Jacques Séguéla (Magazine – marzo 2008)

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Il suo studio è zeppo di statuette, targhe e premi conquistati a suon di spot. Li vedi arrivando dall’ascensore, perché le pareti della stanza sono di vetro. E rendono pubblico ogni suo gesto. Jacques Séguéla, guru della pubblicità europea, 74 anni, mentre parla, appoggia le gambe sui braccioli della poltroncina hi tech. Come un ragazzino un po’ indisciplinato. Da qualche mese è sui giornali perché è l’uomo che ha fatto incontrare Nicolas Sarkozy e Carla Bruni, ma chi si occupa di comunicazione lo conosce soprattutto per i suoi slogan leggendari. Il più celebre è quello che accompagnò il trionfo di François Mitterrand nel 1981: “La forza tranquilla”. Sulla pubblicità e la comunicazione ha scritto libri su libri. Il primo è una specie di diario: Non dite a mia madre che faccio il pubblicitario. Lei mi crede pianista in un bordello (1979). L’ultimo è un manuale/saggio sulle presidenziali della Quinta Repubblica francese: La presa dell’Eliseo (2007). Séguéla prende in mano i fogli su cui sono stampati slogan e motti della nostra campagna elettorale e non riesce a trattenersi. La comunicazione del Popolo della Libertà per le politiche del 2008? «Berlusconi sembra l’ombra di se stesso». Il “Si può fare ” di Veltroni? «Deboluccio». La foto in bianco e nero di Santanchè? «Fa paura».
Fermi tutti. Partiamo dal manifesto principale del Pdl.
«Non voglio fare il saccentello, però… Mi cascano le braccia. Siamo tornati alle réclame vecchio stampo».
Non le piace “Rialzati, Italia”?
«Tecnicamente lo slogan è ineccepibile. Due parole, chiare. È molto di destra. Più di quanto lo sia mai stato Berlusconi. È imperativo, volontaristico, quasi violento. Troppo per questi tempi: oggi la comunicazione di un grande leader deve essere una specie di conversazione, coinvolgente. Il contrario di quanto ha fatto il Pdl. L’errore più grave però è l’immagine…».
Qual è il problema?
«È arcaica. Ci sono tre regole della comunicazione politica che sono intangibili».
La prima?
«Si vota l’uomo, non il partito. E nei manifesti per ora manca la faccia di Berlusconi».
Il suo staff dice che c’era l’esigenza di far conoscere il Pdl, una nuova alleanza.
«E che c’entra? Si vota comunque l’emozione che ti dà un volto. Per questo la campagna di posizionamento di Veltroni è più azzeccata».
C’è la faccia del leader del Pd e scritte come: “Non rientrate nel caos, voltate pagina”.
«Qui c’è un lavoro creativo vero».
Funziona di più la faccia di Veltroni o di Berlusconi?
«Berlusconi è più carismatico e penso che negli ultimi giorni la sua faccia la farà vedere soprattutto in tv. Sa come usare quello strumento e risultare familiare ai cittadini».
Veltroni?
«Nei manifesti è sorridente, accogliente. Funziona. E segue la seconda regola».
Cioè?
«Si vota per il futuro, non per il passato: voltate pagina. Fondamentale. È una campagna seria».
Lo slogan principale del Pd è “Si può fare”.
«Quello è un po’ moscio. Blando».
È simile allo “Yes, we can” di Obama.
«Scherza? “Yes, we can” ricorda lo slogan della Nike “Just do it”. “Si può fare” sembra un “Maybe, we can”. C’è una passività di fondo incomprensibile».
Passiamo ai partiti più identitari. Che hanno esigenze di comunicazione diverse da Pd e Pdl. Per Casini dell’Udc c’è la sua faccia e il motto: “Forti della nostra identità”.
«Campagna ben fatta, non troppo originale. Mi piace molto il gioco di parole “Io c’entro”».
È vecchio di un paio d’anni.
«Allora non vale».
La Sinistra arcobaleno. Metà manifesto rosso con su scritto “Fai una scelta di parte” e l’altra metà nera a rappresentare la destra.
«Interessante e nuovo. Bella l’idea della scelta partigiana. Manca una foto del leader».
Fausto Bertinotti.
«È una campagna più adatta alle riviste che non alla strada».
Daniela Santanchè della Destra. Foto in bianco e nero e scritta: “Io credo”.
«Il nero drammatizza la campagna».
La Destra drammatizza e usa slogan molto duri: “L’Italia agli italiani”.
«Ho capito. Ma i colori… e quella faccia un po’ scavata che sembra la Callas. Fa paura».
I simboli elettorali?
«Guardiamo i principali: quello del Pd è molto grafico. Quello del Pdl è più americano, funziona molto bene. Invece è pessima un’altra caratteristica molto americana della campagna berlusconiana: l’attacco all’avversario».
Dice: «La sinistra ha messo in ginocchio l’Italia».
«Negli Usa i candidati spendono decine di milioni di dollari per denigrare gli avversari. È un po’ un modello di democrazia che si spara sui piedi. I leader dovrebbero creare speranze».
Cose tipo: “Il nuovo miracolo italiano”?
«Le vecchie campagne di Berlusconi da questo punto di vista erano perfette. Ora sembra un po’ l’ombra di se stesso. Oggi in Italia c’è una anomalia che condiziona la comunicazione».
Quale?
«Nella sua testa Berlusconi ha già vinto. Quindi non fa più di tanto. Veltroni gareggia, ma sa che la rimonta è quasi impossibile. È un falso combattimento».
Non esageriamo.
«È così. E il popolo vota chi vuole vincere veramente. Mitterrand una volta mi ha dato una definizione straordinaria della sfida elettorale».
Dica.
«Viene eletto chi racconta al popolo il pezzo della sua storia che ha voglia di ascoltare in quel determinato momento. Con una condizione: essere l’eroe credibile di quella storia».
Applichiamo la definizione mitterrandiana ai candidati italiani.
«Berlusconi ha già avuto la sua chance di essere l’eroe e ha tradito l’aspettativa degli elettori. Veltroni, anche se ora perderà, sembra portare con sé un progetto di cambiamento e ha fatto una campagna per dimostrarlo».
Entrambi hanno reclutato industriali, militari, medici. Il Pd ha messo insieme l’operaio e l’imprenditore. E Berlusconi rinfaccia a Veltroni di avergli copiato il programma.
«Regola 3: non si vota l’ideologia, ma l’idea».
Quindi?
«Basta con destra e sinistra. Non esistono più le comunità monolitiche. Esistono comunità interclassiste e transgenerazionali. I programmi si distinguono per pochi particolari e diventano importanti le vibrazioni: soprattutto quando con queste si coinvolge il popolo dell’altro».
In che modo?
«Ormai ci sono mille piani su cui muoversi: internet, la tv, i manifesti. Ma nel momento in cui gli spazi televisivi sono regolamentati, torna importante essere sul territorio».
Veltroni sta facendo il giro del Paese in pullman. Berlusconi ha piazzato migliaia di gazebo nelle piazze italiane.
«Quella dei gazebo è una buona idea, ma un po’ pigra. Il pullman mi pare meglio. Gli elettori ti vogliono toccare. Nelle scorse presidenziali, una delle chiavi della vittoria di Sarkozy è stata proprio il porta a porta. Alla fine toccava tre città al giorno».
Lei all’inizio era a favore di Ségolène Royal e poi ha abbracciato la causa di Sarkò.
«Un creativo della mia agenzia, la Havas-Euro Rscg, per Royal aveva pure coniato uno slogan azzeccatissimo: “France, presidente”. Presidente, al femminile. Ma lei lo ha usato poco e male. Alla fine ho capito che Nicolas era l’unico capace di far ripartire la Francia».
È anche colpa sua, del suo ruolo di Cupido, se Sarkò ha perso le amministrative.
«Credo di aver partecipato più alla sua felicità che non al suo malessere».
Ai francesi tutta questa storia di Carla Bruni non è piaciuta.
«I francesi hanno fatto un matrimonio con Sarkozy. Sentivano che lui era disponibile 24 ore su 24. Di colpo hanno dovuto condividere le notti con Carla. Sono diventati gelosi e un po’ invidiosi».
Non è che il rapporto tra Sarkò e Carlà è una sua mossa di marketing politico riuscita male? Sarkozy stava per essere lasciato dalla moglie e così…
«Se dice questo vuol dire che non ha mai vissuto un colpo di fulmine. Io l’ho vissuto trent’anni fa. Sto ancora con la stessa donna e ho cinque figli. Il colpo di fulmine presidenziale l’ho visto in diretta. E sì che è stato un caso…».
Perché un caso?
«A quella cena di metà novembre 2007 che ho organizzato a casa mia per Sarkozy, insieme con Carla doveva venire il cantante Julien Clerc. Se lui si fosse presentato la storia sarebbe cambiata. Invece Nicolas si è messo accanto a Carla e i due hanno parlato per quattro ore senza filarsi gli altri presenti».
Come si diventa un guru presidenziale?
«Ho studiato farmaceutica. A vent’anni ho deciso di fare il giro del mondo su una “Due cavalli”. Quella è stata la svolta: tornato ho scritto un libro».
Ed è approdato al giornalismo.
«Ho fatto il reporter per Paris Match e il caporedattore di France soir».
E come è arrivato alla pubblicità?
«Guardi che è un passaggio piuttosto comune. Noi abbiamo molti ex giornalisti in agenzia».
La sua campagna pubblicitaria migliore?
«La prima. Per i motori Mercury. Mi venne in mente una vecchia foto del presidente Pompidou alla guida di un motoscafo con quei motori. La usai e successe un macello. Era la prima volta che veniva utilizzato un politico per una pubblicità».
Per Mitterrand. Nel 1981, “La force tranquille”, e nel 1988 “Génération Mitterrand”. Come nascono questi slogan?
«Per la “Forza tranquilla” c’è stato prima un lungo lavoro di introspezione con lo stesso Mitterrand. Lo vedevo tutti i lunedì per un’ora, dalle 12 alle 13, per capire bene che cosa volesse».
Che cosa voleva?
«Voleva fare una evoluzione e non una rivoluzione. Voleva trasmettere fiducia e dare serenità. Riferii queste sensazioni ai miei collaboratori. Uno dei creativi disse: “Mitterrand mi sembra una forza tranquilla”. Schizzai in piedi: “Ecco lo slogan”. Gli altri dicevano che non era abbastanza politico».
Lei ha detto che certi slogan funzionano per un presidente come per una saponetta.
«È vero. A patto che la pubblicità abbia una corrispondenza reale col prodotto, sia veritiera. E poi deve essere calata nel suo tempo. Oggi la “Forza tranquilla” non funzionerebbe».
“Génération Mitterrand” come nasce?
«Mitterrand nel 1987 mi chiamò all’Eliseo e mi confessò che non sapeva se si sarebbe ricandidato. Perché forse avrebbe ceduto il passo a Michel Rocard. Bisognava ideare qualcosa che andasse bene per tutti e due. Come immagine usai due mani che si stringevano, la mia e quella di mia figlia, che allora aveva un anno. Misi in giro la voce che la mano adulta poteva essere sia di Mitterrand sia di Rocard. Funzionò».
È vero che ha rifiutato di lavorare per molti capi di Stato?
«Sì. Ho detto di no al libico Gheddafi, all’austriaco Waldheim, all’haitiano Baby Doc e ad alcuni dittatori africani».
Scelte ideologiche?
«No. Etiche. Non so quanto la comunicazione abbia efficacia in politica…».
Ah, no?
«…be’, non è misurabile. Ma, se ne avesse, non sarebbe giusto mettere uno strumento democratico nelle mani di chi non lo è».
Ultime domande. Il libro della vita?
«Viaggio al termine della notte di Céline».
La canzone?
«Come si chiama quella famosa di Carlà? Ah, ecco: Quelqu’un m’a dit».
Il film?
«Il cacciatore di Michael Cimino».
Lo spot/film che avrebbe voluto girare e non ci è riuscito?
«Quello che doveva raccontare il passaggio dalla Russia sovietica a quella democratica. Un video su Boris Eltsin».
Perché non lo ha realizzato?
«Malgrado mi avessero detto che non avevano i soldi per pagarci, portai a Mosca la troupe per girare. La mattina delle riprese, aspettammo il presidente per tre ore. Lo spot terminava con Eltsin che apriva una matrioska da cui usciva una colomba bianca. Alla quarta ora di attesa andai a rintracciare il suo assistente. Gli spiegai che c’erano decine di persone venute da Parigi che aspettavano Eltsin in mezzo alla Piazza Rossa».
Che cosa le rispose?
«Che Eltsin prima voleva capire quanto gli avremmo dato per girare lo spot. Dissi ai ragazzi di smontare tutto e tornai a Parigi».

Categorie : interviste
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