Sergio Cofferati (Magazine – giugno 2007)

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Sulla sua scrivania di Palazzo d’Accursio, oltre a un mazzo d’aglio e a una statuetta di Tex Willer, Sergio Cofferati, 59 anni, tiene anche un puffo con la barba bianca e il berretto rosso. Probabilmente è un lascito del recente passato: di quando era lui, e non Veltroni, il Grande Puffo gauchista, il Conducator taumaturgo su cui tutta la sinistra faceva affidamento. Era lui che portava in piazza milioni di persone, parlava di un «Ulivo scaldacuori», e sembrava il predestinato a guidare il centrosinistra verso un radioso avvenire. La sua favola (che lui nega di aver mai vissuto) si infranse contro le resistenza della nomenklatura diessina e nel 2004 Cofferati decise di accettare la candidatura a sindaco di Bologna. Vinse. E cominciò una battaglia per la legalità cittadina che gli ha attirato l’inimicizia della sinistra antagonista e le critiche di moltissimi ex ammiratori. Il ministro dell’Università Fabio Mussi, antico fan, ora gli ha suggerito di non eccedere con lo stile Law and Order. Alcuni studenti hanno creato spazi «decofferatizzati». Franco Bifo Berardi, leggendario leader settantasettino, sul Manifesto ha scritto un tazebao illuminante: «Liberiamoci di Cofferati». Stefano Benni e altri intellettuali bolognesi, infine, hanno comprato una pagina di alcuni quotidiani locali per protestare contro il «Decisore infallibile»: un podestà che non ascolta gli alleati e i cittadini e procede a testa bassa.
Il problema è che questo procedere il Decisore lo teorizza: «Una volta concordato un programma e trovato un punto di equilibrio, chi ha responsabilità di governo deve andare avanti». È un principio che Cofferati, esponente del comitato dei 45 del Partito democratico, vorrebbe vedere applicato anche a livello nazionale.
Sui Dico, Prodi e il governo…
«Raggiunta la mediazione a cui avevano lavorato Rosy Bindi e Barbara Pollastrini, si doveva andare avanti. In Italia c’è questo rito barocco, per cui una volta presa una decisione si torna a discuterne all’infinito».
Il ministro della Giustizia Mastella minacciava spaccature.
«Le coalizioni ampie hanno le loro sofferenze quotidiane. Ma oltre che trovarle, le mediazioni vanno confermate e rispettate».
Mancavano i numeri in Senato…
«In Senato, vista la situazione, si sa che c’è una strettoia. Nel momento in cui il governo decide di dare priorità ai Dico…».
Lei da due anni ha una nuova compagna, Raffaella Rocca, che ha 36 anni. Se ci fossero fareste un Dico?
«No. Una volta completate le pratiche di divorzio dalla mia ex moglie, l’obiettivo è risposarmi».
Raffaella aspetta un figlio…
«Maschio. Nascerà a novembre».
Raffaella vive a Genova.
«Lavora con robuste gratificazioni al Teatro Stabile…».
Servirà una Tav Genova-Bologna.
«La poveretta quando viene in treno prende l’interregionale veloce, che va a sessanta all’ora. Ci mette quattro ore».
Lei sarà padre a sessant’anni.
«Una scelta felice e consapevole. So che sarà faticoso. I bambini sono esigenti».
Ha memoria di queste esigenze?
«Come no! Simone, il mio primo figlio è nato nel 1972, ricordo bene che nei primi mesi non dormiva mai».
Gli anni Settanta a Milano. Da padre, ma anche da gruppettaro. È vero che lei era nel servizio d’ordine del Movimento studentesco di Mario Capanna?
«Ero nella squadra 5: un gruppo che si occupava di una zona adiacente alla stazione centrale. Organizzavo i dibattiti e l’attacchinaggio. Guardi che per attaccare bene un manifesto bisogna essere bravi».
Certo. L’ha mai tirato un sampietrino?
«No. E penso che molti di quelli che hanno raccontato le loro gesta avventurose si siano inventati qualcosa di troppo».
Lei, tra le polemiche, si è detto favorevole a intitolare una via bolognese a Sergio Ramelli, militante missino ucciso a Milano nel 1975.
«Ramelli è stato vittima di un insensato odio politico. È necessario non dimenticare quella vita stroncata».
Torniamo alla squadra 5…
«Ero un militante semplice».
A parte Capanna, nel Ms c’erano Alfonso Gianni, che ora è in Rifondazione comunista, la diessina Barbara Pollastrini…
«Li ricordo entrambi. Quella era soprattutto una Milano in cui l’industria aveva un peso rilevantissimo. Il mito dell’operaio tra i contestatori aveva tratti che a posteriori appaiono piuttosto buffi».
Perché?
«Intellettuali e studenti pensavano che gli operai fossero rivoluzionari. Mentre a Milano gli operai organizzati sono sempre stati riformisti. L’adorazione per la tuta blu sfociava in siparietti ridicoli».
Per esempio?
«Un giorno una compagna intervenne nell’Aula magna della Statale per riferire l’attività del suo gruppo: “Compagni, ieri alla Comasìna… il popolo della Comasìna… le strade della Comasìna”. Alla quarta volta che diceva Comasìna con l’accento sulla i, Capanna la interruppe: “Compagna, stai sbagliando l’accento. Si dice Comàsina”. E la ragazza, seccata: “Compagno Mario, sbagli tu: la classe operaia dice Comasìna”. Capanna si zittì».
L’infanzia nel paesino di Sesto e Uniti?
«Bella, ma fredda. Sono nato e ho vissuto in un mulino. Ricordo la ruota bloccata perché l’acqua del fosso si ghiacciava».
A Milano quando ci arriva?
«A dieci anni. Superiori all’Istituto Feltrinelli. Servizio militare nell’artiglieria contraerea e ingresso alla Pirelli nel 1969: stabilimento cavi. Cronometro alla mano, registravo la produttività delle macchine e di quelli che lavorano alle macchine».
Il cottimista. In pratica era un controllore.
«Era un lavoro vicino all’organizzazione aziendale».
Vigilava sui lavativi.
«No. Compilavo queste tabelle coi tempi…».
Veniva contestato dai sindacalisti?
«Quasi sempre. Poi sono entrato nel consiglio di fabbrica e dai cavi sono passato all’esecutivo».
Il primo comizio?
«Il primo intervento pubblico fu a un congresso della Cgil. Era il 1973. Avvicinandomi al palco inciampai e cadendo smontai gran parte dell’arredo. Luciano Lama scoppiò a ridere. Ma poi fu molto affettuoso e mi tolse dall’imbarazzo».
Le lotte alla Pirelli…
«In quel periodo non lavoravo più in produzione, ma qualcuno sosteneva che il mio lavoro non fosse compatibile con il ruolo sindacale».
È lì che nasce il mito del Cofferati amato dai padroni?
«No, quello viene dopo, quando divento sindacalista a tempo pieno. Ma che cosa si intende per “amato”?».
Non è una lusinga.
«Ho avuto rapporti di stima con Leopoldo Pirelli e buone relazioni con molti presidenti di Confindustria: Luigi Abete, Giorgio Fossa. Con Antonio D’Amato è andata peggio».
Con gli altri sindacalisti?
«Contrariamente a quel che poteva apparire all’epoca, ho un rapporto di affetto con Savino Pezzotta».
Ex Cisl che ora vuole aggregare i cattolici al centro. Ci riuscirà?
«Mi pare difficile, ma lui è uno parecchio determinato».
Lo è anche un altro suo ex collega, Fausto Bertinotti…
«Con Fausto siamo amici…».
Dicono tutti così.
«È la verità. Ma a parte il tifo per Fausto Coppi, non siamo mai andati d’accordo su nulla».
Il litigio più duro?
«A fine degli anni Ottanta. Lui aveva fatto un accordo con Cisl e Uil che non condividevo. Al tavolo ovale eravamo compagni di banco nella segreteria della Cgil. Ci fu uno scontro vivace. Nel corridoio al secondo piano di corso Vittorio ancora se lo ricordano».
Si dice che Bertinotti, appoggiando il referendum per l’estensione dell’articolo 18 nel 2003, abbia disinnescato la lunga marcia cofferatiana…
«Non è così. Ma c’è da dire che quella posizione massimalista, come era successo per le 35 ore, ebbe l’effetto di produrre un arretramento: per colpa di quel referendum si è bloccato pure l’iter di una proposta di legge, portata avanti dalla Cgil con cinque  milioni di firme, per la tutela dei diritti dei precari. Non sarebbe male se il governo Prodi la rispolverasse».
Se lei fosse uno dei candidati alla leadership del Pd che cos’altro metterebbe nella sua agenda?
«Lo sviluppo sostenibile. La conoscenza. E le liberalizzazioni. Troppe volte in Italia si è privatizzato senza prima aver creato il mercato».
È un rimprovero che fa a D’Alema e ai suoi «capitani coraggiosi» che acquisirono Telecom?
«L’ordine logico dovrebbe essere: prima si liberalizza, poi si privatizza».
Ci saranno molte liste alle primarie per la Costituente del Pd?
«Ci saranno molte liste territoriali».
Lo sa che ce ne sarà una quasi interamente di 30-40enni? Si chiamerà iMille. Ci saranno Luca Sofri, Ivan Scalfarotto, Mario Adinolfi…
«iMille? Un nome che evoca Garibaldi. Ha fascino. Mi sembra utile che qualcuno sottolinei la questione giovanile».
Ci saranno anche molti candidati leader?
«Con Veltroni in campo il numero dei candidati si ridurrà drasticamente».
L’errore della vita?
«Uno tra tanti: non essermi laureato».
Negli Usa: Hillary Clinton o Barack Obama?
«Da qui direi Hillary. Ma se fossi là direi Obama».
Perché?
«Perché l’Italia avrebbe bisogno di un robusto segnale come una leadership femminile».
Negli Stati Uniti, invece…
«Un uomo di colore con la storia di Obama sarebbe un elemento di novità ancora più forte».
Rudolph Giuliani o Hillary?
«Hillary, ovviamente, anche se Giuliani è persona rispettabile».
Giuliani, come lei è stato un sindaco (di New York) con l’etichetta Law and Order…
«Non lo considero rispettabile per la comunanza di appellativi».
Anche il centrosinistra italiano si è infatuato di Sarkozy.
«Sarkozy è espressione di una linea politica che non condivido, ma porta con sé tratti di novità».
Per esempio?
«Il pragmatismo. L’azione sconnessa dagli interessi di breve periodo. La ricerca nel campo avverso di persone autorevoli».
Come il socialista Bernard Kouchner. Peschi anche lei nel campo avverso.
«Nel 1994, da segretario della Cgil mi scontrai duramente con il governo Berlusconi. Beh, di quel governo stimavo Pinuccio Tatarella, Giuliano Ferrara…».
…che curava i Rapporti con il Parlamento…
«…e Gianni Letta. Con loro c’era rispetto reciproco».
A cena con il nemico?
«Berlusconi mi invitò a cena. Risposi con un verso del Don Giovanni: “Non si pasce di cibo mortale/ chi si pasce di cibo celeste”. A parte gli scherzi, incontro spesso Letta in teatro».
Sliding door…
«Se fossi rimasto alla Pirelli e alla Fondazione Di Vittorio…».
Che cosa sarebbe successo?
«Probabilmente il partito mi avrebbe proposto una candidatura alle Europee».
Pochino, visto che cosa rappresentava Cofferati nel 2003.
«Per me la politica è servizio».
Certo. Delete…
«Posso cancellare il numero dello scocciatore che sta chiamando ora?».
No. Massimo D’Alema o Walter Veltroni?
«D’Alema o Veltroni? Eh eh… Nel 1994, quando ci fu da sostituire Achille Occhetto al vertice del Pds, io ero appena stato eletto segretario della Cgil. Venni consultato da Fassino…».
…allora Segretario organizzativo…
«Mi chiese: “Tu preferiresti D’Alema o Veltroni?”. Risposi D’Alema e la cosa destò qualche sorpresa. Io sostenevo che D’Alema aveva caratteristiche giuste per il partito e che Veltroni sarebbe stato meglio nel governo».
Detto, fatto.
«A pensarci bene ora si invertiranno i ruoli. Comunque non cancello nessuno dei due».
L’ultrapolitico Pierferdinando Casini o l’antipolitico Luca Cordero di Montezemolo?
«Avrei cancellato Casini. Ma dopo le dichiarazioni di Montezemolo sul sindacato, faccio molta fatica…».
Rosy Bindi o Anna Finocchiaro?
«Uhm. Cancello Bindi. Che è l’unica di cui ho davvero il numero di telefono».
Cultura generale. Che cosa è la paranza?
«È una danza… la canzone di Daniele Silvestri».
Quanto costa un pacco di pannolini?
«Non azzardo la cifra anche perché gli ultimi pannolini li ho comprati in lire negli anni Settanta».
Che cosa è Second Life?
«Non ne ho idea».
Una vita virtuale on line… Potrebbe entrarci col nomignolo di Gengis Khan…
«… quello è il soprannome che mi diede D’Alema».
… o Cinese…
«Quello me lo diede Alberto Statera quando stava ancora alla Stampa. Venne alla Cgil per fare un’intervista con Bertinotti. Fausto fece tutte dichiarazioni antiCgil. Allora Statera cercò qualcuno più misurato».
E la chiamò Cinese…
«Esatto. Per gli occhi e la moderazione».
Ultima. Che cosa è Beijing?
«Pechino!».

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Pensando a Stefania Prestigiacomo che nel 2001 arrivò alle Pari Opportunità fresca di parto e aprì subito un kinder garden ministeriale, interrogo il sindaco di Bologna sulle sue intenzioni col nascituro. «Farà aprire un nido in Municipio?». Parlare di asili in Emilia è un invito a nozze. E allora ecco Cofferati scarabocchiare su un foglietto le percentuali record dei posti assegnati alle materne sotto le Due Torri. Ripeto: «Ma ne farete uno anche in Municipio?». La risposta la dà Paola Frontera, portavoce del Cinese: «Per aprire un micro-nido servono almeno tre bambini. Visto che anch’io ne aspetto uno, dobbiamo trovare un terzo nascituro. E poi ci organizziamo».

Categorie : interviste
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