Domenico Procacci (Sette – settembre 2011)
0 commentiDomenico Procacci, 51 anni, produttore. È l’uomo che ha battezzato le prime regie di Gabriele Muccino, messo Luciano Ligabue dietro a una macchina da presa, reso celebre Paolo Sorrentino e condotto Nanni Moretti nei corridoi vaticani di Habemus Papam. Ora ha portato alla Mostra del cinema di Venezia pure la graphic novel di Gipi (L’ultimo terrestre).
Lo incontro all’ingresso del palazzetto della Fandango, a Roma. Durante il tragitto per arrivare alla sua scrivania, Procacci esorcizza le domande finali dell’intervista interrogando tutti quelli che incontra: lo sai quanto costa un litro di latte? E i confini della Libia? Si apre un dibattito sul prezzo di un pacco di pasta con un’assistente. Lei lo gela: «Mi vuoi far credere di sapere queste cose?». Arriviamo nella sua stanza. L’iconografia procacciana è nota: accanto a una finestra troneggia un calcio Balilla, e sulle mensole, incastonati tra David e Nastri d’argento, si intravedono pupazzi assortiti di supereroi americani: Batman, Silver Surfer… Lui è in linea: orecchino multiplo al lobo sinistro, maniche arrotolate, stivali. L’immagine rock/maledetta è talmente lontana da quella dell’intellighentia gauchista (che si nutre dei suoi film) da sembrare studiata. Gli faccio notare che i degustatori di pellicole raffinate di solito non si schiantano facendo kitesurf, non si buttano da un ponte con l’elastico legato alle caviglie né si lanciano col paracadute da un aeroplanino. Come invece fa lui. Replica: «Sono una sega, ma gli sport adrenalinici mi piacciono da prima che arrivassi a Roma». Poi assesta il colpo finale. Quando gli chiedo qual è il film che avrebbe voluto produrre negli ultimi dieci anni, risponde… Avatar. Cioè una megamaxiamericanata in 3D: «Un capolavoro assoluto». Insisto. E il regista culto? Truffaut? Antonioni? Woody Allen? Macché: «Sergio Leone. Perché diciamolo: in Italia siamo un po’ costretti allo pseudo minimalismo, ma il cinema vero è il western». Procacci rivendica una coerenza tra la sua identità e la linea editoriale della Fandango: «Non produrrei mai, mai, mai, un film in cui non mi riconosco. Non esiste solo il mercato. E poi quello italiano lo si può chiamare davvero mercato?».
Lo chiedo io a lei.
«Che mercato è quello in cui ci sono solo due broadcaster e mezzo (Rai, Mediaset e La7) che nemmeno trasmettono i film in tv? E dove c’è un solo operatore satellitare, e cioè Sky?».
È così importante la tv per il cinema?
«Abbastanza. La prassi è che si vendono i diritti di un film a una emittente televisiva e quella anticipa parte dei soldi con cui produrre il film».
Succede spesso che le tv non vogliano comprare questi diritti?
«Può capitare. Ed è per questo che è giusto mantenere una parte, anche piccola, di finanziamenti pubblici: per finanziare anche film difficili e non solo le opere prime».
Ci sono casi in cui le tv non mandano in onda film che al cinema hanno spopolato. Il “Divo”…
«Dopo anni di embargo ci ha pensato La7».
È vero che per il film “Diaz” (sui fatti di Genova del luglio 2001) non ha trovato il partner televisivo?
«Per ora ho ricevuto un no e una non risposta».
In Italia rappresentare le magagne delle forze dell’ordine non è facile.
«Ma noi ci atteniamo agli atti e alle verità processuali. Diaz non è un film contro la Polizia in generale. È un film che denuncia le violenze delle forze dell’ordine in quei giorni. Penso che sia importante ricordare. La frattura tra la Polizia e una parte del Paese non è stata ancora ricomposta».
Oltre all’assenza di un vero mercato, che cosa manca al cinema italiano?
«La voglia di rischiare. Produttori, autori e sceneggiatori dovrebbero lavorare anche su storie inusuali e su personaggi non convenzionali. I grandi successi delle commedie con i comici, invece, potrebbero ridurre ulteriormente la propensione al rischio».
Commedia con comico uguale successo garantito. Anche lei con “Cetto La Qualunque” si è catapultato su quel filone.
«Il film di Albanese non è come gli altri. Quella descrizione della malapolitica mi sembrava necessaria».
Comici. Lei è un produttore barese. Come si è lasciato sfuggire il fenomeno Checco Zalone?
«Sembrerò snob, ma io guardo poco la tv. Non seguendo Zelig, non conoscevo Luca Medici».
Non guarda la tv, ma la produce. “Parla con me” con Serena Dandini è realizzato da Fandango. Il prossimo anno dove andrà in onda, Rai o La7?
«Mi piacerebbe rivederla in Rai. Però mi pare complicato».
Lei quando ha cominciato a occuparsi di cinema?
«Il cinema è una passione giovanile. A diciott’anni mi sono trasferito dalla Puglia a Roma per provare a entrare in quel mondo».
Che studi ha fatto?
«Il liceo a Bari. Mio padre era un imprenditore edile. Gli sarebbe piaciuto vedermi al suo fianco, ma non ha mai insistito. Sbarcato nella Capitale mi sono iscritto alla scuola di cinema della Gaumont».
Produttori si nasce?
«No. Io volevo fare il regista o lo sceneggiatore».
Ha mai girato qualcosa?
«Un cortometraggio: Zucchero, no grazie. Con la collaborazione degli altri studenti della scuola. Con alcuni di loro, finiti i corsi, fondammo la cooperativa Vertigo. L’idea era che ognuno di noi avrebbe girato un lungometraggio. Dato che non lo voleva fare nessuno divenni rappresentante legale e cominciai a trattare i finanziamenti con le banche e a cercare soldi per realizzare il primo film».
Qual era questo primo film?
«Il grande Blek. L’esordio alla regia di Giuseppe Piccioni».
Il protagonista era Sergio Rubini di cui nel 1989 ha prodotto La stazione.
«La stazione è stato il primo film della Fandango. Subito dopo lavorai alla Corsa dell’innocente. Un film importantissimo».
Non esattamente un successo.
«È l’ultimo film a cui ha lavorato il produttore leggendario Franco Cristaldi. Lo considero un maestro».
La regola numero uno del maestro Cristaldi?
«Non seguire i gusti del pubblico».
Come, scusi?
«Il produttore deve riuscire a coinvolgere il pubblico con le proprie idee. La qualità paga».
Paga anche il fatto di mettere attori ultra noti in ogni film. In quelli della Fandango succede spesso.
«Non dico di non aver mai fatto scelte pensando al pubblico, ma ho anche sperimentato. In Italia non esiste un vero e proprio star system quindi è possibile».
Un esempio?
«Per Le conseguenze dell’amore scelsi Toni Servillo che era conosciuto solo in teatro. Stefano Accorsi prima di Radiofreccia era noto solo per lo spot di un gelato».
I maligni dicono che “L’ultimo bacio” (2001) abbia salvato la Fandango da una situazione finanziaria catastrofica.
«In realtà gli anni più difficili sono stati quelli tra il 1993 e il 1998. In quel periodo ho pensato pure che non ci fossero le condizioni per farcela. Ho incontrato molte persone che mi hanno aiutato».
Un nome?
«Paola Corvino, mio padre… E comunque sì, con L’ultimo bacio ho rimesso a posto i conti, ma prima ancora è stato Radiofreccia a riposizionarmi. Grande qualità e buoni incassi».
Come le è venuto in mente di far girare un film a Ligabue, una star della musica?
«Avevo letto alcuni suoi racconti e conoscevo bene i testi delle sue canzoni. Credo che Liga sia un regista vero, al pari di molti che lo fanno come mestiere principale. Io non ho talento. Il mio compito è scoprire i talenti».
L’ultimo talento che ha incontrato?
«Gian Alfonso Pacinotti».
In arte Gipi. In concorso a Venezia con “L’ultimo terrestre”. Tra i primi talenti che lei ha scoperto c’è anche Gabriele Muccino.
«Che fosse bravo se ne erano accorti anche i sanpietrini fuori dalle sale dove veniva proiettato Ecco fatto, il suo film d’esordio. La dote principale di Muccino però è di non avere il pudore dei sentimenti».
E qual è la dote principale di Nanni Moretti, di cui la Fandango ha prodotto “Habemus Papam”?
«Di Moretti condivido anche tutto quello che dice sulla politica italiana».
E cioè?
«Se ci troviamo ancora con Berlusconi al governo è anche colpa del centrosinistra, che a furia di non occuparsene, ha reso il conflitto d’interessi un argomento noioso per gli italiani».
Interessi. Lei, oltre a produrre film ha creato una specie di mega-factory: un bar/libreria, una sala cinematografica, una casa editrice… È un vezzo da mecenate del terzo Millennio?
«No. Mi piace creare luoghi dove i talenti si possano incontrare. Se non ci fosse stata la casa editrice non avrei mai prodotto Gomorra».
Racconti.
«Laura Paolucci, storica collaboratrice di Fandango e socio fondatore della sezione libri, aveva letto le bozze del romanzo di Roberto Saviano. Volevamo pubblicarlo noi, ma Mondadori è arrivata prima. Il fatto di conoscere le bozze però ci ha permesso di opzionare per primi i diritti cinematografici, e così…».
Ora con la Cattleya di Riccardo Tozzi, produrrete la serie tv di “Gomorra” per Sky.
«Quando io e Riccardo abbiamo scoperto che stavamo lavorando a due progetti simili, abbiamo deciso di unire le forze».
Lei entra molto nella realizzazione del film o lascia libertà totale al regista?
«C’è un patto non scritto tra me e i registi: lascio piena libertà… però mi piace entrare nelle scelte più importanti».
Una volta in cui si è imposto?
«Durante il casting dello Spazio bianco. Io volevo Margherita Buy come protagonista. La regista Francesca Comencini avrebbe preferito un’attrice di età diversa. Alla fine mi ha dato ragione».
La battuta epica tra tutti i film che ha prodotto?
«Il credo di Benassi in Radiofreccia… Credo nelle rovesciate di Bonimba e nei riff di Keith Richards…».
Lei è un fan del 3D?
«Solo per film come Avatar. Sono contento che Bertolucci abbia abbandonato l’idea di girare il suo prossimo film in tre dimensioni».
Chi è l’attore dei suoi sogni?
«Il Clint Eastwood dei grandi western».
E l’attrice?
«La Uma Thurman di Kill Bill».
È vero che Veltroni le propose una candidatura alle politiche del 2008?
«Veltroni avrebbe potuto fare molto per il Paese. Mi chiese solo di partecipare alla Costituente del partito. Ora credo molto nelle potenzialità di Nichi Vendola».
Ha un clan di amici?
«Fuori dal lavoro ne ho davvero pochi. Uno su tutti: Gianni Saro, con cui feci il militare a Maddaloni».
Qual è il suo libro preferito?
«Lo so che dovrei dire La recherche, ma insomma… On the road».
La canzone?
«Dancing in the dark di Bruce Springsteen. Molto anni Ottanta».
Il film?
«All that jazz. Il regista Bob Fosse decise di girarlo anche se stava molto male: un grande segno di vitalità».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Diventare responsabile legale della Vertigo. È in quel momento che ho cominciato a fare il produttore».
L’errore più grande che ha fatto?
«Diventare responsabile legale della Vertigo. Ogni tanto ho nostalgia di una vita con qualche pausa e con molti meno impegni».
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