Francesca Comencini (Sette – agosto 2012)

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Al quarto aneddoto che salta fuori spontaneamente sul papà, si ferma e ridendo esclama: «Oh, ma che è una seduta di psicanalisi?». Francesca Comencini, 51 anni, regista, è una delle quattro figlie “cinematografare” di Luigi. Ha affiancato raramente il padre: gli ha fatto da “aiuto” e ha collaborato a una sua sceneggiatura.
Scorrendo l’elenco dei suoi film si ha la sensazione di essere schiaffeggiati: Pianoforte è un ruvidissimo racconto tossico, A casa nostra è una storia collettiva piuttosto amara, Carlo Giuliani, ragazzo è la ricostruzione meticolosa delle ultime ore del manifestante che morì durante il G8 di Genova, Mi piace lavorare è un’immersione nella melma del mobbing e In fabbrica è un viaggio nell’evoluzione dell’industria italiana Anni Cinquanta. Glielo faccio notare: «Le sue pellicole sono dure». La replica: «Io non sono dura, ma il cinema non può prescindere dall’aria che respiri nel Paese in cui vivi. Racconto le ferite che le persone subiscono. Farlo con sincerità in fondo è una forma di tenerezza. Sarà così anche il prossimo film». Il prossimo film è in concorso a Venezia e sarà nelle sale a inizio ottobre. Si chiama Un giorno speciale: una favola, anche divertente, sul rapporto tra la politica degli ultimi anni e le ragazze. Chiedo: «Riso amaro?». Spiega: «Ci sono momenti di grande ironia. Filippo Scicchitano, l’attore che interpreta Marco, uno dei due protagonisti, ha un talento comico incredibile».
Nata a Roma, ha vissuto vent’anni in Francia, ma ogni tanto le sgorga l’antica cadenza capitolina. “Avoja”, esclama, quando le chiedo se suo padre condivideva la necessità di immergere i propri film nel clima del Paese: «Lo scopone scientifico è un ritratto pazzesco dell’Italia».
Francesca è già stata in concorso a Venezia altre volte. La prima è stata nel 1984: ventitreenne, si presentò e vinse il Premio De Sica (destinato agli esordienti) con Pianoforte. Cominciamo da Venezia.
Serve ancora una kermesse come il Festival del cinema di Venezia?
«Un po’ sì».
Serve all’ego di registi e attori o al film?
«Serve a tutti».
Venezia non è un mercato del cinema.
«Credo che quest’anno ci sarà qualche giorno dedicato al mercato. Ma è anche vero che il carattere distintivo di Venezia è quello di essere un festival autorale».
Autorale? Una volta, commentando le starlette presenti, lei ha detto: «A Venezia si galleggia tra squallore e poesia».
«Il cinema è così. È un mix. I divi che si atteggiano, i grandi artisti… Può succedere di tutto».
Mi racconti qualcosa che è successo a lei, a Venezia.
«Ero poco più che adolescente. Mio padre stava presentando Voltati, Eugenio. A un certo punto entrò in sala un tipo vestito con pantofole e accappatoio e cominciò a contestare papà. Mi spaventai abbastanza».
Lei che rapporto ha con le critiche?
«Quelle dei giornalisti di cinema? Le ascolto ma non amo le aggressioni e gli attacchi personali».
Le sono capitati?
«Sì, ma non le dirò mai da parte di chi».
Il complimento più bello che ha ricevuto?
«Da parte di mio padre. Per il documentario su Elsa Morante. Mi disse che apprezzava il fatto che non cerco mai consensi».
I complimenti paterni non valgono.
«Valgono, valgono. Anche perché il mio primo film, Pianoforte, non gli era piaciuto per niente».
Assegni qualche Leone d’oro, per le opere degli ultimi anni. Miglior film?
«Una separazione dell’iraniano Asghar Farhadi».
Migliore regia?
«Valérie Donzelli per La guerra è dichiarata».
Il miglior attore?
«Elio Germano. È talmente naturale che riesce a far sembrare assente la recitazione».
La migliore attrice?
«Tutte quelle con cui ho lavorato».
La miglior sceneggiatura?
«Quella di La fine è nota».
Ma è un film di sua sorella Cristina!
«Mi piace molto come scrive».
Qual è l’attrice con cui vorrebbe lavorare?
«Sono tante. Diciamo Isabelle Huppert».
Il film che avrebbe voluto girare lei?
«Tutti quelli belli, anche i più deliranti o che non hanno nulla a che fare con il mio cinema. Tra gli ultimi visti… Miracolo a Le Havre di Aki Kaurismäki. Tra gli italiani La bocca del lupo di Pietro Marcello».
Qual è il problema del cinema italiano?
«Ce ne sono tanti. Mi piacerebbe che il cinema fosse considerato una ricchezza per tutti e non una specie di minaccia».
Una volta lei ha detto che gli sceneggiatori italiani dovrebbero osare di più.
«Tutti noi che facciamo cinema dovremmo osare di più».
Ha visto qualcuno osare, ultimamente?
«Garrone, Sorrentino… Il problema del coraggio però si incrocia con quello di un sistema produttivo in cui c’è poca concorrenza perché non ci sono regole: senza finanziamenti i film non si fanno e se fai determinate scelte i finanziamenti non ti arrivano».
C’è una via d’uscita?
«Il coraggio, appunto. E con più concorrenza tra chi finanzia i film è più facile anche avere coraggio. Non avendo grandi mezzi economici, il cinema italiano dovrebbe proporre una visione dei fatti tosta, anche cattiva. Cogliere il sapore della vita».
A lei sembra di cogliere “il sapore della vita”?
«Abbastanza».
Ha avuto dei maestri?
«Scola, Amelio, Bellocchio, Monicelli… C’è stato un periodo in cui l’Italia ha insegnato il cinema al mondo. Quando mi sono trasferita in Francia, poi, ho scoperto il documentario. E anche lì ho trovato altri maestri: Cantet e Philibert».
Quando ha capito che avrebbe fatto la regista?
«Io non volevo. Perché ero figlia di un regista. E questa per molto tempo l’ho considerata una colpa. Qualcosa da espiare. All’inizio neanche a mio padre fece molto piacere che io facessi cinema. Ma a un certo punto ho sentito la necessità di raccontare una storia».
Pianoforte. Tossicodipendenza e morte.
«I Settanta erano anni in cui la morte andava di moda. Quel film mi è servito per ancorarmi alla vita».
Qual è il suo primo ricordo da bambina?
«Mio padre che mi accompagna all’asilo e io che non mi voglio staccare».
Suo padre la portava anche sui set dei suoi film?
«Sì. Stavo in disparte. Osservavo. Una volta, durante le riprese di Pinocchio, mentre mio padre girava le scene nel “paese dei balocchi”, mangiai quintali di zucchero filato».
Luigi Comencini ha lavorato con Totò, Gassman, De Sica… Com’erano queste super star?
«Posso essere sincera?».
Deve.
«Le vere star per me erano Franco Franchi e Ciccio Ingrassia. Vestiti da gatto e da volpe per Pinocchio. E poi ricordo Bette Davis nella villa dello Scopone scientifico».
Lì c’erano anche Alberto Sordi e Silvana Mangano.
«Era un set enorme. Con camion, luci… A un certo punto mi avvicinai a mio padre e gli sussurrai all’orecchio: “Preferivo quando eravamo in pochi. Senza tutta questa gente”. Mi riferivo alle riprese di I bambini e noi, un’inchiesta che papà girò nel 1970 per la tv. Lui mi rispose: “Anche io” e mi diede una carezza».
A lei è rimasta questa caratteristica: ha detto più volte di preferire le piccole produzioni alle grandi.
«È vero. Le piccole produzioni mi consentono di far entrare la vita nelle riprese per effrazione. In modo inaspettato».
Piccole produzioni. Budget ridotti. Poche star. In Un giorno speciale l’attrice protagonista è un’ultra esordiente.
«Si chiama Giulia Valentini. L’ho scelta dopo mesi di ricerche».
Le piace fare scouting?
«Mi è piaciuto il periodo solitario in cui mi sono aggirata per Roma in cerca delle persone giuste per questa storia. Appendevo volantini. Non sapevo nemmeno se il film si sarebbe fatto».
Nei suoi film la politica non ne esce mai molto bene.
«Ne escono male i politici che discreditano la politica e si occupano di tutto tranne che dei bisogni dei cittadini».
Detti l’agenda. Quale dovrebbe essere una priorità politica?
«Risolvere i guai delle donne “giocoliere”. Con “Se non ora quando?”, il movimento nato nel gennaio 2011, abbiamo riportato al centro dell’attenzione il rapporto maternità/lavoro».
Negli Usa è in corso un dibattito perché Anne-Marie Slaughter
ha abbandonato il suo ruolo ai vertici dell’amministrazione Obama per dedicarsi ai figli e ha scritto sul mensile The Atlantic: «Perché le donne non possono ancora avere tutto».
«In Italia se ne dovrebbe parlare di più. La politica su questi argomenti non dà risposte. C’è chi pensa che si tratti di problemi privati di singole donne. Invece, dal ripensamento del rapporto tra maternità/paternità e lavoro dipende il futuro del Paese».
Esagerata.
«Non parlo delle donne manager che, anche se con gran travaglio, hanno la fortuna di poter scegliere. Mi riferisco a tutte le donne che abbandonano il lavoro perché costrette».
Costrette?
«Il mondo del lavoro è feroce. Il 90% dei casi di mobbing riguarda donne incinte».
Nel 2011 lei ha scritto Famiglie. Un romanzo sulle nuove tipologie familiari: madri single, figli adottivi…
«Anche qui la politica è molto indietro».
Si riferisce al dibattito nel Partito democratico sulle unioni di fatto?
«Io capisco e rispetto il radicamento del cattolicesimo in Italia, ma in un Paese laico non si può cedere di un millimetro sui diritti. Per la sinistra la comprensione e la tutela dei nuovi modelli familiari dovrebbe essere una priorità».
Lei ha fatto un film su una madre single che aspetta l’uscita della figlia dall’incubatrice: Lo spazio bianco.
«C’è una scena in cui la protagonista, Margherita Buy, va a dichiarare la figlia all’anagrafe e le danno un modulo per i figli illegittimi. A noi registi spesso viene detto: “Il pubblico non capirà”. È una bugia. Il Paese è molto più avanti».
I cittadini sono più “avanti” dei politici e di chi li governa?
«Sono di sicuro più avanti di quanto pensino i politici».
A cena col nemico?
«Flavia Perina. Brava, di destra».
Ha un clan di amici?
«Ho molti amici. Una su tutti: Sara, studentessa».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Sul lavoro, quello madornale l’ho commesso mentre preparavo Pianoforte. Ai provini scartai un giovane che poi è diventato un grandissimo attore».
Fuori il nome.
«Sergio Castellitto».
Ogni volta che vi incontrate ricordate l’episodio?
«Non lo incontro mai. Ma ci ripenso spesso. Non so perché non lo presi. Dopo un errore così uno può anche smettere di fare il regista».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Fare figli».
Che cosa guarda in tv?
«Sembrerò snob, ma non guardo la tv».
La canzone preferita?
«Like a rolling stone di Bob Dylan».
Il libro?
«Menzogna e sortilegio di Elsa Morante».
Il film?
«Paisà di Roberto Rossellini».
Sa chi è il sindaco di Venezia?
«…oddio, chi è?».
Si chiama Giorgio Orsoni, del Pd. Sa quanto costa un pacco di pasta?
«Dipende dalla marca. Un euro e qualcosa».
Conosce l’articolo 12 della Costituzione?
«Aiuto!».
È quello sul Tricolore. Che cosa è per lei il Tricolore?
«Un simbolo da difendere».
Da chi, scusi?
«Dalla Lega, per esempio. Secondo me il Tricolore deve diventare una bandiera delle donne. Se ne devono impossessare».

Vittorio Zincone
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Categorie : interviste
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