Massimo Egidi (Sette – settembre 2013)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 13 settembre 2013).

Massimo Egidi, 71 anni, è il rettore della Luiss, coordina centinaia di docenti, accudisce migliaia di studenti e insegna Economia dell’incertezza e dell’informazione. Spiega: «Mi occupo principalmente di come le persone reagiscono nelle condizioni di rischio». Lo provoco: «Una delle sue professoresse, Paola Severino, è l’autrice della legge sulla decadenza dei politici condannati che ha terremotato la politica italiana». Replica sorniona: «È una buona legge. Votata da tutti».
Polo blu e mocassini. Egidi mi stringe la mano e mi mette in guardia: «Non sono un tuttologo». Da studioso, teme di doversi esporre su cose che non ha studiato abbastanza. Dice: «Niente di ciò che è legato all’economia è certo». Il rettore non ama gli integralisti delle teorie economiche e definisce “teologi” i suoi colleghi inamovibili con la ricetta giusta appuntata sul taccuino. Quando gli chiedo di misurare lo stato di salute dell’economia italiana, prima mi dice che l’incertezza sull’indebitamento delle amministrazioni locali rende difficili i calcoli, e poi mi spiazza, sostenendo che la priorità è affrontare alcuni problemi politici e istituzionali. Quali? «L’assenza di feedback democratico in Europa, per esempio: una studentessa di Bari scontenta non può influire in nessun modo sulle decisioni di Angela Merkel, eppure subisce le conseguenze di quelle decisioni».
Le volevo chiedere che fine farà l’Italia se sforerà la soglia del 3% nel rapporto tra deficit e pil e lei mi parla di processi democratici?
«La soglia del 3% è strettamente legata alla credibilità dei progetti politici».
Cioè?
«La Francia ha sforato il tetto del 3% e ha potuto farlo perché ha presentato un progetto, una serie di riforme credibili. I nostri numeri non sarebbero tali da paralizzarci, se solo avessimo una solida prospettiva programmatica. Il problema è che la politica non sforna riforme credibili».
Dia un suggerimento alla politica.
«Avviare la modernizzazione del sistema pubblico».
È una formula da campagna elettorale.
«È un modo per trattenere in Italia le eccellenze industriali: qui ci sono troppi vincoli, tempi allungati, incertezza del diritto. Non si tratta di dare solo incentivi economici agli imprenditori. Ma di rimuovere le condizioni che impediscono la crescita».
Gli imprenditori si trasferiscono all’estero perché la manodopera fuori costa meno.
«Il costo del lavoro è un ostacolo superabile. Molti imprenditori statunitensi che si erano trasferiti in Cina stanno tornando a casa. Hanno deciso di puntare sull’innovazione. Un operaio specializzato che ti costa dieci volte di più di un lavoratore rumeno può usare macchinari più sofisticati e produrre nuovi beni, spostando così il mercato. È un principio schumpeteriano. Certo, dobbiamo migliorare anche il rapporto tra industria e ricerca. Ma in alcune zone non siamo messi male».
Una recente classifica tra le regioni più competitive d’Europa ha visto scivolare la Lombardia fuori dalle top 100.
«Sarà, ma sulla meccanica fine e sulla robotica la qualità delle ditte lombarde supera spesso quella delle imprese tedesche del Baden-Württemberg».
La disoccupazione giovanile in Italia ha raggiunto livelli vergognosi. I ragazzi si stanno rassegnando a un futuro precario.
«La precarietà riguarda una generazione sfortunata, che ha incrociato una crisi diabolica. Chi sostiene che nulla sarà più come prima e che il posto fisso è una chimera fa teologia, e scommette su un crollo drastico dell’Europa. Oggi uno studente brillante in Inghilterra trova un posto fisso. Bisogna dare speranza».
Quanto conta l’aspetto psicologico sulla ripresa dell’economia di un Paese?
«Tanto. Una società per rimanere stabile ha bisogno che i suoi membri possano programmare il futuro. L’effetto dell’incertezza nel disegnare il proprio destino è distruttivo. Per una famiglia, per un popolo».
È distruttivo anche per la Borsa e per gli investimenti?
«Non mi faccia parlare…».
Parli, parli.
«Temo che sia in corso, soprattutto in settori legati allo sviluppo e all’innovazione, un processo di competizione globale, con acquisizioni…».
Traduco: qualcuno vuole fare shopping acquistando a poco prezzo i nostri gioielli industriali. Fuori i nomi.
«Non pensi a una singola azienda. Pensi che quando la borsa scende in modo consistente il valore degli asset di un’impresa si abbassa. Se poi l’impresa non vive un bel momento diventa una preda potenziale».
Come ci si protegge dai predatori?
«Mettendo in atto fusioni. Trovando capitali. I francesi e gli spagnoli si sono organizzati meglio di noi. E anche lo Stato lì si è mosso».
Lei non ha figli, ma se ne avesse li farebbe studiare in Italia?
«Fino alla laurea di sicuro. Poi consiglierei qualche esperienza all’estero».
Lei è stato molto fuori dall’Italia?
«Sono stato a Berkeley e nel New Mexico dove c’è un centro di ricerca sulla complessità abbastanza famoso».
Perché è tornato in Italia?
«Quando sono arrivato lì ero troppo vecchio per fare carriera accademica. In Italia avevo già una buona posizione».
Ha mai fatto politica?
«No. Ma ho imparato a convivere con la politica sin da giovane. Ero all’università, a Torino, durante il ’68. Tutti quelli con cui studiavo e si sono laureati tre anni dopo di me hanno fatto in tempo a diventare leader studenteschi».
Di chi parla?
«Luigi Bobbio, Guido Viale…».
Viale oggi è teorico del riuso, un guru tra i fan della decrescita.
«E infatti non mi convince molto».
A cena col nemico?
«Luigi Zingales. Non andiamo molto d’accordo».
Zingales, professore a Chicago, è l’economista lib-lib-lib che durante le ultime elezioni ha dato vita alla lista Fare per fermare il declino.
«Siamo tutti e due nel consiglio di amministrazione di Telecom. Abbiamo cenato spesso insieme. Ma non abbiamo quasi mai la stessa posizione».
Lei ha un gruppo di amici?
«Alcuni risalgono all’infanzia piemontese. Molti sono economisti. Ne cito uno: Innocenzo».
Cipolletta, l’economista, ex presidente di Ferrovie dello Stato?
«Ebbene sì».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Ne ho fatti troppi per poterne individuare solo uno».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«Lasciare il Politecnico di Torino e la matematica per iscrivermi a Scienze politiche e studiare l’economia e la teoria dei giochi».
Che cosa guarda in tv?
«I tiggì, raramente i talkshow. Molti film».
Il film preferito?
«C’era una volta in America di Sergio Leone».
La canzone?
«Intende le canzonette? Posso citare l’aria di un’opera».
Sì, certo.
«La canzone del salice, nell’Otello di Verdi».
Il libro?
«Il maestro e Margherita di Michail Bulgakov. È un libro pieno di vita».
Che volume consiglierebbe a uno studente che si vuole avvicinare all’economia?
«Un classico. Prima si scriveva ragionando in modo molto più aperto. Direi La ricchezza delle nazioni di Adam Smith».
Sa quanto costano sei uova?
«Aspetti… Faccio un calcolo… direi poco più di due euro».
Scusi, che calcolo ha fatto?
«Sono partito da alcuni dati che mi ha dato qualche giorno fa un amico che ha diecimila galline».
Non poteva partire dal prezzo che vede sugli scaffali del supermercato?
«Faccio la spesa. Ma controllo i prezzi solo se devo prendere qualche leccornia da cucinare».
Lei cucina?
«Sì. Sono specializzato in brasati e risotti».
Sa che cos’è Twitter?
«Sbircio ogni tanto che cosa scrive Obama».
Conosce i confini della Siria?
«Libano, Israele, Giordania…».
La guerra in Siria…
«Più che una guerra quella di Obama vorrebbe essere una punizione esemplare. Diciamo che non condivido l’approccio moralistico».

Vittorio Zincone

Categorie : interviste
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