Michele De Lucchi (Sette – novembre 2011)

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Michele De Lucchi ha sessant’anni, una barba assurda e una lunga carriera da designer/artigiano. Ferrarese trapiantato a Milano, insegna al Politecnico, ha vinto praticamente tutti i premi conquistabili da un designer ed è l’ideatore della lampada più venduta del pianeta: la Tolomeo. Da qualche anno ha deciso che la matita e la carta non bastavano più per fissare le sue creazioni. E quindi ha impugnato la sega elettrica. Risultato: le “Casette”, piccole architetture in legno da esposizione, e ora “I Tavolini”, tavoli in miniatura multiuso (in mostra dal 1° dicembre nella galleria milanese di Antonia Jannone).
De Lucchi ha progettato e ristrutturato edifici in Italia, in Giappone, in Germania, in Svizzera. Ha disegnato per l’Olivetti e ha ristrutturato musei in tutto il mondo. Sottopongo al suo giudizio la ristrutturazione più discussa degli ultimi anni: la teca di Meier a Roma. «È un bene che ci sia, ma forse è troppo espressiva», dichiara. Dato che lui a Tbilisi, in Georgia, ha costruito il monumentale Ponte della Pace in tempi strettissimi, ne approfitto per chiedergli come mai in Italia i segni di architettura contemporanea siano così rari e perché i tempi di realizzazione siano sempre biblici. Mi spiega che, al di là del regime politico georgiano, lì le persone credono in quello che fanno. Cosa che in Italia succede sempre meno. «Da noi c’è troppa paura di sbagliare, anche nell’industria del design», dice. Partiamo da qui allora.
Chi ha paura?
«Tutti, a parte qualche uomo d’azienda illuminato. E la paura ti porta a dubitare del fatto che tutto possa essere rinnovato, ottimizzato, migliorato. Ora, è normale che una grande industria del design non si possa permettere troppi errori, perché potrebbero perdersi posti di lavoro e quote di mercato, ma non si può rinunciare al rischio. Il Salone del Mobile di Milano mi piace anche per questo».
Si rischia?
«È una fiera di prototipi. Lì, la ricerca artigianale decanta, per poi diventare industriale. Sono convinto che si debba dare qualità al consumismo. Per farlo servono coraggio, ricerca… È quello che dico anche ai miei studenti e ai miei collaboratori».
Che cos’altro suggerisce?
«Non rassegnarsi a lavorare solo per commessa. Il mercato non è il giudice unico di un progetto. Ormai siamo tutti abituati a esaudire le richieste dei committenti. Abbiamo il difetto di accontentarci di accontentare. Gli architetti e i designer invece dovrebbero fare un passo in più. Dovrebbero trovare il cliente dentro se stessi».
Designer/filosofo. Come?
«Ritagliandosi uno spazio di ricerca personalissimo. Io ho uno studio a Milano e uno a Roma. Con una cinquantina di collaboratori. Si lavora in gruppo e in contatto con uffici commerciali e marketing delle imprese. Ma un po’ di tempo lo passo sempre da solo, in uno studio fuori Milano».
Come si diventa archistar? Mi racconta la sua infanzia?
«Sono nato a Ferrara. Da madre vicentina e padre padovano. Lui era ingegnere. Tutti in famiglia erano ingegneri».
Passioni giovanili?
«Il disegno. Passavo le giornate a disegnare».
Studi?
«Dopo il liceo decisi di allontanarmi da casa. Anche per staccarmi da mio fratello gemello. Andai a Firenze, a studiare architettura».
Aveva vent’anni nel 1971. Era gruppettaro?
«Ho contribuito allo sviluppo della cosiddetta architettura radicale».
Che cos’era?
«Il corrispettivo dell’arte concettuale. Ci interrogavamo sul ruolo sociale dell’architettura».
Con quali risultati?
«Credo che tutto il grande design e la grande architettura italiana degli anni Ottanta e Novanta siano figli di quella stagione».
Il suo primo progetto di successo?
«Una performance alla Triennale di Milano. Nel settembre 1976. Durante la contestazione mi presentai vestito da generale napoleonico, avevo un cartello che gridava “designer in generale” e trascinavo un sacchetto della spazzatura appeso a una squadra e con su scritto: “Progetto”».
Traduzione della performance?
«Gli architetti e i designer hanno grandi responsabilità. Con i loro lavori influenzano e modificano la vita quotidiana delle persone. Quindi devono evitare di produrre spazzatura. Con quel travestimento andai sulla copertina della rivista Domus».
Lei, molti anni dopo quella contestazione, ha ristrutturato la Triennale.
«È noto: si nasce incendiari e si muore pompieri».
Ha avuto dei maestri?
«Due, omerici».
In che senso?
«Avevano entrambi nomi omerici: Ettore (Sottsass) e Achille (Castiglioni)».
Ha lavorato con loro?
«Sì, per molto tempo, alla Olivetti e non solo. L’anno cruciale per me fu il 1979. Perché contemporaneamente entrai nell’azienda di Ivrea e diedi vita all’esperienza sperimentale di Alchymia e Memphis».
I due studi milanesi che facevano capo anche a Sottsass.
«È lui che mi volle alla Olivetti. Nello stesso anno mi immersi in un lavoro industriale solido e convenzionale, e in quello molto intellettuale e rivoluzionario degli studi milanesi».
Che cosa avevano di rivoluzionario gli studi di architetti Alchymia e Memphis?
«Le intenzioni, intanto: volevamo rivoluzionare il mondo, l’idea che l’uomo aveva della casa e dell’ambiente domestico».
È rimasto qualcosa di quella rivoluzione?
«I musei sono pieni di progetti dell’epoca».
Mi fa un esempio?
«La mia sedia First, fatta in lamiera e legno. La libreria Carlton di Sottsass. Sono oggetti molto colorati, vivi. Allora erano trasgressivi e rompevano una tradizione. Io contemporaneamente progettavo gli uffici dell’Olivetti e quelli delle sedi della Deutsche Bank».
Per la Olivetti lei ha disegnato anche computer?
«Certo. Ha presente i modelli Philos, Echos…?».
Sì. I suoi maestri Sottsass… Castiglioni…
«Due mondi completamente diversi l’uno dall’altro. Sottsass non riusciva proprio a ragionare se non aveva una matita in mano. Dopo due minuti che ci parlavi cominciava subito a disegnare forme e valutare i colori. Castiglioni, invece, con la matita in mano si paralizzava. La forza di Castiglioni era la grande ironia con cui affrontava qualsiasi difficoltà».
Castiglioni ha progettatto la celebre lampada Arco, lei la famosa Tolomeo.
«In tempi diversi e per aziende rivali».
Come è nata la Tolomeo?
«Anche i miei studenti del Politecnico mi chiedono sempre la ricetta».
Con la Tolomeo lei ha vinto anche il Compasso d’oro. E ancora oggi di quella lampada si vendono 500mila esemplari all’anno. Ricorda il momento in cui l’ha disegnata?
«Bisogna partire dal presupposto che io appena ho un po’ di tempo, disegno lampade: da tavolo, da muro, che pendono dal soffitto… Attualmente sto sviluppando una trentina di prototipi. La Tolomeo è nata in un momento in cui cercavo di progettare una lampada manovrabile con una mano sola».
Qual è la lampada che avrebbe voluto progettare?
«La Naska Loris, la lampada degli architetti».
Lei possiede molti oggetti di design?
«Se intende gli oggetti in “stile design”, come le sedie di Eames, no, in casa non ne ho. Sono oggetti che evito».
Per snobberia?
«Ho un po’ di rifiuto per il genere».
Il pezzo di design che meglio rappresenta l’Italia?
«Qualcosa dei gloriosi anni Quaranta e Cinquanta: il Pirellone di Gio Ponti e le scrivanie di Carlo Mollino».
Il Pirellone non è design, è architettura.
«Parliamo della stessa disciplina: si studia l’ambiente dell’uomo e si cerca di renderlo più confortevole e contemporaneo. Il design deve disegnare per l’industria, ma deve anche cercare di resistere nel tempo, di depositare materiale storico che rappresenti la nostra epoca. Quindi va bene il design stagionale ultra industriale, ma poi si deve fare di più…».
Oggi la nostra epoca come potrebbe essere rappresentata?
«Io uso molto legno e molta pietra. Anche perché mi sembra di interpretare la sensibilità dell’uomo contemporaneo, necessariamente attento ai materiali naturali e alla necessità di riconoscersi parte di questo pianeta».
Lei da anni, oltre a disegnare, scolpisce il legno a colpi di motosega.
«Sono diventato un virtuoso della motosega. La uso come una matita».
Prima scolpiva “Casette”, ora “Tavolini-ini”.
«Sono piccole strutture architettoniche».
È arte? Art-design?
«È un modo di mettere in relazione architettura e design, e lavorare sulle proporzioni. Le proporzioni sono importanti: oggi molto spesso le sbagliamo sia quando progettiamo sia quando apriamo bocca per trasmettere un pensiero. Le proporzioni sono da riportare sotto l’occhio della mente».
Lei ha un clan di amici designer?
«Frequento molto i miei collaboratori».
Come si diventa suo collaboratore?
«Dimostrando di saper osservare la società in cui si vive e di avere il coraggio di rompere le convenzioni».
A cena col nemico?
«Con mio fratello Ottorino».
Scelta inusuale.
«Siamo gemelli. Io ho questa barba così, anche perché ho cercato di essere diverso da lui per tutta la vita. Ora vorrei riscoprire che cosa ci accomuna».
È vero che lei ha una cura maniacale della sua barba?
«Non esageriamo. La lavo. Anche perché se no dopo un po’ puzza».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Perdere tempo. Le piccole fiammelle che ti aiutano a superare l’oscurità all’inizio di ogni lavoro, andrebbero accese subito invece di divagare».
Lei che cosa guarda in tv?
«Guardo poco la tv».
Dove si trova la tv in casa sua? In soggiorno?
«In realtà se come soggiorno intende un luogo con poltrone e divani, in casa mia non c’è un soggiorno. A me piacciono i tavoli. In famiglia ci sediamo intorno a un tavolo».
I tavoli di casa sua li ha disegnati lei o li ha acquistati?
«Molti sono miei prototipi. Alcuni sono ideati per Produzione Privata. Altri li ho ereditati dalla mia famiglia».
Miscela il moderno e l’antico?
«Sì, certo. La casa è in continua trasformazione. È il palcoscenico dove immaginiamo di recitare la nostra esistenza».
Il film preferito?
«My architect, la storia di Louis Kahn».
La canzone?
«Stuck Inside of Mobile with the Memphis Blues Again di Bob Dylan. Il nome del gruppo di architetti Memphis viene da lì».
Il libro?
«Sto leggendo una storia degli oggetti comuni e a tutti consiglio Armi, acciaio e malattie, un volume di Jared Diamond».
Sa che cos’è Twitter?
«Un social network, come Facebook e compagnia bella».
Sa che cos’è rappresentato sui 5 centesimi?
«No».
Il Colosseo. L’età della Costituzione?
«Sessantatré anni».
I confini della Libia?
«Indimenticabili: sono disegnati col righello».

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Categorie : interviste
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