Massimo Cialente (Sette – giugno 2011)

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Sono le dieci di sera quando entriamo nel centro dell’Aquila. La città è ingessata. I palazzi che hanno resistito al terremoto del 6 aprile 2009 sono tutti puntellati. Avvolti da tubi. Incartati nel buio. Solo due o tre vetrine sono illuminate. Qualche ragazzo seduto su un gradino beve una birra. Il sindaco Massimo Cialente, 59 anni, avanza tra gli scheletri di pietra e di cemento. «Questo va buttato giù. Quest’altro riaprirà tra poco. Si rende conto di che cosa è successo qui?». Passiamo davanti alla Casa dello studente. Qui sono morti nove giovani. Le loro foto sono appese ai lampioni, circondate da mazzi di fiori. La catastrofe di 25 mesi fa ha tolto la vita a 309 persone. E ha sventrato il capoluogo abruzzese. La settimana scorsa, i magistrati hanno rinviato a giudizio per omicidio colposo plurimo i componenti della commissione Grandi Rischi: sapevano del pericolo sismico, ma non hanno dato l’allarme. «Nessuno ha la sfera di cristallo», commenta Cialente, «ma in questo Paese perché invece di progettare il ponte sullo Stretto non si investe per mettere in sicurezza il territorio?».
Il sindaco si fa intervistare nella sua abitazione. È più che arrabbiato. Ha minacciato le dimissioni e si è tolto platealmente la fascia tricolore più volte. Ma è ancora lì. È stato commissariato in molte delle sue funzioni e il premier Berlusconi appena può gli dà contro. «Mi ha chiamato “fellone”. Ha detto che se non si ricostruisce è colpa mia. In realtà se è tutto fermo la responsabilità principale è proprio del governo. Manca attenzione. Manca care». L’assenza di care è il leitmotiv di Cialente e non ha nulla a che fare con lo slogan veltroniano del 1° congresso dei Ds del 2000.
Qual è la prima cosa che farebbe se fosse premier?
«Toglierei il commissariamento alla città».
Lo dice perché rivuole i suoi poteri?
«Lo dico perché, dopo più di due anni, è giusto tornare alla normalità democratica. Invece, l’ultima volta che ho contestato un provvedimento del commissario Chiodi, mi hanno detto che da ora in poi le ordinanze non me le faranno nemmeno più vedere».
Altre priorità?
«Sbloccare i duecento milioni per il rilancio economico e produttivo, fermi da agosto 2009».
Come si fermano 200 milioni che servono per far risorgere una città terremotata?
«Con la mancanza di care. Ricorda il famoso porto franco? La zona tax free che doveva alleggerire i carichi fiscali degli aquilani e far ripartire le attività economiche?».
È stato annunciato più volte.
«Ecco. Annunciato e basta. L’ultima volta che siamo andati a Roma per protestare abbiamo pure preso le manganellate. Presidi, professionisti, anche elettori berlusconiani. Tutti caricati dalla polizia».
Possibile?
«Dobbiamo risultare ingrati. Quel che non sa Berlusconi è che le botte prese a Roma hanno risvegliato anche i miei concittadini che pensavano di stare in un film».
Quale film?
«Quello degli striscioni con su scritto “Silvio fatti clonare”. Per ringraziarlo delle newtown».
Anche lei all’inizio sembrava apprezzarle.
«Le considero tutt’ora molto belle. Un’ottima soluzione iniziale».
Molti le rimproverano un eccesso di confidenza nei confronti di Berlusconi. Come se ne subisse il fascino.
«Il fascino? Io nel 2001 ho lasciato il mio lavoro di medico per fare politica contro Berlusconi. Lo considero l’avversario con la A maiuscola».
Subito dopo il terremoto non sembrava.
«Perché l’emergenza è stata gestita bene. Ma poi…».
Quand’è l’ultima volta che Berlusconi è venuto all’Aquila?
«Nel gennaio 2010. Dopo qualche mese siamo spariti dalla sua agenda. Sa che cosa vuol dire essere sradicati dalla propria città? Dalla propria comunità? Con le case ho dovuto introdurre il metodo sovietico».
Come, scusi?
«Molti di quelli che avevano avuto la casa distrutta o classificata come a rischio, all’inizio sono stati piazzati a caso nelle nuove abitazioni. Uno qua, uno là… Allora io che cosa ho fatto? Come si faceva nella piazza Rossa, a Mosca: ho dato l’opportunità a chi voleva di fare a scambio: così si sono ricostituite molte comunità parentali e di vicinato».
Berlusconi disse che entro la fine della legislatura anche il centro dell’Aquila sarebbe tornato in sesto.
«Credo che lo abbia dichiarato in buona fede. Ma poi sostenere che se non si ricostruisce è colpa mia, è stata una vigliaccata».
Di chi è colpa?
«Di chi da mesi rallenta i passaggi burocratici o sforna ordinanze poco chiare sui tempi e i costi della ricostruzione delle case classificate come E: distrutte o a forte rischio di crollo».
Fuori i nomi.
«Il commissario Chiodi, il capo della struttura tecnica di missione Fontana e una parte del governo».
Una parte?
«È dal novembre 2009 che percepisco un attrito tra Letta e Tremonti su questa vicenda: comincio a sospettare che Tremonti non ci lasci arrivare i circa tre miliardi di euro che ci spettano, perché, tenendoli in cassa, poi in Europa gli dicono “bravo”».
È un’accusa pesante.
«L’alternativa è che i soldi non ci sono. Ma allora lo dicano e non diano la colpa a me se non si restaura L’Aquila».
Un gruppo di urbanisti l’ha accusata di aver voluto puntellare i palazzi invece di cominciare a restaurarli.
«Sa perché ho fatto questa scelta? Perché per cominciare i restauri sul serio ci sarebbe voluto comunque un bel po’ di tempo. E la città sarebbe rimasta abbandonata. Come un malato sfortunato in ospedale».
Sfugge il senso del paragone.
«I malati bisogna andare a trovarli spesso quando sono in ospedale. Se no si rischia di dimenticarli. Allo stesso modo io sto cercando di far tornare i cittadini in centro. Per tenere viva la città: ha riaperto il Boss, una vineria storica per studenti, poi una macelleria, una trattoria… Mio padre mi ha detto che il prossimo passo deve essere un portico».
Dia una tempistica: quando finirà la ricostruzione?
«Le abitazioni di tipo A, B e C, cioè quelle con danni minori, o sono state messe a posto o hanno progetti approvati. Per le E… Non dipende da me. Io per sbloccare la situazione ho minacciato due volte di dimettermi. L’ultima due mesi fa».
Però è sempre lì.
«Voglio fare tutto quello che posso. La minaccia è l’unica arma che ho. Qui ci sono nato».
Mi racconta la sua infanzia?
«Sono cresciuto a duecento metri dalla piazza centrale dell’Aquila».
Studi?
«Ero abbastanza brillante. Nel 1971 decisi di frequentare medicina all’Aquila e non a Bologna come facevano molti aquilani».
Ha cavalcato gli Anni di piombo sulle barricate?
«No. Nel 1970 ero già iscritto al Pci. Cattolico e comunista. Sono un berlingueriano puro. All’Aquila c’eravamo io e Giovanni Lolli. Qualche anno dopo è emersa anche Stefania Pezzopane».
Siete ancora lì. Tutti e tre. I più giovani dicono: «Sono inamovibili». Attaccati alle poltrone.
«No, guardi. Io ho una professione. Sono un medico pneumologo. Nel 2001 mi sono presentato alle politiche perché ero uno dei pochi che ce la potevano fare».
Lei, eletto sindaco nel 2007, lo stesso anno non ha partecipato alla fondazione del Pd.
«Ho lavorato per costruire Sinistra democratica. Poi, un bel giorno, senza dire nulla a nessuno, Mussi, Diliberto e compagnia, decisero di creare dal nulla la Sinistra Arcobaleno. Dio ci ha castigati alle elezioni del 2008».
A quel punto si è rifugiato sotto l’ala di Bersani.
«Lo conosco da molti anni. Gli avevo detto: “Se ti presenti alle primarie mi iscrivo”. Detto, fatto».
Il suo candidato premier: Bersani o Vendola?
«Bersani. Nichi fa sognare. Ma io voglio vedere i fatti».
A cena col nemico?
«Con Tremonti. Anche se mi sta facendo passare i guai. Con Borghezio, invece, neanche un caffè».
Perché?
«Ha detto che L’Aquila è una palla al piede del Paese. Se si affaccia in città si prende un bel calcio nel sedere».
E se si affacciano il costruttore De Vito Piscicelli e suo cognato Gagliardi, i due della telefonata in cui si rideva del terremoto?
«Mi fanno quasi pena: uno ha tentato il suicidio. Quello che loro si sono detti incautamente al telefono, l’hanno pensato anche molti altri imprenditori».
Lei ha un clan di amici?
«Quelli che hanno perdonato la mia assenza affettiva durante tutti questi mesi post sisma. Una su tutti: mia moglie Donatella. Il giorno dopo i crolli ho incontrato lei e i miei tre figli per venti minuti. Poi li ho rivisti dopo 22 giorni».
La notte del terremoto…
«Dopo le prime scosse sono rimasto immobile nel letto. Ho cominciato a urlare, per chiamare i miei figli. Poi ci siamo infilati nel camper, li ho portati in un posto sicuro e mi sono messo al lavoro».
Che cosa guarda in tv?
«Sky Tg 24, il Tg3 e un po’ La7».
L’ha vista la famigerata puntata di Forum con la signora che diceva che all’Aquila è tutto a posto?
«Quella era un’attrice di Sulmona. Non so chi le ha scritto il copione. Ma penso che certi servi sciocchi creino danni ai loro padroni».
Ha parlato con la conduttrice Rita Dalla Chiesa?
«No. Non si è fatta sentire».
Tv. Bruno Vespa viene criticato perché dopo la puntata sulla consegna delle case da parte di Berlusconi si è occupato poco della “sua” L’Aquila?
«Credo che Vespa, come molti del Pdl, sia in forte imbarazzo per come si sono messe qui le cose».
Il libro preferito?
«Una raccolta di poesie che comprai quando ero al liceo».
La canzone?
«What a wonderful world di Louis Armstrong».
Il film?
«Novecento di Bertolucci. Un grande affresco».
Lo ha visto Draquila, il film di Sabina Guzzanti sul terremoto?
«Certo, ne esco un po’ così…».
Così, come?
«Come uno un po’ cretino che pensa solo a cercare la sua gatta nera».
Poi l’ha trovata la gatta?
«È tornata lei. Una notte, nel silenzio spettrale del quartiere deserto, l’abbiamo sentita miagolare».
Sa quanto costa un chilo di pasta?
«Quella biologica un euro e ottanta. E non è un granché».
L’articolo 1 della Costituzione?
«È il più bello. Siamo una Repubblica fondata sul lavoro. Sto leggendo la Costituzione con il più piccolo dei miei figli, che ha sedici anni».
Gli piace?
«Abbiamo appena studiato il Parlamento. Mi ha detto: “Papà, come mai sulla Carta era stupendo e ora è ridotto così?”».

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