Filippo La Mantia (Sette – ottobre 2011)
1 commentoJohn Travolta si è fatto spedire a Los Angeles le sue “caponatine”. John Turturro nel suo ultimo soggiorno romano si è fatto coccolare per tre giorni dai suoi mestoli. Rania di Giordania ha amato a tal punto il suo pesto di agrumi da ringraziarlo regalandogli un orologio d’oro. L’étoile della danza Eleonora Abbagnato gli ha fatto organizzare il buffet del matrimonio. E la Roma godona (copyright Dagospia) si siede quotidianamente ai tavoli del suo ristorante al primo piano dell’hotel Majestic.
Le guide per gourmet lo snobbano. E lui stesso rifiuta di definirsi chef. Eppure Filippo La Mantia, 51 anni, è uno degli sfornellatori più apprezzati dalle star dello showbusiness e dai politici: avventori bipartisan per un menù siciliano. «Niente cozze. Niente bufale. No al parmigiano», dice con orgoglio siculo. «Quella è roba che hanno tutti».
Ex karateka e motociclista incallito, La Mantia ha un forte accento palermitano, comincia quasi tutte le frasi con un sicilianissimo “che” e scioglie una leggera balbuzie sfiorandosi il naso. Lo incontro nel suo ufficio di via Veneto, a Roma. Casse di vino per terra, un librone sugli odori di Trinacria sul tavolo e foto assortite alle pareti: c’è quella dell’astronauta Paolo Nespoli che osserva un cucchiaio di “caponatina lamantiana” fluttuare nell’aria di una navicella priva di forza di gravità, quella con Jovanotti e con Gabriele Muccino in smoking che lo abbracciano e quella di Quincy Jones con dedica e ringraziamenti per l’impegno con la Lega tumori. «Con la Comunità di Sant’Egidio ho organizzato la raccolta benefica Caponatina for life e tra qualche giorno preparo una cena con centinaia di persone per il World Food Programme», esclama fiero. Lo provoco: «Più che un cuoco lei è un super Pr». Non si scandalizza. Comincia a discettare sul fatto che gli chef ormai sono dei grandi cantastorie, racconta che lui trascorre tutte le sere “in sala” per intrattenere gli avventori e poi conclude: «Sfido chi sostiene che io non sappia cucinare: facciamo una gara ai fornelli dal vivo per grandi numeri e poi vediamo chi vince». Aspettando questo happening appetitoso lo interrogo sul suo ideale di alimentazione. La Mantia è noto per cucinare senza aglio e senza cipolle.
Che cosa le chiedono le orde di Vip e di politici che frequentano il suo ristorante?
«Discrezione. Comfort. Vengono da me anche perché sanno che non faccio troppi salamelecchi. Cerco di svestirli dal loro ruolo per farli stare a proprio agio».
Intendevo: che cosa le chiedono come piatti da mangiare?
«Spesso sono io a suggerire. Mi basta guardare Roberto Maroni…».
…il ministro dell’Interno…
«…mi basta guardarlo entrare per capire il suo umore e di che cosa ha bisogno. Lui mi segue da quasi dieci anni. Ama piatti leggeri: la ricciola fresca arrostita, il polipo…».
Anche Marcello Dell’Utri è un suo habitué.
«Che male c’è? A lui piacciono i piatti palermitani tradizionali. Comincia sempre con un piatto di panelle».
Lei ha fama di essere un cuoco di destra…
«Ma quale destra e destra. Una volta ho organizzato una grande cena di festeggiamenti elettorali per Di Pietro e l’Idv. L’assistente dell’ex magistrato mi raccomandò: “Non cucini il pesto di agrumi, che è di destra”».
Lei come reagì?
«Gliel’ho servito lo stesso. Anche perché quel pesto piace a Willer Bordon, a Massimo D’Alema che è un buongustaio e a Romano Prodi che quando era premier veniva da me anche due volte a settimana. In realtà il Professore apprezzava soprattutto la caponatina».
Il cliente più esigente?
«Piero Chiambretti. Più che esigente, competente. È uno che esamina i piatti anche tecnicamente. E poi ci sono gli anziani gourmet siciliani. Giorni fa ho trascorso un’intera serata a parlare della preparazione del pesce capone fritto. La massima soddisfazione è proprio quando uno di questi ti dice che con i tuoi sapori lo hai fatto tornare bambino».
Aveva la passione per i fornelli anche da ragazzo?
«Le buone materie prime mi sono sempre piaciute. Ma non sapevo cucinare e nessuno mi ha mai insegnato».
Mi racconta la sua infanzia?
«Vengo da una famiglia abbastanza umile. Mio padre era sarto. Mia madre prima ha lavorato per una casa editrice e poi in un negozietto dove insegnava a fare i dolci. Sembrava la casa della strega di Hänsel e Gretel».
Lei che studi ha fatto?
«Il liceo artistico. Durante gli anni Settanta ero un capetto della scuola. Poi ho cominciato a fare il fotografo. Letizia Battaglia, madre di una mia ex fidanzata, mi fece entrare nell’archivio dell’agenzia Informazione fotografica».
I primi scatti?
«Un medico ucciso per strada perché si era rifiutato di curare un mafioso. È mia la foto della testa mozzata appoggiata sul sedile di una macchina. E sono stato uno dei primi ad arrivare sul luogo dell’omicidio Dalla Chiesa».
Nel 1985 lei venne arrestato.
«Mi accusarono di aver dato le chiavi di un appartamento ai killer del vice questore Nino Cassarà. L’appartamento era di un mio zio. Fu Giovanni Falcone a stabilire che non c’entravo nulla col delitto».
Quanto rimase in prigione?
«Otto mesi».
La leggenda narra che lei ha imparato a cucinare proprio all’Ucciardone.
«Quando ti mettono in isolamento il mondo si capovolge. Capisci l’importanza delle cose a cui non dai importanza quando sei libero: un frutto, una foglia di basilico… E poi ci sono tempi lunghissimi. Dietro le sbarre ho conosciuto contadini e pescatori che con pazienza trasformavano il cibo: Battagghiedda sbucciava pomodori alla perfezione, Celentano, un omone che aveva svaligiato tutti i dischi del Molleggiato da un negozio, sfilettava i pesci con cura maniacale».
Uscito dal carcere?
«Cominciai a cucinare per gli amici».
Il suo primo ristorante?
«Un cous cous bar a San Vito Lo Capo. Le signore del paese mi portavano il cous cous, io preparavo dieci condimenti e li servivo. È lì che mi sono inventato il pesto di agrumi con arance, basilico, mandorle e capperi. Ed è lì che ho cominciato a eliminare l’aglio e la cipolla».
C’è chi sostiene che la cucina italiana senza aglio e cipolle non abbia senso.
«Io non li mangio. E non servirei mai a un cliente qualcosa che non piace a me».
Quando si trasferì da Palermo a Roma?
«Nel 2001. Dopo un incidente in moto. All’inizio mi ospitò il mio amico Lorenzo Zichichi. Mi proposi come cuoco per il catering di uno dei suoi eventi artistici. Lui accettò. Andai a fare la spesa in un megamarket. Il mio cous cous venne molto apprezzato. E così anche a Roma, come avevo fatto a Palermo, cominciai a cucinare nelle case private».
Tra il 2001 e il 2007 è stato chef dei ristoranti Zagara e la Trattoria. Ora è al Majestic. Ma non ha mai avuto nemmeno una stella Michelin.
«A me interessa avere il locale pieno. Faccio centosessanta coperti a sera. Non aspiro a vivere con l’ansia da prestazione per pochi intimi dei grandi chef».
Gualtiero Marchesi ha appena ideato degli hamburger per McDonald’s.
«Voglio proprio vedere come reagiscono i guru del mestolo. Io fui impallinato solo per aver organizzato una cena per i manager di quell’hamburgerificio…».
Mi dica tre piatti indimenticabili dei suoi tre chef preferiti.
«Il maialino nero al miele di zibibbo di Ciccio Sultano. Un trancio di ricciola di Fulvio Pierangelini. E la cipolla caramellata di Davide Oldani».
Mi ha appena detto che lei non mangia le cipolle.
«Quella di Davide è un’esperienza indimenticabile».
Buona cucina vuol dire mangiare bene. Alta cucina vuol dire alzarsi da tavola sorpresi.
«Condivido».
La sua è alta o buona cucina?
«Io faccio venire tutto dalla Sicilia. Ho girato ogni angolo della mia isola per riscoprirne gli odori. La mia cucina è anche cultura. Elaboro modernamente la tradizione. Il mio compito è nutrire bene uomini e donne del Duemila».
E quindi?
«Non posso cucinare pesante. Prima i nostri fisici digerivano anche le pietre, ora no. Cucino prevedendo al massimo mezz’ora per digerire. A pranzo suggerisco pure di non bere vino, sennò la giornata di lavoro finisce lì».
A cena con Ferran Adrià o con Carlin Petrini?
«Con Adrià perché è un genio pazzo. Dopodiché abbiamo filosofie diverse. I miei clienti si alzano spesso da tavola portandosi via un po’ di caponatina avanzata. A volte gli suggerisco di portarsi via anche il vino non bevuto. Almeno se lo godono a casa con qualche amico».
A cena col nemico?
«Con Enzo Vizzari, il direttore della Guida dell’Espresso. Eravamo amici, ma da quando sono al Majestic ha cominciato a scrivere cose atroci».
Lei ha un clan di amici?
«Il fotografo Gianmarco Chieregato e Lorenzo Zichichi».
Qual è l’errore più grande che ha fatto?
«Dare a una persona la possibilità di stravolgere quello che avevo scritto della mia vita. Non faccio nomi».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Sposare mia moglie Stefania Scarampi. Mi ha fatto diventare padre di Carolina a quarantasette anni, quando non ci speravo più».
Che cosa guarda in tv?
«Pezzi di film, quando rientro a casa dopo la mezzanotte».
Non guarda le trasmissioni di cucina?
«Come dice Fiorello: “La televisione ha la gastrite”. I programmi tv sul cibo sono davvero troppi».
Il film preferito?
«I cento passi. Ho pianto».
È vero che il film Tutte le donne della mia vita con Luca Zingaretti è ispirato alle sue avventure sentimental-culinarie?
«La seconda parte, quando lo chef riscopre i profumi della sua terra».
La canzone?
«Do you feel like we do di Peter Frampton. Sogno ancora di accompagnare quelle schitarrate con la mia armonica davanti a centomila persone».
Lei suona?
«Sì. Ho sempre con me la valigetta delle armoniche a bocca».
Il libro?
«Il Gattopardo, che è più attuale oggi di quanto non lo fosse quando è stato scritto. E Autobiografia di uno yogi, la storia del guru Paramahansa Yogananda. Avendo fatto dodici anni yoga…».
Conosce i confini di Israele?
«Minchia! La Palestina?».
Quanti anni ha la Costituzione?
«Boh».
Quanto costa un litro di latte?
«Un euro e venti».
E una bottiglia d’acqua nel suo ristorante?
«Due euro. Non c’è grande ricarico».
Cosa pensa di quel ristoratore romano che fece pagare 700 euro di conto a due turisti giapponesi?
«Roba da delinquenti. Punto».
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Grande ….cuoco e non poteva non essere grande persona di spessore ed intelligenza ! Ciao Filippo ….senza aglio e cipolla fantastico in perfetta sintonia .