Valerio Mastandrea (Magazine – settembre 2008)

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Quando entro in casa sua, Valerio Mastandrea, infradito ai piedi e torso nudo, sta inscenando una finta sfuriata telefonica col regista del Giorno perfetto, Ferzan Ozpetek: «A sor maestro turco, ma la fai finita di dichiarare a destra e a manca quanto sono brave le attrici del tuo film? Ci sto pure io, o no?». Da anti- divo, gioca a fare il divo. Su uno schermo gigante in salotto passano le immagini di In nome del popolo italiano. Valerio spegne il cellulare e saliamo in terrazzo. «La casa l’ho comprata senza fare nemmeno una fiction», dice, mentre fa le scale. Ci sono piantine di menta e rose rampicanti. Tra i panni sullo stendino c’è una maglietta che cita i Blues Brothers: «Io li odio i nazisti dell’Illinois».
Mastandrea è un attore di sinistra, versante rifondarolo, ma non ha tessere. È romanista sfegatato, con tanto di trasferte ultras. Ed è garbatelliano fiero (inteso come abitante del quartiere romano Garbatella). Ha le idee chiare su come si dovrebbero svecchiare e liberare i cervelli e su come indirizzare il suo impegno: sostiene che invece di parlare tra di loro intorno ai caminetti di partito, gli intellettuali dovrebbero scendere per strada: «Pasolini prima di dare un giudizio o un suggerimento su come migliorare una realtà, si immergeva nella merda di quella realtà fino al collo». Alla pensata astratta e organica di partito, Valerio preferisce il gesto concreto, disorganico e di quartiere: dalla direzione di una scuola di teatro per ragazzi in periferia alla rinuncia della vasca da bagno per risparmiare acqua. Comincia l’intervista: «Temo le domande finali. Ti va di cominciare da quelle?». Eccoti servito.
Quanto costa un pacco di pasta?
«Ne butto quattro nel carrello senza controllare. Non lo so».
Un euro e dieci, circa. Quanti anni ha la nostra Costituzione?
«Sessanta».
Chi è il ministro ombra degli Interni?
«Marco Minniti».
Questa non era facile.
«Mi è rimasto impresso tutto il governo ombra: sembrano gli animatori di un villaggio turistico. Ma che ci stanno a fare nell’ombra? Diciamolo…».
Che cosa?
«Pdl e Pd più che un bipolarismo fanno un monopensiero».
Una volta hai detto: «Bisogna essere antagonisti rispetto al pensiero unico».
«Appunto. Bisognerebbe fare un po’ di resistenza».
Un tuo atto di resistenza?
«Dire di “no” alle serie in tv. È un “no” economicamente rilevante».
Quanto rilevante?
«Be’, una serie tv ti impegna più di un film, ma ti fa guadagnare anche dieci volte tanto».
A quali serie hai detto “no”.
«A tante. Per esempio a Distretto di polizia, due volte: dieci e tre anni fa».
I Cesaroni, serie garbatelliana, la faresti?
«No».
Molti che vengono dal cinema e dal teatro, anche di sinistra, non si fanno problemi.
«Non giudico le scelte degli altri. È che non amo quel linguaggio televisivo: il buono, il cattivo, la mignotta… senza sfumature. Il mondo non è così».
Galli della Loggia, sul Corriere, ha criticato le fiction: storie inautentiche e implausibili.
«Dice una cosa vera. Il pubblico da troppo tempo è abituato a un certo tipo di linguaggio della tv. E ormai lo ha fatto suo».
Tu non solo non fai fiction, ma vai pure molto poco ospite nelle trasmissioni.
«Sono andato da Paola Cortellesi a cazzeggiare. È un’amica. E poi se c’è qualche promozione…».
In tv sembri sempre annoiato. Hai una frase ricorrente: «Vi sto intristendo la trasmissione?».
«Una volta Mara Venier in diretta, a Domenica In, mi ha fulminato: “Ma che ci sei venuto a fare qui?”. Ammetto che avrei voluto fare l’attore negli anni Sessanta, quando gli artisti non dovevano promuovere i film come un qualsiasi prodotto».
A Venezia però ci sei stato.
«Venezia è importante per il cinema. Lì ho visto le cose più belle della mia vita, che poi ovviamente in Italia non sono state distribuite».
Un esempio?
«Un documentario con sei storie pazzesche di lavoratori: Working dead men».
Venezia è anche mondanità.
«Alla festa organizzata dalla Rai ci ho portato i miei genitori. Sono stati tutta la sera seduti su un divano sotto a una palla luminosa. Mi hanno ricordato le feste da bambino».
Torniamo alla resistenza: faresti pubblicità?
«No. Me ne proposero anche di grandi quando andavo di moda».
Anche ora vai di moda.
«Nel ’97/98 molto di più».
La critica che ti si fa più di frequente è: fai lo snob con la tv, ma in tv tu ci sei nato.
«Io non credo di essere nato in tv come attore».
Ma sei diventato famoso andando ospite al Maurizio Costanzo Show nel ’91.
«Per me quella è stata un’esperienza personale, più che professionale».
Cioè?
«Avevo appena trascorso un anno orribile. Scrissi alla redazione di Costanzo per voglia di apparire e di allontanare certe esperienze vomitandole in video. Ma essere stato lì mica mi ha spalancato le porte come attore».
La gente ti veniva a vedere al cinema e a teatro perché ti aveva visto in tv.
«Non direi».
Costanzo ti darà dell’ingrato. Sei più tornato da lui?
«No. Mi hanno detto che non l’ha presa bene».
Da bambino immaginavi di fare l’attore?
«No. A vent’anni, quando mi chiesero che cosa volevo fare da grande, dissi: “Il giornalista”».
Hai attori in famiglia?
«Mia madre era segretaria. Mio padre lavorava nelle assicurazioni».
L’infanzia alla Garbatella?
«Non ho vissuto sempre qui. I miei genitori si separarono presto e per un po’ mi affidarono alle nonne. Sono stato ai Parioli, a scuola dalle Suore Dorotee. Ma le medie e le superiori le ho fatte qui».
Ti è rimasto qualche amico di quel periodo?
«Sì. L’amico fraterno è Riccardo. Fa il vigile del fuoco e gira il mondo per surfare».
Gli amici del quartiere aiutano a non montarsi la testa?
«È un problema che non ho mai avuto. Anche perché non sono esattamente una star: a Cannes, un fotografo cinese vedendo che passavo io sul red carpet si è messo a riposare. Come dire: “Con questo non spreco manco uno scatto”».
Il primo ciak?
«Con Piero Natoli. Lo andai a trovare mentre preparavo con Vera Gemma uno spettacolo al teatro Argo, La Luna e l’asteroide. Mi chiese se volevo partecipare al suo film Ladri di cinema. Pochi giorni dopo partirono le riprese: io di fronte a un ospedale con un gesso al braccio e un occhio nero. Piero era eccezionale».
Ti fece da maestro?
«Con lui ho vissuto il cinema artigianale: giravamo con una troupe e un cast risicatissimi. Dieci persone in tutto. C’era anche Neri Marcorè».
Hai sempre rivendicato di non aver studiato recitazione.
«Mi rimangio la rivendicazione».
La tecnica dove l’hai imparata?
«Non sono uno alla De Niro che per fare l’autista si mette a guidare un autobus per due anni. Lavoro più sulla psicologia del personaggio».
I consigli più utili chi te li ha dati?
«Pietro Garinei. Quando facevo Rugantino con Sabrina Ferilli, appena calato il sipario si presentava in camerino con delle note scritte su un foglio di cartone: i tempi, le intonazioni… Comunque ci ho messo un po’ a realizzare che ormai ero un attore».
Quando è successo?
«Durante la promozione di Palermo-Milano solo andata. Tra l’altro, con i 4 milioni guadagnati nel 1996 con quel film, decisi di andare a vivere da solo. Da un paio di anni ho addirittura abbandonato il senso di colpa».
Quale senso di colpa?
«Quello dovuto al fatto di essere attore. Un complesso che mi spingeva ad aiutare le maestranze sul set. Un giorno un macchinista m’ha detto: “Ma che stai a fa’?”. E io: “Te do ’na mano”. E lui: “Tu fa’ ’l lavoro tuo. Che io faccio il mio”».
Una lezione sul rispetto del lavoro.
«Dopodiché io continuo a pensare che l’attore non può andare a gettone, cioè imparare la parte e ripeterla a comando. Deve essere un motore del film e quindi condividere il lavoro di tutti. Ci deve essere uno scambio tra attori e registi».
Un film di cui avresti voluto essere il motore?
«Ti devo rispondere Romanzo criminale?».
Se vuoi.
«Tutti i giornalisti mi domandano: perché non hai fatto quel film di Placido?».
Perché non lo hai fatto?
«Guarda, per quel film non ho partecipato nemmeno a un provino».
Cosa che invece hai fatto per quello di Spike Lee, Miracolo a Sant’Anna.
«Ed è andata male».
Racconta.
«Una premessa: Spike Lee per me è un mito. È il primo regista che sono andato a vedere da solo al cinema. Ho il poster in casa. Ho pensato pure di regalargli la maglia di Totti».
E poi?
«Mi sono presentato in questa stanzetta di Trastevere dove si svolgevano le prove. Ho fatto la parte di un personaggio e Spike Lee mi ha chiesto di farla con più energia. Be’, lì…».
Che cosa è successo?
«Gli ho detto: “Io veramente ho pensato che il personaggio quell’energia ce l’aveva dentro”. Mi ha sorriso. Ma secondo me pensava: “Come cazzo si permette questo…”. Non mi ha preso».
Resisti alla tv. Ma hai lavorato con la casa di produzione Medusa.
«Con Giampaolo Letta, boss di Medusa, mi diverto».
Si può essere “antipensiero unico” e fare un film prodotto da un’azienda della famiglia Berlusconi? Nella cine-gauche c’è chi si è rifiutato.
«Con Medusa non farei un film sulla vita di Cesare Previti. Ma se si tratta di una pellicola che rompe le scatole al senso comune perché no? Guarda che di questi tempi le case di produzione vere sono poche e di cose da fare ce ne sono tante».
In che senso?
«L’ho detto anche a Massimiliano Smeriglio di Rifondazione, uno che a Garbatella ha lavorato a un modello di amministrazione esemplare».
Che cosa gli hai detto?
«Che questi sono tempi duri, ma preziosi».
Cioè?
«Il cinema ha e avrà molti spunti su cui lavorare».
Mi fai qualche esempio? A parte quel Tutta la vita davanti di Virzì in cui facevi il sindacalista dei precari…
«Lì veniva fuori che questo è diventato un Paese in cui per una donna precaria fare un figlio è un vero atto di coraggio. Poi penso a Il divo che non è solo un film su Andreotti. Bisogna guardare oltre la gobba e godersi l’affresco sul potere».
Tra i film a cui hai lavorato tu?
«Giorno perfetto di Ozpetek e Non pensarci di Zanasi descrivono un’Italia in cui le famiglie esplodono».
Tu sei anche regista…
«Il prossimo cortometraggio che girerò ha già un titolo: Tieni la posizione. Sarà ambientato durante il G8 di Genova. È un film sulle responsabilità».
Quello che hai girato tre anni fa si chiama Trevirgolaottantasette.
«Era la media quotidiana dei morti sul lavoro in Italia nel 2004».
Hai partecipato pure a una lettura pubblica per le vittime della Thyssen Krupp.
«Già. Lo sai che lì incontrai Rutelli? Era prima delle amministrative di Roma. Gli dissi: “Sei pronto per il ballottaggio?”. Lui mi guardò come se fossi matto».
Non solo è andato al ballottaggio, ma ha perso contro Alemanno.
«Evidentemente non aveva il polso della città. In questo senso penso che i politici e gli intellettuali della sinistra stiano fallendo».
Che c’entrano gli intellettuali?
«Gli intellettuali dovrebbero immergersi tra la gente. Tradurre quel che succede nella società. Accattone di Pasolini è una mattonata sulla nuca di chi lo guarda, ma anche la traduzione di un mondo, per chi quel mondo non lo conosce. È un film che dà voce a chi la voce non ce l’ha. E questo dovrebbe fare la sinistra».
Non ti sembra che il nuovo Pd…
«Questo lavoro lo fa molto di più la Lega. Il Pd di Veltroni copia il modello di marketing del Pdl. Di Pietro sulla giustizia dice cose più apprezzabili».
Veltroni ti ha mai offerto una candidatura?
«Ma scherzi? E neanche Bertinotti. Anche Rifondazione deve pedalare parecchio. Dovrebbero avere il coraggio di riprendersi le strade. Di dare voce ai ragazzini».
Che invece si rifugiano nelle curve.
«Non cominciamo con la criminalizzazione delle curve, eh».
Parli da curvarolo?
«Ormai ci vado solo durante le trasferte, ma insomma, è un mondo che conosco».
È vero che una volta ti sei presentato sul palco del Costanzo Show col viso tumefatto perché ti avevano menato allo stadio?
«Sì, avevo preso una seggiolata in faccia a Torino. Ma non mi sono mai cercato guai».
Hai visto che cosa è successo a Roma coi tifosi napoletani?
«Sono state scritte molte balle. In realtà giornalisti e intellettuali il mondo della cultura Ultras e le curve non li conoscono proprio. Ci si facessero una bella immersione prima di sparare sentenze».
Guarda che così passi per giustificazionista.
«Io non giustifico nessuna violenza. Ma che ci fosse tensione tra napoletani e romanisti lo sapevano tutti i poliziotti d’Italia. Gli scontri erano annunciati. E per fortuna che le tifoserie non sono entrate in contatto tra loro».
Il libro della vita?
«Quando avevo 5 anni mi sono ucciso di Buten».
Il film?
«Il mucchio selvaggio. Film epico e coatto».
La canzone?
«Castle made of sand di Jimi Hendrix».
È vero che da ragazzo suonavi?
«Sì, con la batteria so fare a memoria tutte le canzoni dei Pink Floyd».
A cena col nemico?
«Mi ci fai pensare?».
(La risposta arriva dopo quattro giorni via sms).
«Famo che coi nemici nun ce magno».

Categorie : interviste
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