Irene Pivetti (Sette – aprile 2012)

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Basta un clic, una piccola ricerca su Google Immagini per far riemergere le mille anime di Irene Pivetti. Andando a ritroso: showgirl, presentatrice, provocatrice, opinionista e politica. Eccola in shorts e tacchi arditi su uno scoglio, con accanto Costantino Vitagliano, tronista untissimo. Pivetti sorride: «È un lascito del periodo in cui avevo Lele Mora come agente». Eccola inguainata in latex, modello Catwoman: «Era uno scatto per il calendario di Radio Monte Carlo. C’era anche Emilio Fede travestito da cattivone di 007». Ed eccola in tailleur giallo sullo scranno più alto di Montecitorio: «Il look era ispirato allo stile della Regina Madre, colori pastello per distinguersi dal grigiume».
Pivetti, 49 anni, ora è imprenditrice, ha una onlus (Learn to be free) che aiuta chi ne ha bisogno a trovare lavoro, e la si vede spesso nei salotti tv del pomeriggio. La incontro in zona Prati, a Roma. Parla svelto. Non si scompone quando le rinfaccio la difesa dei suoi privilegi da ex presidente della Camera: «Guardi che io giro in autobus». E non ama Monti: «Questo è un governo contro il popolo». Guarda al periodo in cui era la sola donna leghista a finire sui giornali con molto distacco: «Il Carroccio di oggi non ha nulla a che fare con quello che ho conosciuto io». E ha le idee piuttosto chiare sulle inchieste che stanno travolgendo le camicie verdi: «Bossi? Non poteva non sapere». Partiamo da qui, allora.
La Lega vuole rinascere, ma senza abbandonare il Senatùr.
«Nella Lega c’era un tesoriere che dava i soldi a Renzo Bossi (figlio) e a Manuela Marrone (moglie). Me lo devono proprio dimostrare che Umberto non ne sapesse nulla».
Impossibile?
«Ma scherziamo? Lì dentro non si è mai mossa una foglia senza il permesso di Umberto».
L’ha stupita questa inchiesta che sta travolgendo il Carroccio?
«È il frutto marcio di un albero bacato. Se trasformi un partito in una setta e lasci il potere assoluto al leader e ai suoi…».
Lei ha conosciuto il Trota e Manuela Marrone?
«Ho smesso di frequentare la Lega nel 1996. Renzo era un ragazzino. Manuela la ricordo bene. Umberto la trattava come un accessorio necessario per la casa e per il benessere dei figli. Pensavo: “È una donna straordinaria, una santa”».
Rosi Mauro…
«Una militante molto attiva. Mi sembrava un po’ ombrosa».
Quando lei frequentava la Lega i protagonisti erano gli stessi di oggi. Roberto Calderoli…
«Calderoli è stato l’esecutore materiale della mia espulsione dalla Lega».
In che senso?
«Nel 1996, dopo il ribaltone, si era acuito lo scontro tra leghisti secessionisti e non. Io ero anti-secessionista. Dicevo: “Abbiamo preso i voti parlando di federalismo, non possiamo cambiare linea in corsa”. Un giorno mi chiamò il sindaco di Lanzo d’Intelvi, nel Comasco, per fare un comizio contro la secessione. Quando arrivai trovai Calderoli sul palco con i suoi militanti. Mi fece capire che da lì non avrei potuto parlare. Pochi giorni dopo il presidente dei parlamentari leghisti alla Camera, Domenico Comino, mi espulse dal gruppo».
Maroni, nel 1995, aveva idee molto diverse da Bossi su come gestire l’alleanza con Berlusconi. E ruppe. Ma poi restò nel partito.
«Ricordo perfettamente un congresso in cui Maroni venne accolto dai fischi dei bossiani. Subì un’umiliazione incredibile: Umberto lo chiamò accanto a sé con un atteggiamento da “vieni avanti, cretino”. Ero sconvolta. Ma alla fine ha avuto ragione Maroni. Ora è lì, unico leader possibile per questa Lega».
Lei, oggi, rientrerebbe nel Carroccio?
«No. Non è più casa mia. E ho perfettamente chiaro il momento in cui ha smesso di esserlo».
Quando?
«Rientrata dal mio incarico istituzionale alla Camera, nel 1996, notai che qualcosa era cambiato. La Lega a quel punto era già diventata una setta: era sconsigliato far sapere di avere idee diverse da quelle del capo. Tra l’altro, il 1996 è anche l’anno in cui Bossi capisce che per prendere voti deve stare perennemente sulle barricate: oltre alla linea secessionista, inizia ad accelerare la spinta folkloristica, i riti sul Po, e le venature razziste si fanno più forti, si comincia a parlare con più insistenza di impronte dei piedi per gli extracomunitari…».
Anche lei era un po’ xenofoba. Era per il respingimento dei profughi albanesi.
«Il giorno dopo aver detto che i profughi andavano rimandati indietro via mare, purtroppo affondò un’imbarcazione e morirono molte persone. Ma non ero xenofoba».
Lei come si avvicinò alla Lega?
«Studiando».
La leggenda narra che lei sia stata folgorata da Bossi in un ristorante.
«È falso. Nel 1990 frequentavo gli universitari cattolici della Fuci. Scrissi una quarantina di pagine sul fenomeno leghista e su suggerimento di mio padre le inviai a Bossi. Lui nel giro di pochi giorni mi chiese di raggiungerlo in piazza Massari, nella vecchia sede del partito».
Il primo incontro…
«Una stanzetta fumosa, piena di carte e di gente che andava e veniva. Umberto mi chiese di occuparmi dei leghisti cattolici».
Com’era Bossi nel 1990?
«Vitale. Nei ristoranti parlava fino a notte fonda con chiunque si avvicinasse al suo tavolo: passanti, donne delle pulizie, camerieri… Faceva tre cose contemporaneamente. Un grande trascinatore».
È vero che Bossi non amava chi si presentava in giacca?
«No. La cosa stupenda della Lega di allora era l’accozzaglia di tipi umani che la frequentavano: da Giancarlo Pagliarini in cravatta al militante animalesco. Era una Lega spartana. Se spendevi troppo in campagna elettorale venivi guardata con sospetto».
Lei nel 1994 venne eletta presidente della Camera. Aveva 31 anni.
«In realtà avrei dovuto fare il ministro dell’Istruzione».
Era algida. Indro Montanelli disse: «Pivetti, tra gli uomini nuovi, è il più nuovo e il più uomo».
«Un grande complimento».
Portava al collo la croce della Vandea. Michele Serra scrisse: «La devota Pivetti è la prova dell’esistenza dei miracoli: nessuno può spiegare come diventò presidente».
«Lo spiego io: mi piazzarono alla Camera per avanzo».
Per “avanzo”?
«Sì. Alla presidenza della Camera ci doveva andare Maroni, che però voleva un ruolo nel governo. Allora si pensò di mettere Francesco Speroni alla presidenza del Senato. Ma Berlusconi si mise di traverso perché considerava Speroni ridicolo con quei suoi cravattini texani. Un giorno mi chiamò Bossi. Ero sulla mia Uno. Mi disse: “Ti tocca fare il presidente della Camera”».
Bossi e Berlusconi…
«Avevano una reciproca e inconfessata sudditanza psicologica».
Si spieghi meglio.
«Bossi subiva il fascino del Berlusconi uomo riuscito: l’incarnazione del successo. Berlusconi subiva il carisma di Bossi e il fatto che riuscisse a farsi amare pur trattando tutti a pizze in faccia».
La caduta di Bossi…
«È più doloroso vedere delle ruberie nel Carroccio. Il popolo leghista ai raduni si porta la tovaglia da casa. È gente onesta. E tu gli rubi sotto il naso?».
Lei fa ancora politica?
«Sono assessore al Comune di Berceto. Credo che nelle amministrazioni locali si possa ancora fare qualcosa. Anche la Lega ha trovato una via di sopravvivenza nelle amministrazioni locali: una politica di servizio lontana dalle scempiaggini ideologiche e folkloristiche».
Giuseppe Raffa, del Pdl, due anni fa le chiese di fare l’assessore a Reggio Calabria.
«Ci fu una ribellione perché non ero calabrese. I calabresi sono stati più leghisti dei leghisti».
Riceve un compenso dal Comune di Berceto?
«Avrei diritto a un mini-gettone. Ma non lo ritiro. Sono lì per amicizia».
A Berceto lavora in amicizia. Ma a Roma difende i suoi privilegi da ex presidente della Camera…
«Ma quali privilegi?».
Ha un vitalizio?
«Lo avrò tra più di dieci anni».
Ha un mutuo ultra agevolato?
«Vivo in affitto, da sempre. Non ho auto blu. Giro in autobus».
Ma ha uno studio e una segreteria a sua disposizione da più di quindici anni.
«Faccio lavorare delle persone. Mi pare una cosa buona. Dal 2008 tra l’altro la mia segreteria è impegnata in una onlus. Le pare brutto?».
Avere un segretario o un assistente pagati dai cittadini è un innegabile privilegio. Lei ha detto che farà ricorso contro i tagli.
«Aiuterò queste persone a cui vogliono togliere lo stipendio nel nome della lotta alla casta».
È vero che Fini non le risponde al telefono?
«Sì. Fini tolga pure le persone alla mia segreteria, ma mantenga i loro posti di lavoro».
Pier Ferdinando Casini ha già rinunciato ai suoi privilegi.
«Ma è ancora parlamentare. Si fa bello proponendo rinunce a chi non è più nei Palazzi».
Lei non è più parlamentare, ma lavora in tv da anni.
«Il mondo dello spettacolo ce l’ho nel Dna. Mia madre era attrice, mio padre regista. Da bambina con mia sorella Veronica doppiavamo per gioco il telefilm La casa nella prateria».
È vero che finita l’esperienza politica è stato il suo ex marito Alberto Brambilla a spingere perché lei facesse tv?
«Lui era molto convinto. E mi ha aiutato, è bravo. Se non fossimo stati sposati potremmo ancora lavorare insieme».
Il suo esordio in tv?
«Maurizio Costanzo mi chiamò a La7 per una rubrica: rispondevo alle lettere dei telespettatori».
L’ultima trasmissione condotta?
«Iride, su Odeon. Parliamo di qualche anno fa».
Poi solo ospitate.
«E non è bello. Mi piacerebbe tornare a condurre, magari una trasmissione di informazione popolare».
Lei è ultra pop. Ha condotto anche Bisturi, una trasmissione sulla chirurgia plastica. In coppia con Platinette. Calderoli, dopo averla vista, fece commenti ruvidissimi.
«Forse era dispiaciuto perché vedeva qualcuno lavorare onestamente senza prendere denaro pubblico».
A cena col nemico?
«Con Mario Monti. Gli vorrei far capire quanti poveri sta lasciando sul suo cammino. Al momento è un premier contro il popolo».
Il suo è un governo tecnico, per uscire dalla crisi.
«Non ci sono scuse. La politica e il governo potrebbero fare moltissimo, ma non lo fanno».
Ci sono vincoli e paletti europei…
«Se uno pensa di non poter governare a causa di vincoli esterni è meglio che non si prenda certe responsabilità. Essere al governo e non usare il potere non è da uomini. Monti dovrebbe investire, puntare sulla crescita».
Pivetti, ma quali investimenti! Non ci sono i soldi. E bisogna raggiungere il pareggio di bilancio.
«Se fossi il presidente del Consiglio mi armerei di coraggio keynesiano e porrei in Europa il problema dei parametri economici che strangolano i cittadini. Qui c’è gente che si ammazza, ce ne rendiamo conto o no?».
Lei ha un clan di amici?
«Ho amici antichi di cui mi fido».
Un nome?
«Daniela. Organizza eventi».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Esistono scelte che non te la cambiano?».
L’errore più grande che ha fatto?
«Aspettare troppo a fare figli. La prima, Ludovica, l’ho avuta a 34 anni. Federico è arrivato un anno e mezzo dopo».
Che cosa guarda in tv?
«Tutte le americanate più incredibili».
Il film preferito?
«La trilogia di Die hard con Bruce Willis».
Il libro?
«La Divina Commedia. L’ho letta e riletta».
La canzone?
«Romeo&Juliet dei Dire Straits».
Sa quanto costa un litro di latte?
«No. Mi tocca comprarlo anche se non so il prezzo».
I confini dell’Iraq?
«Ahi ahi, questa è brutta… Iran, Kuwait… Afghanistan?».
No, l’Afghanistan no. Che cosa è Twitter?
«Un social network per gente che ha poco da dire, ma lo vuole dire tante volte».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«No».
È quello che descrive il Tricolore.
«Ah. Una volta, durante una commemorazione all’Altare della Patria, beccai un dipendente della Camera che fumava accanto alla bandiera. Lo feci cacciare a pedate».
Ma lei era leghista. I leghisti col Tricolore ci si puliscono…
«Io preferisco rendergli onore».

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