Antonello Venditti (Sette – ottobre 2012)
0 commentiAntonello Venditti, 63 anni, mi accoglie nel giardino della sua abitazione capitolina. Ha un sorriso beffardo. Soddisfatto. «Ma davvero vogliamo commentare le ultime ruberie dei politici?». Lui è allo stesso tempo cantore della romanità e fustigatore del malcostume capitolino. Ci tiene a distinguere: «Fiorito & Co non rappresentano Roma. Loro sono quello che io chiamo il “carciofo romanesco”». Che cosa sarebbe? «La romanità sbracata, il magna-magna che non ho mai sopportato». Venditti ha le prove. Da adolescente scrisse Sora Rosa: «Me ne vojo annà da ’sto Paese marcio/ che cià li bbuchi ar posto der cervello/ che vo’ magna’ sull’ossa de chi soffre/ che pensa solo ar posto che po’ perde». Poi venne Roma capoccia, «der monno infame». E infine la pre-tangentopolista In questo mondo di ladri. Mentre parliamo Venditti si illumina: «Ho precorso i tempi».
In che modo?
«In questo mondo di ladri vale quasi più oggi di quando è stata pubblicata».
La canzone è del 1988.
«Ha attraversato Tangentopoli ed è arrivata intatta fino ai tempi dello spread, del berlusconismo e dell’affare Fiorito: In questo mondo di debiti/ viviamo solo di scandali/ e ci sposiamo le vergini».
Effettivamente.
«Ascolta, ascolta: Eh, e disprezziamo i politici/ e ci arrabbiamo, preghiamo, gridiamo/ piangiamo e poi leggiamo gli oroscopi. Più di così?».
Non è cambiato molto. Ci risiamo.
«Facciamo le solite premesse».
Quali?
«Io sono garantista eccetera eccetera. Anche se coi processi decennali essere garantisti è complicato. Oltre il garantismo, c’è l’estetismo».
L’estetismo?
«L’orrore estetico di questo ritorno in maschera degli Anni Ottanta è insopportabile. Fiorito, anche se viene da Anagni, è la rappresentazione plastica del magna-magna romanesco, del Carnevale permanente. Mentre esplode una quaresima palpabile nei volti delle persone che soffrono e lavorano per pochi euro al giorno, è stata smascherata una Roma in maschera che non vuole smettere di danzare a spese dei contribuenti. È come se ci fosse una doppia moneta».
In che senso?
«I cittadini normali che pagano le tasse hanno una moneta svalutata, è come se fossero tornati alla liretta. I politici, invece, usano una moneta solida. Hanno stipendi che aumentano. Come aumentano i carrozzoni per produrre sprechi».
I carrozzoni sarebbero le Regioni?
«Sì. Invece di creare istituzioni vicine ai cittadini e alle loro esigenze, sono state edificate nuove cattedrali del sottopotere: Regioni, province… tutti luoghi dove piazzare gli amici degli amici degli amici. E noi paghiamo».
Tu paghi?
«A me la Guardia di Finanza ha dato tre encomi».
Hai qualche conto corrente all’estero?
«Non mi è mai venuto in mente di aprirne uno».
È legale, eh.
«Quella che ci troviamo di fronte non è più una casta. È una castissima. Una canasta di interessi».
La casta romana.
«A Roma il potere è spartito tra politici, palazzinari e Vaticano. È un intreccio pericoloso per i cittadini. Nel 2012, con la magistratura attenta da anni alle ruberie, il fatto che questi personaggi continuassero a “mangiare” soldi pubblici in questo modo vuol dire che avevano una fame atavica».
Alemanno si è indignato.
«Non credo che il sindaco sia estraneo al sistema di potere capitolino».
Chi si salva tra i politici?
«Renzi non mi era simpatico, ma l’ho ascoltato recentemente. È disposto alla sconfitta e questa è una cosa rara. Mi ha abbastanza convinto. E poi c’è Grillo. Un amico. Ha rinunciato alla carriera sicura da comico per seguire la sua vocazione democratica. Con lui stanno facendo come hanno fatto con me».
E cioè?
«Quando ho scritto In questo mondo di ladri, quelli del Pci mi hanno etichettato come qualunquista. Eppure io mi riferivo a loro quando cantavo: “C’è ancora un gruppo di amici che non si arrendono mai”. Ora voglio vedere che cosa succede con la legge elettorale: se non la cambiano io non voto. Se la cambiano voto Pd… o Grillo».
Renzi ha proposto l’abolizione dei vitalizi, il dimezzamento del numero dei parlamentari e degli stipendi degli eletti.
«Mi pare il minimo».
Nei partiti, anche nel Pd, non tutti sono d’accordo con questa ricetta.
«C’è chi vuole salvaguardare la propria casta. Parliamo di un popolo della politica che vive grazie alle appartenenze: nei musei, nei teatri, nelle banche. Antepongono se stessi all’interesse del Paese. Io ho scritto una canzone, Dolce Enrico, dedicata a Berlinguer. Ecco, penso che in questo momento il vecchio leader comunista si stia rivoltando nella tomba».
I detrattori di Renzi dicono che è berlusconiano.
«Io penso che sia lontanissimo da quell’estetica becera. In questo momento servono sia lui sia Grillo. Lo sai che nel 1996 io cominciai a organizzare un movimento simile a quello di Beppe?».
Volevi fare politica?
«Io sono un libero pensatore anarchico di sinistra. Volevo mobilitare i cittadini in un movimento che si chiamava “Fazzoletti bianchi”».
Come è andata a finire?
«Sono stato boicottato. Ho cominciato a vedere che intorno a me circolavano personaggi loschi. Ho preferito desistere».
Tu sei stato socialista?
«Altra voce messa in giro per denigrarmi».
Non c’è nulla di male a essere stato socialista.
«Lo hanno detto quando il Psi era il partito di Craxi».
Hai mai partecipato a qualche festa del periodo craxiano?
«Mai. Al massimo in quel periodo sono stato a una cena a casa dell’architetto Paolo Portoghesi».
Sono più eleganti le cene burlesque di Berlusconi o quelle con gli invitati vestiti da proci e da ancelle?
«Trionfa l’estetica berlusconiana. Cambia solo la maschera. E questa è una tragedia nazionale. Ci sono intere generazioni cresciute nella convinzione che la vita si realizzi seguendo i modelli televisivi. Uomini di partito che pagano per andare in tv e perpetuare le loro carriere. A spese nostre. Si fa politica solo per avere una parte nella grande commedia della casta, dove tutto è permesso. E intanto Roma decade».
Roma ti sembra peggiorata negli ultimi anni?
«Non si investe più in cultura. Le piazze sono usate come bazar o come ring per combattimenti notturni. Mentre nella pulitissima Verona persino i romani diventano educati, a Roma l’atteggiamento da carciofo romanesco contagia anche il più algido dei turisti scandinavi».
Una situazione disperata.
«I romani si devono riprendere la città. Devono tornare a occuparsi della cosa comune».
A cena col nemico?
«Per me non esiste il nemico».
Hai un clan di amici?
«Certo. Un gruppo abbastanza ristretto».
Il nome di uno di questi amici?
«Ti dico l’iniziale: L.».
È vero che L. e gli altri tuoi amici vengono da te per vedere tutte le partite della Roma?
«In giardino si crea una piccola curva. Arriviamo a sessanta persone».
Hai detto che con Zeman sei tornato anche allo stadio.
«Zeman è un’idea di cittadinanza».
Hai scritto la canzone La coscienza di Zeman.
«Lui rappresenta l’idea che il sudore valga più di una mazzetta. Che il talento possa prevalere sulla raccomandazione. Zeman è intellettualmente onesto».
Come apre bocca esplode una polemica.
«Dice spesso cose di buon senso. Ma nelle orecchie di chi il buonsenso l’ha messo da parte, sembrano concetti rivoluzionari: non barare, non doparsi, non truccare le partite. Anche quando parlo io a volte succede».
Tu hai scritto l’inno dei giallorossi, Grazie Roma.
«Qualcuno sostiene che mi ci sia arricchito».
Non è così?
«Macché, la Roma non paga niente. Ci mancherebbe altro».
Qual è l’errore più grande che hai fatto?
«Il concerto al Circo Massimo del 2001».
Per festeggiare lo scudetto della Roma di Fabio Capello.
«Se potessi tornare indietro non lo rifarei. Era un atto d’amore, è stato interpretato come un modo per farmi pubblicità».
Anche la battuta sui calabresi è stata un errore. Durante un concerto hai detto: «Perché Dio ha fatto la Calabria?».
«Ho chiarito tutto».
Insomma. Hai appena dovuto annullare una serata a Vibo Valentia.
«È assurdo. In pratica c’è un cittadino italiano a cui viene impedito di entrare in Calabria. Quella battuta si riferiva a un viaggio assurdo sulla Salerno-Reggio Calabria. Non volevo certo offendere i calabresi, ma la ’ndrangheta che non li fa essere veramente liberi».
Qual è la scelta che ti ha cambiato la vita?
«Rinunciare al contratto con la multinazionale Rca, nel 1978».
Perché ci hai rinunciato?
«Per difendere i miei diritti. Era un contratto capestro. Che mi vincolava a vita. Molti colleghi mi dovrebbero ringraziare, perché da quel momento Rca ha cambiato le formule contrattuali, migliorandole».
Usi Twitter o i social network?
«No, ma so che i giovani ormai usano solo quegli strumenti. E mi sembra assurdo che la politica non si muova per dotare il Paese di una banda larga degna di questo nome. Forse hanno paura. Perché su Internet anche le loro spese sarebbero più trasparenti. O perché temono che il futuro non assomigli minimamente a loro».
Che cosa guardi in tv?
«Tutto. Sono un appassionato della tivvù».
Il libro preferito?
«Ma come si fa a rispondere?».
Prova.
«Dante. O Shakespeare, che ha scritto il teatro della vita».
Il film?
«Stanley Kubrick sopra tutti».
Quale titolo di Kubrick?
«Uno qualsiasi. Kubrick è il genio che ha rappresentato il Ventesimo secolo. Chi altro come lui ha saputo parlare dell’amore, della guerra, della coppia, del passato, del futuro e della violenza?».
La canzone?
«Qualcosa di Dylan. Ma non ho un titolo in particolare».
Non c’è una canzone che ti ha spinto più di altre verso la carriera musicale?
«No. È la canzone che non c’era che mi ha spinto a scriverne una: Sora Rosa a quattordici anni. E poi Roma capoccia. I frutti di quel che vedevo in giro per la città».
Frutti amari?
«La mia adolescenza non è stata facilissima. Ero bello grasso, frequentavo una scuola con molti fascisti».
A un certo punto hai cominciato a frequentare il Folkstudio, locale trasteverino dove suonò anche Bob Dylan.
«Lì ho conosciuto Francesco De Gregori, Giorgio Lo Cascio ed Ernesto Bassignano».
I «quattro ragazzi con la chitarra e un pianoforte sulla spalla»… di Notte prima degli esami.
«Loro con la chitarra, io con il pianoforte. Saltavamo i pasti per quanto eravamo entusiasti di suonare».
Pasti. Quanto costa un pacco di pasta?
«E chi lo sa?».
Un euro e mezzo, circa. Fai la spesa?
«Ma che sei matto? Al massimo ti posso dire quanto costa un tramezzino in un bar romano».
Vittorio Zincone
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