Claudio Martini (Magazine – gennaio 2009)

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Claudio Martini, presidente della Regione Toscana (ex feudo Pci, ora “casamatta democratica”), mi accoglie in una sala affrescata all’ombra del Duomo di Firenze. Ha 58 anni appena compiuti e un distacco zen dalle beghe romane di Palazzo. Me lo manifesta con sbuffi e strizzate d’occhio di diversa intensità a seconda del guaio veltroniano che gli sottopongo. Da musicologo preferirebbe parlare più delle trame dongiovannesche che del “risiko partitiko”. Ma tant’è. Quando gli chiedo se il prossimo messia del Pd sarà l’uomo di Sanluri, prima fa finta di non sapere che in quel paesino ci è nato Renato Soru, e poi sgrana gli occhi come se fossi pazzo. Quando poi pronuncio il cognome Di Pietro, la sgranata è ancora più plateale. Ideatore della Toscana Felix, e cioè del tentativo di rendere una amministrazione regionale un brand da export, Martini è uno di quei leader del Pd che, sorretto dai plebisciti bulgari delle regioni rosse, cerca di coniugare la ealpolitik dell’amministrazione territoriale con slanci ideali de sinistra: da una parte procede come un caterpillar nella costruzione dell’autostrada Tirrenica senza badare alle urla di dolore della gauche capalbiese e delle associazioni ambientaliste, dall’altra è un pro Dico, ha digiunato contro la guerra in Iraq, ha manifestato a Genova contro il G8 e ha ospitato a Firenze il Social forum. Nel labirinto infernale del Pd, è un buon Virgilio dantesco.
Martini che cosa succede nel suo partito?
«Viviamo con qualche tremore».
Goffredo Bettini, il coordinatore del Pd, ha detto che dopo la conferenza programmatica di aprile, si risolverà tutto.
«Ah. Pensi che per me siamo in ritardo programmatico dalla metà degli anni Ottanta. È ora di ricostruire».
Come?
«Facendo partecipare i nostri elettori. E prima di parlare di nuovi leader, cerchiamo di capire le radici profonde di questa crisi».
Lei dove le ha individuate?
«Mi sono fatto un’idea. Oltre alla sconfitta elettorale, è mancata un’elaborazione della brutta esperienza prodiana».
Come, come? Guardi che qualche giorno fa il governatore sardo Soru e altri dirigenti del Pd hanno rievocato l’Ulivo e le vittorie di Prodi su Berlusconi.
«Non voglio personalizzare, ma quell’esperienza è stata un disastro. Soprattutto comunicativo: davamo un senso di disarmonia totale e di sfacelo».
Addirittura?
«Il governo Prodi nacque nel giugno 2006? Be’, in ottobre io chiamai Vasco Errani, presidente dell’Emilia Romagna e gli dissi: “Vasco, facciamolo cadere”».
Che cosa rispose?
«“Sei matto? Non c’è alternativa”. Ma era chiaro che più sarebbe andata avanti l’esperienza dell’Unione e più ci avrebbe logorato. E infatti».
Ora, però, quell’esperienza passata mi pare l’ultimo dei guai del Pd. Ci sono assessori arrestati, governatori inquisiti: Napoli, Pescara, l’Abruzzo…
«Parlo per quel che so».
…Firenze.
«Uno potrebbe pensare che c’è un complotto. Ma io non amo le dietrologie».
E quindi?
«Intanto c’è un accanimento della stampa. Sembra un gioco: dàgli al Pd».
Le inchieste mica sono colpa dei giornalisti. Se i politici la smettessero di occuparsi degli appalti con certe modalità…
«Certo. Evidentemente c’è anche un modo di governare che non funziona più. Però guardi che a Firenze dalle intercettazioni non emergono reati rilevanti».
L’assessore Graziano Cioni è indagato per corruzione.
«L’unica cosa provata è una certa opacità, una mancanza di trasparenza, che fa pensare, ma per ora solo pensare, a cose non limpide. Si parla in privato, tra i soliti noti, di cose che andrebbero affidate a un dibattito pubblico».
Un vizio antico.
«Da estirpare. In Toscana ora c’è una legge per far partecipare i cittadini alle decisioni degli amministratori. È un modo per creare trasparenza».
Avete già usato questo metodo?
«Sì. Ed è un metodo che applicherei anche alle scelte del Pd».
Si spieghi meglio.
«Al Pd manca una linea sulla giustizia, no? Non ci si può affidare alle dichiarazioni dei soliti noti».
Parla di Luciano Violante?
«Non faccio nomi. Fosse anche Einstein con altri quattro geni, non basterebbero. La giustizia è un tema troppo rande e delicato: serve una consultazione di massa».
Procedendo per consultazioni di massa ogni decisione del Pd sarebbe un parto lungo e doloroso.
«In sei mesi il processo si conclude. Un parere degli esperti, la redazione di un documento del partito e la consultazione dei militanti: trasparenza».
Un po’ macchinoso come procedimento. Per “l’autostrada delle polemiche”, la Tirrenica che passa per Capalbio, lo avete usato?
«No. La decisione di fare l’autostrada precede la legge toscana sulle consultazioni, ma guardi che le amministrazioni locali sono quasi tutte d’accordo».
Sulla Tirrenica, avete contro ambientalisti, archeologi, intellettuali, Claudio Petruccioli, Furio Colombo…
«Abbiamo contro il cosiddetto partito di Capalbio».
I maligni dicono che prima lei la pensava come quel partito, poi ha cambiato idea, anche perché alla guida della Società autostrada tirrenica c’è Antonio Bargone, che come lei è dalemiano.
«Io non sono dalemiano. Sono martiniano. E i giochi di correnti non c’entrano. Quello è il miglior progetto possibile».
Si dice che una parte dell’autostrada verrà finanziata grazie a un accordo per scaricare a Piombino i fanghi residui della siderurgia di Bagnoli.
«La decisione di fare l’autostrada è del 2002. E precede la storia dei fanghi».
A proposito di Bagnoli: secondo lei, dopo l’affaire rifiuti, Bassolino si sarebbe dovuto dimettere?
«Sì. Se non altro per poi poter partecipare alla ricostruzione. Così, invece…».
Rosa Russo Iervolino? Ottaviano Del Turco?
«Dimettersi… non dimettersi. Per qualsiasi reato? Farlo dopo una condanna o dopo un avviso di garanzia? Capisce perché serve un confronto serio sulla giustizia, nel partito? Di che cosa ci dovremmo occupare, se non di questi temi?».
Di Vigilanza Rai? La dirigenza Pd sembra tenerci molto.
«Lei non può capire quanto mi inviperisco quando la mattina apro i giornali e vedo che si parla di questa roba. Si rincorre Berlusconi sul suo terreno e il politichese prende il sopravvento. Invece da questa crisi si potrebbe aprire un’opportunità: dare la linea agli italiani su un nuovo stile di vita, sociale, economico…».
Nel frattempo molti del Pd rimuginano sull’alleanza con Di Pietro. È stata un errore?
«Sì. Soprattutto perché i termini dell’alleanza non sono mai stati chiarissimi».
Ora c’è chi disegna nuovi scenari: Casini e Cesa dell’Udc invitano gli ex popolari, ora democratici, a partecipare a una formazione centrista. E c’è chi teme che Rutelli…
«I centristi si aggregherebbero per fare che cosa? Andare con Berlusconi? In ogni caso, guardi che è tutta la sinistra europea a essere in difficoltà: inglesi, tedeschi, francesi, spagnoli».
Loro almeno sanno dove si siederanno al Parlamento europeo, dopo le elezioni in primavera.
«Lo sappiamo anche noi: tra i banchi del Pse».
Gli ex popolari Rutelli, Marini e Fioroni non sono d’accordo.
«Si dovranno rassegnare. In Europa o sei nel Ppe, dove c’è Berlusconi, o sei nel Pse. Se no non conti nulla».
Fassino qualche giorno fa si è azzuffato con il collega del Pd, Mantini, in pieno Transatlantico.
«Non conosco l’episodio».
Scherza? È stata una scenata pubblica, uno scontro sui conti del Pd.
«Hanno litigato per questo?».
Lasci perdere. La leadership…
«Vedo che ci si agita. Si fanno nomi».
Soru…
«Cuperlo, Chiamparino… ho sentito, ho sentito».
Il prossimo leader del Pd verrà da dentro il partito? C’è chi sostiene che potrebbe essere una figura “esterna”, alla Prodi.
«Il segretario verrà dal partito, il candidato premier non è detto. Il fatto che si parli di queste cose comunque indica due fatti».
Quali?
«Primo: siamo in difficoltà. Secondo: ormai c’è un circo mediatico che si alimenta da sé».
Sempre colpa dei giornalisti. Guardi che sono gli stessi politici a parlare di questi argomenti.
«È la politica che si fa populismo. Dibattiti vuoti. Io sono contro la politica spettacolo. E infatti non guardo i talk-show politici. Porta a porta non lo sopporto».
Molti suoi colleghi del Pd sono ospiti frequentissimi di Bruno Vespa.
«L’ho già detto pubblicamente: a Porta a porta non bisognerebbe andarci».
E a Ballarò, da Giovanni Floris?
«Per carità. Sono luoghi dove si litiga e basta. L’unico da cui andrei è Fabio Fazio».
Che cosa guarda in tv?
«Solo il grande ciclismo: il Giro e il Tour. Una passione che ho sin da bambino».
Dove è cresciuto?
«A Bardo, in Tunisia, dove sono nato».
Come mai è nato lì?
«Mio padre ci si trasferì per lavoro».
Famiglia comunista?
«No, democristiana e cattolica».
Un bimbo cattolico tra i musulmani.
«Se a Tunisi ci fossero state le classi separate come le vuole la Lega, non avrei vissuto la gioia di crescere nella diversità».
Parla l’arabo?
«Conosco gli insulti. Quel che so mi viene dalle baruffe nella medina di Tunisi».
Quando ha cominciato a fare politica?
«Prima ho fatto lo scout a Prato, dove la mia famiglia si era trasferita. Nel 1966, col mio gruppo, ero a Firenze per l’alluvione. Subito dopo sono entrato nella Fgci, la federazione dei giovani comunisti».
Non mi dica che anche lei come Fassino e Veltroni è entrato nel Pci contro il comunismo.
«Macché. Io ci sono entrato da fan di Ho Chi Minh e di Che Guevara, dopo una breve parentesi nel Movimento studentesco».
Ha mai fatto parte dei gruppetti extraparlamentari?
«No. Ho sfiorato Lotta continua perché mi piaceva una ragazza»
Quest’anno si festeggiano i venti anni dal crollo del Muro. Come visse quel momento?
«Ero impegnato nell’amministrazione della città di Prato. Quasi non me ne accorsi».
Ma figuriamoci.
«Ovviamente ricordo i pianti dei compagni, le baruffe, i litigi. Ma veramente ero immerso nelle istituzioni. Nel 1988 ero segretario del Pci cittadino. Si ammalò il sindaco e venni scelto per sostituirlo. Da quel momento non ho più lasciato le istituzioni».
Lei era già presidente, quando Berlusconi disse: «L’Italia andrebbe detoscanizzata».
«Qualcuno ha pure scritto che siamo “il buco nero della democrazia”. Poi hanno capito che parlare male di una amministrazione che funziona non paga, e quindi hanno smesso».
Obama è presidente da due giorni. Una speranza o un’illusione?
«Ho fatto il tifo per lui. È una speranza. Ma definirlo di sinistra, come fa qualcuno, mi pare esagerato. La cultura dei democratici americani concede ben poco alla sinistra».
Lei ha un clan di amici?
«Quelli antichi di Prato, dei tempi della Fgci. Stefano, Loris… sono ancora tutti nel partito».
L’errore più grande che ha fatto?
«Aver interrotto gli studi universitari da ingegnere».
Non è laureato?
«No. Recentemente ho provato a riprendere con Musicologia, ma non ce l’ho fatta. Se potessi rinascere,vorrei fare il direttore d’orchestra».
Suona qualche strumento?
«Strimpello la chitarra. Da ragazzo avevo un gruppo con cui facevamo canti popolari. E sono abbastanza esperto di musica classica».
La canzone della vita?
«Yesterday, dei Beatles. Sotto la doccia, un classico».
Il libro?
«Cent’anni di solitudine, di García Márquez. Ma poi anche La strada di Cormac McCarthy. Una storia durissima: da mal di stomaco».
Il film?
«La battaglia di Algeri, di Pontecorvo. Oppure Blade Runner».
I confini d’Israele?
«Egitto, Libano, Giordania e Siria. Sa perché li so?».
Me lo dica.
«In radio, durante una trasmissione che conduco una volta al mese, ho appena curato un “giro del mondo in ottanta dischi”. E il percorso passava anche intorno a Israele».
La sua posizione sugli scontri Hamas/Israele?
«I due estremismi, quello di Hamas e quello dei fondamentalisti israeliani, sono entrambi nemici della pace».
Quanto costa un litro di benzina?
«Un euro e zero sessanta».
Che cos’è Facebook?
«È un sito dove ognuno presenta il proprio profilo e cerca amici».
Lei c’è?
«No. Ma uso molto internet. Ormai la musica la compro solo on line».
Il pezzo più pregiato della sua collezione di musica classica?
«Un cofanetto di Dinu Lipatti».
Di chi?
«È il più grande e sfortunato pianista del ’900. Comunque a casa mia ho 16.000 cd».
Musica e politica: Giovanni Allevi ha appena diretto un concerto a Palazzo Madama.
«Un’operazione buona per suscitare polemiche e vespai. Ma non per avvicinare i cittadini alla musica classica. Gliel’ho detto che per me il massimo è Mozart?».
Il top dell’opera mozartiana?
«Quando nel Don Giovanni il Commendatore dice: “… a cenar teco, mi invitasti e son venuto”. Una scena surreale e al tempo stesso di una modernità assoluta».
Don Giovanni. Chi è il grande seduttore della politica italiana?
«Berlusconi. Ha sedotto tutti».
Dica la verità: lei spera che Berlusconi finisca all’inferno (politicamente, s’intende) come Don Giovanni.
«Eheh. No, no. Anche se penso che la moralità di Don Giovanni sia più limpida di quella di Berlusconi».

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