Raffaele Fitto (Magazine – ottobre 2008)

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Palazzo Chigi. Riunione sul federalismo fiscale. Fitto sta per prendere la parola, quando Tremonti lo stoppa: «Scusa, ma chi ti ha chiesto di occuparti di queste cose?». E Fitto, indicando Silvio Berlusconi: «Quel signore lì». Quando comunico a Raffaele Fitto, 39 anni, ministro per gli Affari regionali, che a Montecitorio circola questo aneddoto leggendario, glissa con una smorfia e parte con la filastrocca di rito sul fatto che lui e Tremonti vanno d’accordissimo, che con Calderoli sono diventati “pappa e ciccia” e che non è affatto vero che Berlusconi l’ha piazzato a occuparsi di federalismo per “marcare” i leghisti. Ex presidente enfant prodige della Regione Puglia, meridionale di stampo democristiano con tanto di riga da una parte, sguardo pensoso e vestito blu, senza accessori sgargianti, Fitto ha trascorso l’ultimo mese a cesellare il testo della riforma per mettere d’accordo tutta la maggioranza. «Giorni e notti, pranzi e cene. Gomito a gomito con Calderoli». Alla fine, a sentirlo, il federalismo fiscale approvato in Consiglio dei ministri sarà una manna anche per il Sud. Le campane degli scontenti, invece, parlano sia di un federalismo vuoto, sia di un federalismo che affamerà il Meridione.
Fitto, si teme che le regioni più povere dovranno aumentare le tasse.
«Roba da comizianti. C’è un articolo della riforma che parla proprio della invarianza della pressione fiscale».
La inva…
«Non si potranno aumentare le imposte».
E le regioni meridionali come faranno a pagarsi… che so… la sanità?
«La Lega ha accolto il principio di perequazione in materia di sanità, istruzione e assistenza».
Che cosa sarebbe?
«Lo Stato garantirà la copertura per la differenza tra il gettito prodotto dal territorio…».
…quello che nelle regioni meridionali si teme sia insufficiente…
«…e la cifra utile per garantire i servizi in quelle materie. Parliamo del 90% del bilancio di una Regione. Non solo. Lo Stato garantirà anche i diritti essenziali delle prestazioni in modo uniforme. E poi verranno destinate risorse speciali per il Mezzogiorno».
La Lega ha accettato tutto questo?
«Sono stati ragionevoli e costruttivi».
Detta così sembra che gli avete “tirato il pacco”.
«Ma no. I leghisti hanno accolto il principio di garanzia dell’intero territorio nazionale».
In pratica gli ha strappato dal capo l’elmo celtico.
«Be’… La perequazione non dura mica in eterno e riequilibra solo le spese per le materie essenziali: è la Costituzione che attribuisce allo Stato certi compiti».
E infatti, la Lega vorrebbe cambiarla la Costituzione. La devolution bossiana…
«A regime, gli Enti locali che ora hanno solo l’onore della spesa, dovranno accollarsi anche tutto l’onere delle tasse. E poi introduciamo il principio di responsabilità. Per cui d’ora in poi chi sbaglia e spende male, paga. Non saranno più consentiti sprechi. E soprattutto si passa dalla “spesa storica” ai “costi standard”».
Traduca.
«Una Tac fatta a Caltanissetta non potrà costare il triplo rispetto a quella fatta a Mestre».
I più critici sostengono che stabilire i “costi standard” per tutti i servizi sarà infernale…
«Nessuno ha detto che è una riforma facile. Ma noi la stiamo facendo».
Per farla accettare a tutti, prima di vararla, avete stanziato soldi a pioggia per i comuni.
«Erano coperture dovute».
Pure i 500 milioni per Roma capitale?
«Mica si può mettere in discussione lo status di Roma capitale».
Ha mai sentito l’espressione “Roma ladrona”?
«La Lega ha dimostrato buon senso».
E i 150 milioni di euro elargiti a Catania?
«Ecco, quelli sono stati visti con criticità».
È stata una cortesia al governatore siciliano Raffaele Lombardo?
«Catania ha bisogno di interventi strutturali. Sta per scoppiare una emergenza rifiuti. E poi ripeto: da ora in poi anche gli amministratori del Sud si dovranno mettere in riga. E su questo io sarò più leghista dei leghisti».
I sindaci e gli amministratori del Pd…
«Hanno collaborato con noi alla stesura del testo. I leader nazionali che ci criticano dovrebbero prima parlare con loro».
È vero che Gianni Letta le ha fatto un po’ da chioccia durante tutta la trattativa?
«Ha seguito i lavori. E dove c’è Letta, c’è una soluzione».
Sembra uno slogan pubblicitario.
«Letta è un esempio. Un punto di riferimento».
Non dovevate sancire l’alleanza Nord-Sud con una visita di Bossi a Otranto?
«Ehm… prima o poi verrà».
Bossi la chiama “furbacchione”.
«Sì. Me lo dice spesso».
Sarà per il suo passato nella Dc. Bossi non ama i “democristianoni”.
«Io al massimo sono un democristianino».
Quando ha cominciato a fare politica?
«A casa la politica c’è sempre stata. Mio padre era sindaco democristiano di Maglie, la mia città, quando io dovevo ancora nascere».
Il primo ricordo politico?
«A sei anni, la festa per l’elezione a consigliere regionale di papà. Io sono stato un bambino tranquillo fino ai dodici anni, ma poi…».
Ha avuto una adolescenza irrequieta?
«A scuola sono stato plurisospeso e pluririmandato. Rispondevo male ai professori».
Il classico figlio del politico arrogante?
«Ma no. Litigavo anche con i miei genitori. Ho avuto il periodo dello scapocchione. E giocavo a calcio. Ero un mediano piuttosto forte».
A Barbara Romano, di Libero, ha raccontato anche le sue serate nelle discoteche pugliesi.
«Nottate a ballare e corse in moto: la ruota davanti restava praticamente nuova. Capito?».
Il genietto dell’impennata. Ma la politica?
«A sedici anni, nel 1985, seguii tutta l’organizzazione delle Regionali per mio padre: dal palco del comizio ai volantini, fino all’affissione dei manifesti durante l’ultima notte di campagna elettorale. E lì erano botte».
Ne ha prese tante?
«E ne ho date parecchie. Dc contro Pci. Ogni tanto quelli del Msi intervenivano per salvarci».
Nel 1985 suo padre divenne presidente della Regione.
«E il 29 agosto 1988, il giorno dopo il mio diciannovesimo compleanno, morì in un incidente stradale, sulla strada per Taranto».
Dopo quella tragedia ha mai pensato di fuggire via dal mondo di suo padre: dalla politica, dalla Puglia…?

«Successe il contrario. Ai funerali di papà arrivarono migliaia di persone. C’erano i big della Dc Gava, Colombo e Lattanzio. Mi ritrovai in piazza, sul palco, a parlare. E in quel momento realizzai che avrei fatto il politico. Metto la giacca, la cravatta e cambio vita».
Prime elezioni?
«Le Regionali del 1990. Con un po’ di spocchia aspiravo da subito a fare il presidente».
Invece?
«Grazie a un buon lavoro tra i giovani e a un’ondata emotiva per la morte di mio padre, presi 75.000 voti. Record nazionale, a venti anni. Ma non mi diedero nemmeno un assessorato, perché ero l’ultimo arrivato».
Già a venti anni, da buon diccì del Sud, si piazzò dietro la scrivania a ricevere elettori?
«È la politica del territorio».
La cura del cliente. Che tipo di richieste arrivano?
«Di tutto. Una volta, una signora anziana mi chiese di intercedere presso un istituto di zootecnia per far ingravidare la sua cavalla. Pensai che fosse uno scherzo».
Ha mai pensato di interrompere la carriera politica per fare altro?
«Sì. Nel 1994. Dopo Tangentopoli pensai di lasciare. Essendo laureato in legge cominciai a frequentare lo studio notarile di uno zio».
Perché, dopo Tangentopoli?
«Le inchieste avevano travolto molti amici. Fu un’esperienza traumatica. Il terrore: ti venivano a prendere fuori dal consiglio comunale coi fotografi. Durante le riunioni al partito, ricordo le facce sbiancare ogni volta che bussavano alla porta. Molti degli arrestati erano, e si sono rivelati, innocenti».
Moltissimi politici erano corrotti.
«Per ragioni legate al caso… vennero indagati soprattutto quelli che, anche tra gli ex Dc, andarono da una certa parte. Quando ci fu la spaccatura del Ppi tra Buttiglione e Mancino, al momento di votare molti scelsero per convenienza più che per convinzione».
Sta dicendo che votarono per schierare il Ppi con la sinistra per non finire in galera?
«Questo lo ha detto lei».
È argomento abbastanza berluscone. Lei attualmente è indagato, a Bari, per corruzione.
«E per finanziamento illecito, tangenti e molte altre cose. Mancano solo omicidio e stupro. Sono tutte falsità».
I magistrati hanno chiesto il suo arresto.
«E io ho chiesto alla Camera di concederlo».
Cosa che puntualmente non è avvenuta.
«Ma guardi che io non scherzo. L’ho chiesto sul serio. Sono innocente e non mi va di passare per delinquente. Le indagini sono cominciate nel 2001, mentre ero presidente della Regione, sono finite nel 2008, e non c’è ancora un’udienza preliminare. Questa è la nostra giustizia. Berlusconi non dovrebbe riformarla?».
Quando ha conosciuto Berlusconi?
«Nel 1998. Quando Buttiglione fece l’Udr con Cossiga e Mastella, decisi di restare col centrodestra. Incontrai Pino Tatarella…».
Ex missino, morto nel 1999. Uno dei primi a pensare a una fusione tra An e Forza Italia.
«Lui, pugliese, mi portò a un incontro in via dell’Anima a casa di Berlusconi. C’era anche Letta. E da lì…».
Berlusconi l’ha chiamata: “La mia protesi”.
«Per dire quanto siamo uniti».
A proposito di unioni: in un partito unitario vorrebbe Teodoro Buontempo o Enrico Letta?
«Letta».
Casini o Borghezio?
«Scherza? Casini. Io non capisco perché l’Udc non voglia entrare nel Pdl».
Il ministro del Pd che toglierebbe dall’ombra?
«Letta. Abbiamo molti punti di convergenza».
A cena col nemico?
«Con Massimo D’Alema».
Le è mai capitato di andarci a cena?
«Andiamo avanti, la prego».
Racconti, racconti.
«Roba vecchia, non insista».
Insisto.
«È capitato alla fine degli anni Novanta. Nel periodo dei ribaltoni nei consigli regionali».
D’Alema la corteggiò politicamente?
«Eh, già. Chi si occupava dei ribaltoni? Ma la Puglia fu l’unica regione del Sud in cui non gli riuscì l’operazione. Mi offrirono di fare il presidente col centrosinistra, ma rifiutai. Mi proposero pure un posto da sottosegretario nel governo D’Alema».
Ma fu proprio il líder Massimo a farle le proposte?
«Non mi faccia dire… Lasciamo un generico “mi proposero”».
Perché rifiutò?
«Perché ho sempre considerato mortale l’abbraccio della sinistra agli ex democristiani».
Fioroni, Marini e Franceschini non la pensano così.
«Vogliamo scommettere a quale gruppo parlamentare si iscriveranno gli ex diccì eletti col Pd alle prossime europee?».
A quale?
«A quello socialista. Fagocitati. Gli tocca. Il partito popolare siamo noi del Pdl. Punto».
Negli Stati Uniti: Obama o McCain?
«McCain… L’ho stupita?».
Sì. Non vorrebbe un presidente giovane, della sua generazione?
«McCain rappresenta l’America profonda».
Ha settantadue anni.
«Ha i valori e le radici».
Anche Berlusconi ha settantadue anni.
«E la sua successione non è in discussione».
Figuriamoci. Non esiste un esponente del Pdl che abbia il coraggio di parlarne.
«Ci mancherebbe altro. Silvio regge due notti di fila in discoteca. È in forma».
Ma è al suo quarto governo e da 14 anni è leader del suo partito. Mai sentito parlare di ricambio generazionale?
«Berlusconi il ricambio lo sta favorendo, eccome. Ha rinnovato la classe dirigente. A parte i molti giovani eletti a Montecitorio, ha messo quattro ministri under 40 nel governo».
Sa che cosa si dice di voi quattro? Alfano, Carfagna, Gelmini e Fitto…
«Certo. Che siamo parte di un consiglio di amministrazione».
Che vi hanno piazzati lì perché giovani e malleabili.
«Invece Berlusconi ha fatto un giusto mix di freschezza d’immagine e competenza. Dite quel che vi pare, i giovani del Pdl sono bravi».
Bravi o no, Brunetta vi surclassa in popolarità. Favorevole ai suoi Di.Do.Re., le unioni civili?
«No. Ora è inopportuno parlarne. L’idea di Brunetta e Rotondi non è all’ordine del giorno».
La canzone della vita?
«Já sei namorar dei Tribalistas è quella mia e di mia moglie, ma poi mi piace Morricone».
Il film?
«C’era una volta in America, con musiche di Morricone, appunto».
Il libro?
«Leggo romanzi. L’ultimo è Il cacciatore di aquiloni, di Khaled Hosseini. E poi i quotidiani: quelli nazionali e quelli pugliesi».
Cultura generale. L’articolo 5 della Costituzione?
«La Repubblica, una e indivisibile, riconosce le autonomie locali».
Giusto. Quanto costa un pacco di pasta?
«A volte faccio la spesa con mia moglie, ma non sono un habitué. Circa un euro, diciamo».
I confini dell’Egitto?
«Israele, Sudan…».
E…
«Marocco?».
No. Libia.
«Bravo».

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