Massimo Carraro (Sette – aprile 2013)
0 commentiLo contatto mentre è in partenza per Pechino. L’intervista si svolge via Skype. Massimo Carraro, 54 anni, imprenditore, figlio di imprenditori, è partito dai cinturini ed è arrivato a vendere i gioielli Morellato e gli orologi Sector in tutto il mondo. Dice: «Ho aperto tre negozi a Teheran. Sotto i burqa ci sono le mie collane». È il prototipo dell’industriale veneto di sinistra: molto prodotto, pochi fricchettonismi. Quando lo provoco con un’invettiva animal-ambientalista contro l’uso del corno annunciato per i prossimi bracciali, fissa lo schermo del suo tablet e mi stoppa: «Il corno è bello e naturale». Punto.
Carraro ha un passato da giovane confindustriale, è stato europarlamentare con i Ds e candidato alla presidenza del Veneto con l’Unione. Se gli chiedi che cosa dovrebbe fare un governo per risollevare le sorti delle imprese italiane, si mette in modalità “fiume in piena” e srotola un elenco fitto di problemi/soluzioni. Partendo da una considerazione inusuale sul sistema industriale: «Ci hanno raccontato per anni che piccolo è bello. Ecco, ora lo possiamo dire: è una vera idiozia».
Perché?
«Perché se vogliamo aggredire un mercato che non sia solo quello italiano, se vogliamo lavorare in Asia ed esportare la grande cultura del Made in Italy, dobbiamo crescere».
Si riferisce alle dimensioni delle aziende?
«Sì. In Italia ci sono molte eccellenze, ma a parte qualche eccezione, nessuno riesce a lavorare bene in Cina o in India. Anche perché aggregarsi per diventare grandi è complicatissimo. Il fatto che alle imprese vengano messi tanti bastoni tra gli ingranaggi, mi ha fatto arrivare alla conclusione che il Made in Italy piace a tutto il mondo, ma non all’Italia».
Lei però è cresciuto.
«Con un lungo e faticoso piano di acquisizioni. L’ultima è stata il marchio Pianegonda. Grande design sull’argento».
Non esageri con gli auto-spot.
«Ho un obiettivo: diventare il campione italiano della gioielleria/orologeria nel mondo».
Lei produce in Italia?
«Il design, le idee, lo stile e la comunicazione sono realizzate in Italia. La creatività e l’innovazione sono nostrane».
La manodopera no?
«La produzione avviene soprattutto all’estero».
Troppo facile parlare di Made in Italy e poi delocalizzare.
«Le condizioni economiche del mercato globale non le decido io. Mi piacerebbe lavorare molto di più in Italia, ma è difficile».
Se lei fosse un imprenditore straniero aprirebbe un’azienda manifatturiera in Italia?
«Onestamente? No. Non ci sono le condizioni».
Che cosa manca?
«Una giustizia che funzioni. Leggi certe e stabili. Un fisco non oppressivo. Un mercato del lavoro che ti permetta di premiare il merito».
È un programma che si potrebbe definire di destra, berlusconiano.
«Piano con le offese. Se in Italia questi principi sono considerati di destra è un segno del ritardo culturale della sinistra verso i processi di cambiamento del mondo. Anche nell’ultima campagna elettorale ho visto un Pd concentrato sulla solidarietà, che è un principio fondamentale, ma troppo poco attento al merito».
Le tre cose da fare subito.
«Liberare energie: abolire gli ordini professionali e lottare contro le lobby, compresa quella di Confindustria. Ancora: aprire il mercato del lavoro e abbattere l’apartheid tra chi è ultra garantito e chi non lo è affatto».
La riforma Fornero…
«È vuota. Non ha cambiato nulla».
Oggi per una leadership del centrosinistra su chi punterebbe, Matteo Renzi o Fabrizio Barca?
«Devo proprio scegliere? Credo che Bersani abbia giocato le sue carte. E ora tocchi a Renzi».
Lei è considerato vicino a Prodi.
«Già. Ogni tanto ci sentiamo. L’ultima volta l’ho incontrato in Etiopia. Lui era lì con l’Onu e io come sostenitore dell’Ong “Medici per l’Africa”. Abbiamo inaugurato insieme una rete di quindici ambulatori per la maternità. Giorgio Napolitano, invece, lo conosco dai tempi del Parlamento europeo».
Eravate vicini di banco?
«Lui era il più bravo e intelligente, io il più sprovveduto. Credo di averlo mosso a compassione: è nato un buon rapporto di amicizia».
Lei da giovane è stato iscritto alla Fgci. La Federazione dei giovani comunisti italiani.
«Prima ancora sono stato vicino a Lotta Continua».
Il figlio di un imprenditore padovano sulle barricate.
«Allora era una cosa comune. Comunque a 18 anni ho interrotto la mia attività politica».
Perché?
«Per studiare Giurisprudenza. Mi sono laureato a 23 anni e sono rimasto all’università fino ai 29. Ero professore a contratto di Diritto pubblico comparato. A un certo punto mi è venuto un forte senso di inutilità. Pensavo: voglio fare qualcosa di concreto».
Studiare non lo era abbastanza?
«Allora pensavo così. E oggi mi viene da ridere. Comunque andai a bussare in azienda da mio padre».
Che cosa produceva suo padre?
«Cinturini. Insieme con due soci. Non tutti videro con favore il mio arrivo. Non avevano bisogno di me. Nei primi Anni Novanta, insieme con mio fratello Marco, ho rilevato l’azienda per cercare di espanderne gli interessi. Non avevo una lira, mi diede una mano Silvano Pontello, gran capo di Banca Antonveneta».
Oggi per le imprese italiane l’accesso al credito è un problema serio.
«Direi il problema principale. È in corso uno strangolamento delle piccole aziende. Sia Monti sia la Bce non hanno fatto molto. In ogni caso anche io, a fine Anni Novanta, quando decisi di passare dalla produzione dei cinturini ai gioielli, non avendo una lira, fui costretto a vendere uno dei nostri capannoni».
Quanti ne aveva?
«Due. Uno lo diedi via con tanto di macchinari per pagare la nostra prima campagna pubblicitaria. Lo slogan di lancio fu: “Gioielli da vivere”. Mio padre non mi parlò per un anno, quindi può immaginare la sua sofferenza. Ma io ero convinto di avere l’idea giusta: innovare il prodotto e il costume. E quindi andai dritto».
Quando e come le venne quell’idea?
«Un giorno mia moglie Cristina chiese: “Quando mi regali un gioiello che io possa indossare ogni giorno al lavoro?”. Fu un’illuminazione. Lei non si voleva mettere quelli bellissimi che il padre le aveva regalato in tanti anni, perché erano troppo preziosi e vistosi per andarci in ufficio. Pensai che anche sui gioielli andava fatta una piccola rivoluzione».
La sua fortuna dipende da una richiesta di sua moglie?
«Nella moda c’era già stata questa innovazione. E la Swatch aveva inventato l’orologio di design democratico. Le grandi idee vengono anche dall’osservazione della società. Io viaggio e mi guardo intorno. Cammino per le strade e scruto. Sono stato presidente dei giovani industriali veneti. Ogni tanto mi capitava di parlare con colleghi imprenditori che mi dicevano: “Lavoro dalle 7 di mattina alle 21”. A chi lo faceva rispondevo puntualmente: “Sei un fesso”».
Non è bene lavorare troppo?
«Non ho detto questo. Si deve lavorare, eccome. Ma bisogna anche dare a se stessi il tempo per osservare il mondo che cambia. Viaggiare, capire le trasformazioni in corso. Per me è stato fondamentale intercettare il desiderio delle donne, che stavano mutando ruolo nella società. E se non fossi un osservatore attento oggi non potrei variare i miei prodotti e piegarli alle culture e ai mercati in cui sbarco: il Medio Oriente, l’Asia…».
A cena col nemico?
«Troppo facile dire Berlusconi. Diciamo che andrei a cena con uno di quei big che guidano le maxi imprese che basano la loro fortuna sulle rendite di posizione: Enel, Eni…».
Lei ha un clan di amici?
«I miei amici non fanno quasi mai il mio mestiere. Un nome su tutti: Federico, magistrato».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Non ho scommesso abbastanza sulla crescita».
Quando?
«Intorno al 2005/2006. Quando c’era una finanza più facile e si cresceva più velocemente. Dopo l’acquisizione di Sector, di Philip Watch, della catena di negozi Blue Spirit e dopo essere sbarcato in Cina, decisi di fermarmi. Dovevo crederci ancora di più».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«Lasciare l’università ed entrare in azienda».
I suoi figli sono già in azienda?
«No. Giovanna sta a Londra, Costanza studia a Milano e il più piccolo Francesco, che ha 10 anni, vive a Padova con me».
I suoi orologi sono “no limits”, il simbolo commerciale degli sport estremi, lei…
«Io al massimo faccio un po’ di arrampicata e qualche immersione».
Che cosa guarda in tv?
«Informazione. E poco altro».
Il film preferito?
«Recentemente ho visto Hugo Cabret di Martin Scorsese. Grande fotografia e musiche meravigliose».
Il libro?
«Da Guerra e pace di Lev Tolstoj a Vita e destino di Vasilij Grossman, penso che il romanzo russo sia superiore».
La canzone?
«Buonanotte Fiorellino di Francesco De Gregori».
Sa che cos’è Ruzzle?
«No».
Cinguetta su Twitter?
«No. Leggo libri e vado a vedere mostre d’arte. Sono fuori moda?».
No. Si dice che lei sia un esperto d’arte veneziana tra ’600 e ’700. Quale pezzo vorrebbe avere sulle pareti di casa sua?
«Uno qualunque di Tiziano o di Luca Carlevarijs».
Conosce l’articolo 41 della Costituzione?
«È quello che parla di imprese?».
Sì. Anche della responsabilità sociale delle imprese.
«Giusto. Oggi molti tirano i remi in barca, invece si dovrebbe affrontare la crisi avendo bene in testa questi valori».
Vittorio Zincone
© RIPRODUZIONE RISERVATA