazioni senza averne il diritto. Ci stiamo attrezzando. Ma l’Europa tutta è in ritardo».
Il ministero dovrà monitorare anche gli effetti del Ttip, il trattato commerciale tra Europa e Stati Uniti in discussione in questi mesi?
«La partita è serissima. Ci sarà una battaglia vera, che non possiamo perdere: gli Stati Uniti sono concentrati sulla tutela dei marchi, e noi, invece, dobbiamo tutelare le indicazioni geografiche degli alimenti. Sinonimo di qualità».
Lei è un appassionato di alta cucina?
«Non particolarmente. Ma sto cominciando a conoscere un’eccellenza importante del Paese».
È vegetariano?
«Amo la carne».
È mai andato a caccia?
«No. Ma da bambino mi incuriosivano fagiani e lepri».
La sua infanzia.
«Ho vissuto in una cascina di Mornico al Serio, una piccola cittadina del bergamasco, fino ai miei venti anni. Ermanno Olmi girò L’albero degli zoccoli proprio da quelle parti».
Papà e mamma agricoltori?
«Erano entrambi operai. A scuola un insegnante mi introdusse agli spettacoli teatrali di impegno civico».
Recitava Brecht?
«No. Con altri ragazzi partecipavo alle rassegne per le scuole mettendo in scena spettacoli ambientalisti e contro il razzismo. I miei miti erano Chico Mendes e Nelson Mandela. Poi nel 1992 cambiò tutto».
Colpa di Tangentopoli?
«No. Il 23 maggio ero a Chiusi per il Festival “Ragazzi in gamba”. Pioveva. La notizia della strage di Capaci mi travolse. Fu una sveglia politica: una chiamata a capire e a impegnarsi di più. L’anno dopo, insieme con i miei compagni di teatro scendemmo in treno a Palermo e mettemmo in scena uno spettacolo sulla legalità per ricordare la strage di Via D’Amelio».
Il primo comizio a cui ha assistito?
«Gli oratori erano Roberto Speroni e Giancarlo Pagliarini».
È stato leghista?
«No. Mi avevano detto che c’erano questi due che venivano a parlare di federalismo fiscale, presi la bici e mi intrufolai nell’assemblea del Carroccio: faceva impressione la loro sintonia con le esigenze del territorio. Poco dopo scoprii una sezioncina del Pci-Pds chiusa. Con alcuni amici ci mettemmo a lavorare per riaprirla. Non fu facile».
Perché?
«Da noi la Dc prendeva l’80%. E c’era la valanga leghista. Alla Festa dell’Unità non ci veniva nessuno. Aprivamo la sezione il lunedì sera e all’inizio venivano solo cinque compagni. Giancarlo, il più anziano, ci raccontava la storia del Pci, Berlinguer…».
In venti anni ha fatto tutto il cursus del “buon compagno”.
«Sono stato segretario provinciale dei giovani e del partito, poi segretario regionale… Il titolo della mia prima intervista su un quotidiano bergamasco è stato: “L’ultimo dei militanti”. Ci rimasi male».
A cena col nemico?
«Con Matteo Salvini».
Come mai?
«Si dovrebbe vergognare per le accuse fatte a Renzi e Alfano sull’operazione Mare Nostrum e sugli immigrati morti nel Canale di Sicilia. A tavola glielo direi in faccia».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Non fare l’Erasmus».
Ha due figli. Gli fa frequentare gli hamburgerifici?
«Preferiscono le salsicce delle feste del Pd».
I dirigenti del Pd con una storia nel Pci hanno abolito il nome “Festa dell’Unità”, l’ex popolare Renzi lo ha ripristinato.
«Capisco il paradosso. Ma sono contento. È una scelta simbolica forte».
Che cosa guarda in tv?
«Raramente l’attualità politica. Ma tutto, anche Masterchef. A New York ho partecipato a un’iniziativa sul Made in Italy con Lidia Bastianich».
Il film preferito?
«La vita è bella di Roberto Benigni».
La canzone?
«Quelle dei Nirvana, dei Coldplay e dei Nofx».
Il libro?
«La biografia di Steve Jobs».
Sa quanto costa un litro di latte?
«Un euro e mezzo. E i produttori prendono solo 40 centesimi».
Il resto a chi va?
«Alle grandi aziende che lavorano il latte e a quelle che lo distribuiscono. Anche lì, le cose devono cambiare».
I confini di Israele?
«Mi piacerebbe un confine con un vero Stato della Palestina».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«È quello sul Tricolore. Ecco, vorrei raccontarle la scena a cui ho assistito durante un viaggio».
Quale viaggio?
«Quello che mi sono organizzato da solo per essere negli Stati Uniti il 4 novembre 2008, la sera della prima vittoria di Obama».
Racconti?
«Ero a Chicago. Quando Obama è arrivato davanti ai suoi sostenitori, è partito l’inno. Cantavano tutti a squarciagola. Roba da pelle d’oca. Ho ancora il video. Poi è arrivata la telefonata di McCain, l’avversario sconfitto che si congratulava con il vincitore».
Lei si è un po’ vergognato pensando al pollaio della politica italiana?
«Se vedi una scena così, capisci che cos’è una nazione».

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