Marzia Sabella (Sette – giugno 2011)

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Alla quarta domanda un po’ troppo personale, mi fissa e dice: «Qui le domande di solito le faccio io». Marzia Sabella, 46 anni, sostituto procuratore dell’Antimafia palermitana, nel 2006 ha partecipato alla cattura di Bernardo Provenzano e ora è uno dei pm sulle tracce di Matteo Messina Denaro, l’ultimo dei grandi latitanti. La incontro nel palazzo del Tribunale di Palermo. Sabella fuma, apre sicilianamente tutte le vocali, misura le parole. Ogni tanto sembra pensare: «Questo lo posso dire… questo meglio di no». Se le chiedi di Massimo Ciancimino e delle sue rivelazioni sulla trattativa tra mafia e Stato, per esempio, si trincera dietro a una risposta diplomatica: «Le indagini chiariranno tutto». Ma quando le faccio notare che nell’immaginario collettivo ’ndrangheta e camorra casalese hanno superato Cosa nostra nella triste classifica delle emergenze nazionali, sbuffa: «È anche colpa di voi giornalisti. Sembra quasi che in Sicilia ci occupiamo solo di Ciancimino, trattative, Berlusconi. Invece, gli arresti mafiosi continuano». Partiamo da qui, allora.
Cosa nostra boccheggia decimata dagli arresti o cresce all’ombra della strategia di Provenzano? La famosa sommersione…
«Prolifera, prolifera. E sulla strategia della sommersione ci sono un paio di cose da spiegare».
Quali?
«È vero che Provenzano, dopo le stragi, doveva spegnere i riflettori su Cosa nostra, ma aveva anche un problema organizzativo».
Perché gli avevate azzerato l’esercito?
«No, la forza militare ce l’aveva e ce l’ha. Il problema è che non era il Capo formale dell’organizzazione. Lo era nella sostanza e lo dimostrano i pizzini con cui dava ordini agli affiliati di tutti i mandamenti. Ma certe decisioni non poteva proprio prenderle, perché nella forma il boss era ed è Totò Riina».
Oggi a Palermo c’è un Capo dei capi, al comando e a piede libero?
«Dopo Provenzano, Salvatore Lo Piccolo forse ci aveva fatto un pensiero. È stato arrestato nel 2007. Il processo Perseo ha svelato il tentativo dei mafiosi di riorganizzarsi, di creare un nuovo vertice, una nuova “commissione provinciale”. C’è un’intercettazione in cui si dice chiaramente che serve un capo commissione per “tornare a fare le cose gravi”».
Matteo Messina Denaro potrebbe essere il sostituto di Riina?
«Lui comanda a Trapani. E a Palermo è diventato un consigliere carismatico. Quando l’anziano mafioso Benedetto Capizzi si è autoproposto come “capo”, Messina Denaro ha fatto sapere che lui dialoga con tutti, ma non può riconoscere nessuno».
Tradotto?
«Messina Denaro è il pupillo di Riina. Il Capo è ancora Riina».
Come si fa a comandare dal carcere, in regime di 41bis?
«Nelle lettere di Messina Denaro a Provenzano ce n’è una in cui dice: “Grazie, ho ricevuto la sua e quella dello zio Totò R.”».
Ma la posta non è ultracontrollata?
«Se un mafioso manda una cartolina con gli auguri di Natale non glielo puoi impedire. A meno che non lo decida il legislatore».
Chi sta lavorando con lei alla cattura di Messina Denaro?
«Il procuratore aggiunto Teresa Principato e il pm Paolo Guido».
La cattura del boss trapanese potrebbe fare luce sugli ultimi misteri nei rapporti tra la mafia di Riina e lo Stato?
«Si dice che Messina Denaro custodisca l’archivio di Riina. Ma sappiamo che quando è stato scoperto quello di Provenzano, lui si è infuriato. La sua regola sui pizzini è: leggere e poi bruciare».
La cattura di Provenzano per lei è stata…
«Intanto la nascita di una grande amicizia. Con Giuseppe Pignatone, Michele Prestipino e Renato Cortese».
Gli altri del pool che hanno agguantato Zu Binnu. Ora sono tutti e tre a Reggio Calabria. Ricorda il primo incontro con Provenzano?
«Certo. L’11 aprile 2006».
Il giorno dell’arresto.
«Cortese e i suoi uomini, seguendo un pacco di biancheria, erano arrivati al rifugio di Montagna dei Cavalli. Lì, avevano visto una mano spuntare da una porta per ricevere una ciotola di ricotta. Si era deciso per l’irruzione. Io, Pignatone e Prestipino aspettavamo notizie in Procura. Eravamo gli unici a sapere dell’operazione. A un certo punto, mentre scendevo le scale, mi arrivò la telefonata: “Torna su, lo abbiamo preso”. Dopo un primo sopralluogo al casolare raggiungemmo Provenzano in Questura. Sembrava spaesato. Gli occhi da boss, invece, li riconobbi durante il primo interrogatorio».
Come andò?
«Il più bell’interrogatorio della mia vita».
Sbaglio o Provenzano non disse nulla?
«Si avvalse della facoltà di non rispondere. Sembrava un incontro diplomatico: Stato e Antistato. Provenzano salutò i presenti in ordine di importanza. Ero combattuta. Avevo davanti il criminale più pericoloso del Paese, ma pensavo: “Possibile che la mia Sicilia sia nelle mani di semianalfabeti?”».
La cattura di Provenzano venne accolta con grande entusiasmo dai palermitani. I siciliani manifesteranno la stessa gioia quando verrà preso Messina Denaro?
«Forse sì. Ma Provenzano era più noto. Mi chiamarono persino da Dubai per commentare quell’arresto. Ora purtroppo mi pare che l’opinione pubblica sia un po’ stanca e distratta su questi argomenti».
Ma come, la Sicilia tra tutte le regioni ad alto tasso malavitoso è quella con più associazioni antiracket: dopo le stragi è stata la terra del grande risveglio antimafia.
«Quando qualcuno cita in pubblico Falcone scatta l’applauso, certo. Ma poi si ricomincia a sonnecchiare. È sconfortante! Il lavoro socio-culturale da fare è davvero enorme. Basta pensare che con una busta della spesa si compra il voto di una famiglia. Basta guardarsi intorno».
Che cosa vede intorno a sé, per le strade palermitane?
«Masse di giovani analfabeti e maleducati. Mi pare che ci sia stata una involuzione rispetto a come eravamo noi a Bivona negli anni Settanta. E guardi che non avevamo grandi scelte: la sezione dei giovani comunisti o la parrocchia».
Lei quale “chiesa” frequentava?
«Andavo dove c’era una festa».
Mi racconta la sua infanzia?
«Sono nata e cresciuta a Bivona, in provincia di Agrigento. Genitori avvocati. Mia madre in paese era “l’Avvocatessa”, non c’era bisogno di citare il cognome».
Che studi ha fatto?
«Liceo in Sicilia. E Università a Milano».
La Milano da bere degli Anni Ottanta.
«I primi telefoni in macchina. I locali notturni. Mi divertii parecchio. Ma l’impatto fu un po’ duro. Per un certo periodo cercai pure di grattar via la cadenza siciliana. Ma poi mi abbandonai alla mia identità. Dopo la tesi in Diritto civile andai a Roma per frequentare un corso per notai».
E la magistratura?
«Aspetti. Tornata a Bivona volevo lavorare. Chiesi a mio padre se conosceva qualcuno per farmi entrare in banca. Pensai di aprire un negozio. Ma poi, un po’ per accumulare crediti, un po’ perché mio fratello era già pm, feci il concorso in Magistratura. Il fine ultimo restava quello di diventare notaio».
Poi che cosa accadde?
«Le stragi. Avevo passato l’esame scritto. Mentre studiavo per l’orale vennero massacrati Falcone, Borsellino e le loro scorte. Fu come una chiamata alle armi. Chiesi di entrare subito nella Procura di Palermo».
Il primo incarico?
«Il primo processo completamente istruito da me fu quello ai pedofili di Ballarò. All’epoca non c’erano leggi ad hoc e non c’era nessuna sensibilità su questo argomento: l’infamia colpiva l’abusato e non l’abusante. Posso dire che se c’è una legge contro la pedofilia è anche merito mio».
Che cosa ha pensato quando ha letto le intercettazioni di don Riccardo Seppia, il prete pedofilo di Genova?
«Ho un bambino di otto anni. Ormai non riesco ad andare oltre i titoli dei giornali quando si parla di pedofilia».
Quando ha cominciato a occuparsi di mafia?
«Il primo mafioso con cui ho avuto a che fare fu il pentito Pietro Romeo. Era gigante, un animale: non sapendo sparare bene, strangolava le vittime a mani nude. Eravamo in una stanza, soli. Cercava di essere gentile. Io gli guardavo le mani e un po’ tremavo. Alla fine mi aiutò a far funzionare un cavo del pc».
Lei ha mai subito minacce mafiose?
«Non dirette. Le minacce peggiori le ho subite quando mi occupavo di reati non legati alla mafia. Mi hanno defecato in ascensore, mi hanno sputato…».
Pensa di essere stata trattata peggio in quanto donna?
«Un po’ sì. Durante alcuni processi i mafiosi dalle gabbie scandivano il labiale di insulti tipicamente maschilisti».
Come reagiva?
«Ho sempre incassato. Lì si impara a reggere lo sguardo di un mafioso».
Ha mai pensato di fare politica?
«Non fino a quando sarò in magistratura. Non ho tessere. Sono libera».
Se fosse il premier, quale sarebbe il suo primo provvedimento per far funzionare la giustizia?
«Introdurrei un po’ di buon senso».
Non credo sia possibile per decreto.
«Non va riformata la magistratura, vanno migliorati gli strumenti in mano ai magistrati. Va snellito il sistema. I tribunali intasati aiutano la mafia. Il fatto che un giudice non dia risposte in tempi rapidi spinge i siciliani tra le braccia dei vari Zio Tano e Zio Calogero: i boss ci mettono due secondi a risolvere un contenzioso».
A cena col nemico?
«Anche con Provenzano. A patto che durante il pasto racconti tutto quello che non ha mai raccontato».
Riina e Provenzano si pentiranno mai?
«Non credo proprio».
Che cosa guarda in tv?
«Le televendite, per addormentarmi».
Il film preferito?
«Il favoloso mondo di Amélie, di Jeunet».
Il libro?
«Tra gli ultimi… Il viaggio dell’elefante di Saramago».
La canzone?
«Khorakhané di Fabrizio De André, cantata da Fiorella Mannoia».
Sa quanto costa un litro di latte?
«Un euro e qualcosa».
Fa la spesa sotto scorta?
«Certo. Sanno quello che mangio. Dove risparmio e dove no».
Conosce l’articolo 3 della Costituzione?
«È quello sull’uguaglianza dei cittadini».
Dopo i referendum è un articolo che corrisponde di più alla realtà?
«Allude all’abrogazione del legittimo impedimento? Io penso che dopo i referendum sia l’articolo 1 ad averci guadagnato».
Perché?
«Il popolo ha dimostrato di essere sovrano».

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Categorie : interviste
Commenti
BRUNO MARIA 27 Giugno 2011

Sono orgogliosa di essere Bivonese come Marzia Sabella

Giovani contro la mafia 12 Febbraio 2012

In Relazione all’articolo sull’Espresso ed il boss fà inchinare Cristo, abbiamo finalmente apprezzato che Cardinali, Magistrati abbiano denunciato il rito reso noto da scrittori di Storia, ma anche esperti di riti e miti .Invitiamo la Pm Sabella ad esprimersi in modo chiaro in proposito in quanto nell’eludere la radice criminogena del rito, sorge il sospetto che si voglia continuare ad annebbiare il campo.Gravissimo che a generare confusione ed inibire l’indignazione e la consapevolezza della gravità semiologica della legittimazione della mafia , sia proprio la pm Sabella che vorrebbe sminuire l’atto riducendolo a contenzioso tra il singolo e la società civile:un modo per affermare che chi vuole combattere la mafia non ha interlocutori tra i giudici. La invitiamo a dimettersi o a rettificare la sua dichiarazione,in quanto consiglio intimidatorio, perchè toglie la speranza che il cittadino comune possa trovare interlocutori nella magistratura, quando in realtà i suoi colleghi e vertici del vaticano le sono contro all’unanimità.E’ titpico di ogni società e sistema di oppressione , prima ancora di togliere la libertà, di inibire e mutilare la consapevolezza e negare che questi atti siano un reato ,significa malmenare e ridurre al silenzio la coscienza civile.

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