Michelangelo Pistoletto (Sette – marzo 2012)

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Michelangelo Pistoletto, 78 anni, è uno degli artisti italiani più venduti al mondo. Uomo degli specchi e creatore dell’opera cult Venere degli stracci, è stato con Jannis Kounellis e Alighiero Boetti animatore degli anni d’oro dell’arte povera. Ha da poco esposto nelle sale dell’ultra influente Serpentine Gallery di Londra e a breve sarà al Louvre con un lavoro sul 21 dicembre 2012: Il terzo paradiso. «C’è chi la considera la data della fine del pianeta. Io ne voglio fare la data in cui gli artisti e i cittadini di tutto il mondo, insieme, si uniranno per una grande opera collettiva. Per dar vita a una ri-nascita e creare una nuova umanità». Dice proprio così, Pistoletto: «Una nuova umanità». Già perché lui, barba grigio/bianca e cappello perennemente in testa, è un teorico del ruolo sociale dell’arte.
Sulla carta intestata della sua fondazione biellese, Cittadellarte, si legge “dal 1994 attiva nella trasformazione responsabile della società”. Quando lo contatto per l’intervista si trova ad Algeri. Provo a stanarlo: «Lei è un po’ isolato. Questi sono gli anni delle grandi star individualiste, delle performance strapagate e delle aste milionarie. Altro che ruolo sociale dell’arte». Pistoletto prima mi dice che, come lui, sono molti gli artisti che non vedono l’opera solo come un oggetto di mercato. E poi accetta di improvvisarsi critico e di dare un giudizio proprio su quelle grandi star che sembrano lontanissime dalla sua visione “engagé” dell’arte.
Un’opera, un artista. Cominciamo con For the love of God, il celebre teschio diamantato di Damien Hirst.
«Hirst è il simbolo di come si possa tradurre il fenomeno del desiderio artistico in interesse economico».
Si spieghi meglio.
«L’arte provoca desiderio. E Hirst è stato molto abile: ha portato agli estremi quel desiderio fino a farlo diventare speculazione finanziaria».
Lei vorrebbe uno dei suoi teschi in casa?
«No, grazie».
E una scultura di Jeff Koons?
«No, no. Anche Koons lavora su una speculazione kitsch del desiderio, come opera d’artista».
Le performance di Marina Abramovic?
«Mi piacciono molto. Marina si immette nel funzionamento biologico della vita, approfondisce le dinamiche dei rapporti tra gli esseri umani».
Le modelle fotografate da Vanessa Beecroft?
«Le sue foto e le sue performance all’inizio mi piacevano. Trovavo un senso in quella spudoratezza. Poi mi ci sono abituato. E sono diventate un po’ noiose».
La video arte di Pipilotti Rist?
«Lei è un’amica. Alcuni video sono davvero geniali. Altri troppo scenografici. C’è sempre un po’ di rincorsa al glamour dell’immagine».
Passiamo alle installazioni scabrose di Maurizio Cattelan: i bambini impiccati…
«L’ambiguità con cui Cattelan usa la provocazione mediatica mi piace».
Cattelan ha piazzato pure un dito medio gigante in Piazza Affari, a Milano.
«La denuncia mi piace. Ma poi manca la proposta».
Le provocazioni di Cattelan sono molto quotate sul mercato dell’arte.
«Hanno il limite di essere provocazioni gradite ai provocati. Il fatto che siano molto quotate aumenta il desiderio di possederle da parte di chi viene provocato. È lo stesso meccanismo degli sketch comici».
Cioè?
«Chi subisce la presa in giro di un comico spesso poi si compiace dello sfottò».
Cattelan ha annunciato il suo ritiro. Ci si può ritirare dall’essere artista?
«Anche il ritiro può essere una dichiarazione artistica».
L’ennesima provocazione?
«Mi piacerebbe pensare che Cattelan invece di ritirarsi avesse intenzione di cominciare a lavorare in modo diverso».
In che modo, scusi?
«Abbandonando la speculazione artistica individuale, come ho fatto io».
Lei continua a vendere le sue opere a caro prezzo, non si è ritirato dal mondo dei musei e delle gallerie.
«Le opere del passato che continuo a vendere rappresentano il percorso con cui sono arrivato a Cittadellarte. Ora il mio è diventato un lavoro plurale. Dall’economia speculativa individuale all’economia che vuole produrre nuove visioni».
Lei parla di visioni e opere sociali. Ma il mercato dell’arte oggi campa grazie ai soldi delle grandi case di moda: Prada, Trussardi, Pinault…
«Ben vengano le attività che portano quattrini. Non sono bigotto e non sono contrario. La moda è vestire. È estetica. E come l’arte crea desiderio. A me piacerebbe indirizzare questo desiderio verso la responsabilità».
Vuole rendere glamour e sexy l’impegno sociale attraverso l’arte?
«A Biella abbiamo creato anche una piattaforma di produttori di tessuti ecosostenibili. Quando parlo di nuova responsabilità  da parte degli artisti non mi riferisco all’arte sociale di fine Ottocento, quando i pittori illustravano fenomeni estranei all’arte stessa».
E a che cosa si riferisce?
«L’arte è l’esercizio primario della creatività umana. È il seme della civiltà. Nel Ventesimo secolo l’arte ha acquisito una dimensione che prima non aveva: la libertà a trecentosessanta gradi. Ecco, io vorrei portare questa grande libertà sul piano della responsabilità. Così l’artista libero e responsabile diventa avanguardia: non isolato dalla società, ma calato nella società. Guardi che sono tanti gli artisti che non pensano solo al lato economico della loro opera. Ne incontro molti che insegnano nelle scuole e vedono l’arte come strumento di interazione. Li voglio rendere visibili. Non lo sono solo perché si sottraggono alla dimensione puramente economica dell’arte».
Mi fa qualche nome?
«Uno su tutti: Jeanne van Heeswijk. L’ho invitata a Bordeaux, per l’ultima biennale Evento 2011, è stata una delle protagoniste della ri-evoluzione urbana della città».
L’opera più incredibile di van Heeswijk?
«Non voglio menzionare un’opera confezionata in particolare. Ma la sua capacità di lavorare nello spazio pubblico».
Ha mai pensato di coinvolgere le grandi star del mercato artistico nei suoi progetti?
«Non lo farei mai. Non si può chiedere ai rinoceronti di fare le uova. Meglio lasciarli lì, nella loro savana. Coinvolgere altri artisti è molto difficile. Soprattutto se non c’è condivisione di valori».
Nel 1968, scrisse un manifesto in cui invitava i suoi amici artisti ad allestire la sala che le era stata assegnata alla Biennale di Venezia.
«È vero. E la mia casa e il mio studio sono stati sempre aperti. In quegli anni formai un gruppo che si chiamava lo Zoo: performance e azioni collettive nelle piazze e nei locali pubblici. Volevamo far uscire l’arte dalle gabbie».
Lei quando ha avuto la percezione di essere un artista?
«Sin da piccolo. Mio padre era artista e restauratore. Con lui ho imparato ad amare l’arte classica. Discutevamo: io non ho mai voluto dipingere un paesaggio o una natura morta. Mettevo da parte i soldi per comprarmi delle vecchie sculture in legno. Il mio passaggio dall’antico al moderno avviene quando comincio a frequentare la scuola del pubblicitario Armando Testa».
Ha fatto il pubblicitario?
«Sì, ma poi mi sono rifiutato di proseguire su quella strada».
La leggenda vuole che lei venne folgorato dalla Flagellazione di Cristo di Piero della Francesca.
«Non è una leggenda. Davanti a quel dipinto ho capito che l’arte è trasformazione dell’immaginario in fenomenologia».
Traduciamo.
«La flagellazione è un’opera fenomenologica. Lì, il soggetto religioso è solo un pretesto per piazzare segni e creare prospettive».
Una tavola allo stesso tempo figurativa e astratta.
«È scienza».
La sua fama è legata agli “specchi”. Quando realizza il primo?
«Nel 1962. Li ho sempre pensati come autoritratto del mondo. Né denuncia, né affermazione di qualcosa. Rappresentano il rapporto tra ciò che è memoria e il presente che si rispecchia, e ciò che cambia continuamente. È uno schema che in qualche modo si ripete anche nella Venere degli stracci».
È l’opera con cui lei diventa protagonista dell’arte povera. Mi racconta come nasce la Venere?
«Presi la scultura della Venere in uno di questi punti vendita con oggetti da giardino. Passandoci davanti mi aveva colpito. Mi sembrava viva. Arrivato nel mio studio, in zona Mirafiori, a Torino, poi, mi sembrò quasi che il mucchio di stracci che usavo per pulire gli specchi la stesse aspettando. L’accoppiamento mi sembrava perfetto: l’idea mitica di bellezza che amorevolmente sostiene il disastro quotidiano, il disordine del consumismo consumato. Una tensione simile a quella dei “quadri specchianti”. Anche lì c’è una figura fissa, una memoria, e i visitatori che, nel riflesso, cambiano continuamente».
C’è una sua opera che rivorrebbe per sé? Che vorrebbe riacquistare?
«Sì. Un piccolo gruppo di lavori sulle contestazioni di metà Anni Sessanta. Sono attualissimi».
Un’opera di un altro artista che vorrebbe nel suo salotto?
«Un altro pezzo di Boetti o di Kounellis. L’arte povera è una serra dentro cui continuano a germogliare idee».
Nostalgico. Pensavo che mi dicesse qualcosa come il Brillo Box di Andy Warhol o il “pisciatoio/fontana” di Marcel Duchamp.
«Il Brillo Box è interessante dal punto di vista estetico: pittura-oggetto. Ma è l’emblema dell’enfatizzazione del sistema consumistico americano. La nostra “arte povera” era esattamente il contrario di questa enfatizzazione».
Il pisciatoio…
«L’oggetto comune, che vive nella volgarità della vita e che diventa sacro nel momento in cui entra in un museo, in una cattedrale dell’arte. Ecco, quello che vorrei cercare di fare io è di riportare il “pisciatoio”, sacralizzato, nella vita. Far immergere l’arte, con la sua nobiltà, nelle strade e farla diventare un laboratorio sociale, un tempio spirituale laico».
Ambizioso. Mi elenca le tre opere cult dell’arte italiana contemporanea?
«Un dipinto di Capogrossi, una tela di Burri, un taglio di Fontana».
Le tre che darebbe alle fiamme?
«Sono davvero tante. Se ne cito solo tre, poi sembra che ne voglia salvare molte altre che non lo meritano».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Ho la capacità di dimenticare gli errori. E poi molti errori fanno parte delle sperimentazioni. Sono comunque utili».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«L’ha fatta mia madre iscrivendomi alla scuola del pubblicitario Armando Testa».
Lei ha un clan di amici?
«Ne ho tanti. Non necessariamente nel mondo dell’arte».
A cena col nemico?
«Preferirei essere scelto da un nemico, che doverne scegliere uno. E se mi scegliesse non direi di no».
Ci sono critici che la attaccano con particolare durezza?
«Preferirei non fargli pubblicità».
Francesco Bonami ha scritto che lei è vanitoso…
«Lui è quello che mi ha trattato peggio negli ultimi anni».
Perché?
«C’è stato un momento in cui mi era vicino. Poi deve essere successo qualcosa. Ci deve essere un astio personale. Mi piacerebbe sapere di che cosa si tratta».
Il libro preferito?
«Posso citare il mio Il terzo paradiso?».
Certo. La canzone?
«Ragazzo dell’Europa di Gianna Nannini».
Nannini ha collaborato con lei.
«Ha partecipato con una performance alla mia ultima mostra al Maxxi di Roma».
Il film?
«Il pranzo di Babette. Cucinare mi diverte».
Fa anche la spesa?
«Ovviamente sì. Mi piacciono le piccole scelte che danno l’idea di realizzare una necessità».
Che cosa guarda in tv?
«Tutto, ma non i reality».
Sa che cos’è Twitter?
«Assolutamente no».
È gravissimo per un uomo di comunicazione del 2012.
«Frequento il mondo informatico attraverso le persone che mi stanno intorno. Basta, no?».

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