Carlo Petrini (Magazine – agosto 2007)

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Prendete un ragazzone delle Langhe. Fatelo pascolare sulle sponde del Tanaro al ritmo di vecchi canti popolari. Quando è cresciuto bello robusto, aggiungete un pizzico di barricate anni Settanta, un cucchiaio di giornalismo militante e due etti di libri di enogastronomia. Cuocete una prima volta sulla fiamma viva delle zingarate di provincia e una seconda sul fuoco lento della biodiversità. Annegate il tutto in una botte di Barolo. Verrà fuori Carlo Petrini, 58 anni, fondatore del movimento Slow Food. C’è chi lo considera un astuto goliardo e chi lo segue come un guru. C’è chi pensa che sia solo uno che ha trovato il modo di fare affari spilluzzicando leccornie very local e chi gli attribuisce idee che potrebbero cambiare il mondo. Fatto sta che quando Petrini è finito nel Comitato dei 45 saggi che ha deciso le regole per le primarie del Partito democratico, si è aperto un piccolo scandalo: qualcuno l’ha considerato il naturale ingresso di una fetta di società civile nell’ultima stanza ritinteggiata del potere e qualcun altro si è chiesto che diritto avesse di stare lì. I più maligni hanno concluso che la sua presenza era la garanzia che sarebbe finito tutto a «tarallucci e vino».
Lui, che si divide tra Vandana Shiva, la leggenda indiana dell’ecologia sociale e i microcoltivatori delle Langhe, ora considera esaurito il suo ruolo nel Pd.
Sicuro?
«Sono saggio, no?».
Il cuoco Gianfranco Vissani ha insinuato che lei punta a un ministero «democratico».
«Follie. Detto ciò, alcune reazioni alla mia nomina nel Comitato mi hanno fatto male».
È la politica, baby.
«Consideravo l’adesione una concessione amichevole. E questi mi contestano?».
Anche il sindaco torinese Sergio Chiamparino ha avuto da ridire.
«Forse è caduto anche lui nell’equivoco per cui chi si occupa di gastronomia è un fancazzista ubriacone e quindi è meglio che non si occupi di politica. Poi però mi ha telefonato. Scherzando mi ha chiesto: “Carlin… la linea politica?”».
La risposta?
«Mavvaf…».
Risultato?
«Condivido tutte le regole delle primarie, tranne un punto».
Quale?
«Le liste bloccate. Una cosa da pazzi: è il principio più contestato di quella “porcata” di legge elettorale in vigore. Doveva vedere quelli della maggioranza…».
Ds e Dl?
«La maggioranza, sì. Doveva vedere come erano compatti su questo punto: blocca qui, blocca lì».
Chi voterà alle primarie?
«Non lo dico neanche sotto tortura. Vengono in processione: mi chiedono di fare una lista per appoggiarli».
Lei è considerato prodiano.
«In realtà nel Comitato mi ci ha voluto Piero Fassino. Mi chiamò mentre ero nel North Carolina per un ciclo di conferenze. Con Piero siamo amici da trent’anni».
È vero che eravate in vacanza insieme quando è scoppiato il caso Unipol?
«Era il Natale del 2005. Stava per esplodere il bubbone. Piero decise di rimandare la sua partenza per il Messico. Lui è sempre stato così: un calvinista subalpino. Lo abbiamo convinto a volar via: destinazione Puebla».
La sua gavetta?
«Comincia col cordone ombelicale ancora attaccato: l’ostetrica che mi ha fatto nascere si chiamava Gola».
Sembra una trovata del marketing di Slow Food.
«Lo giuro. Madama Gola, che era pure un bel donnone, ha fatto vedere la luce a due generazioni di braidesi. Mia madre era direttrice d’asilo, mio padre artigiano elettrauto».
Scuole?
«Istituto tecnico. Alla maturità il professore di Meccanica mi disse: “Ti promuovo se giuri che non farai il perito”. Giurai. E mi iscrissi a Sociologia. A Trento».
La facoltà barricadera.
«Ricordo Mauro Rostagno e Marco Boato».
Che poi divennero dirigenti di Lotta Continua.
«Io ero di Avanguardia proletaria maoista».
Mai tirato il sampietrino della contestazione?
«Mai e poi mai».
Non è che spunta la foto?
«La foto? Sì, in osteria. Avevo altro per la testa. Ero studente lavoratore. Facevo il rappresentante di commercio: vendevo detersivi e cioccolata. Quella fu una grande scuola di affabulazione».
Petrini l’affabulatore.
«Mi si rimprovera anche questo».
Le si rimprovera di criticare l’industria alimentare e il mercato, per poi vendere il prodotto culturale Slow Food.
«Io sono per la qualità».
La qualità è cara e quindi di nicchia.
«Basta con ’sta nicchia. La qualità è una scelta. Le famiglie italiane nel 1970 spendevano per il cibo il 30% degli stipendi. Ora siamo al 14%. La qualità promossa da Slow Food imporrebbe una spesa del 18%».
Quindi?
«Se molti italiani mangiano schifezze è solo perché alla qualità alimentare preferiscono una maglietta griffata. Senza contare che con i prodotti locali, oltre a proteggere la bio-diversità, si risparmia in trasporti e quindi si riduce l’inquinamento».
Altro rimbrotto: lei fa i miliardi con l’ideologia slowfoodiana.
«Primo, la mia non è un’ideologia, ma un’idea di nuova gastronomia e sostenibilità ambientale. Secondo. Sono disponibile: chiunque voglia fare a cambio col mio conto corrente…».
Bluffa.
«No guardi. Seguo il precetto di un vecchio contadino: “Non aspiro a diventare il più ricco del camposanto”».
Dopodiché la realtà può superare le aspirazioni. Torniamo alla gavetta.
«Dopo aver comprato un radio baracchino al mercato di Livorno, io e i miei amici Azio Citi e Giovanni Ravinale, il 17 giugno 1975 diamo vita alla prima radio non commerciale in Italia: Radio Bra Onde rosse. Come sigla alternavamo l’Internazionale e Pablo di Francesco De Gregori. Eravamo clandestini. A luglio ci chiusero. E ci sequestrarono la radio».
Fine della Radiopetrini Story?
«Macché. Ne comprammo un’altra, a Napoli. Ricordo la polizia postale che girava per le Langhe con il radar per scovarci. Per solidarietà Dario Fo si trasferì a Bra tre settimane. Diceva: “La radio locale è il ciclostile del Duemila”. Ci sequestrarono anche quella. Con la terza ci trasferimmo in una zona dove c’era un pretore “democratico”. Anni di musica e scherzi».
Allora è vero che è un goliardo.
«Ho sempre cercato di divertirmi. Con Azio e Giovanni una volta abbiamo performato in diretta Rai. Io faccio parte del Club Tenco da sempre. Alla fine degli anni Ottanta, Guccini & Co ci chiesero di partecipare proprio alla rassegna. Ci presentammo in smoking con il numero dei Madrigalisti d’Oltretanaro».
Tipo Amici miei…
«Siamo saliti sul palco dopo Battiato».
Mavvaffanzum e cose simili?
«Prima il pezzo struggente Amore ti lassio, me ne vado ad Alassio, poi la pastorale Pun Pin e infine il blues maccheronico In the Langa».
Ma la politica?
«Col Pdup. Nel 1975 venni eletto consigliere. Il giorno delle amministrative si presentò al seggio la nostra concittadina Emma Bonino: si voleva fare arrestare per la sua battaglia sull’aborto. I carabinieri dicevano: “Ma perché dovremmo metterla dentro?”. Alla fine la presero e lei venne immortalata accanto a un maresciallo mentre fa il segno del potere femminile».
La svolta gastronomica quando arriva?
«All’inizio degli anni Ottanta. Dopo aver organizzato la rassegna di musica popolare “Canté j’euv”, ero entrato nella direzione nazionale dell’Arci. Il leader era Enrico Menduni. Gli proposi di creare Arcigola. Erano gli anni in cui da quell’associazione sbocciava pure la Legambiente di Ermete Realacci».
Con Realacci siete in buoni rapporti?
«Siamo amici e aderisco alla sua associazione Symbola. Per molti anni lui è venuto in vacanza nelle Langhe insieme con Paolo Gentiloni. Belle forchette».
La sua sliding door?
«Quando affronto la storiografia degli Annali francesi: un approccio che mi spinge verso la cultura materiale, che poi sarebbe la gastronomia. Nel 1986 faccio un viaggio di studio in Borgogna. Scopro come i francesi mettono in rete la cultura del cibo. In quei mesi le Langhe erano in crisi da metanolo».
Lo scandalo del vino avvelenato. Ci furono 19 morti.
«C’erano produttori disperati. La gente piangeva per strada. Stefano Bonilli venne in Piemonte a seguire il caso. Era inviato della trasmissione Di tasca nostra. Con Arcigola lo premiammo. Poi, dato che tutti e due collaboravamo col Manifesto, ci venne l’idea di un inserto sul vino e sulla cucina».
Il Gambero rosso.
«Esatto. Quel nome venne fuori perché durante il viaggio per arrivare nelle Langhe, Stefano si era fermato a San Vincenzo nel ristorante il Gambero rosso di Fulvio Pierangelini. In quegli anni nasce anche Slow Food: a Parigi presentammo il manifesto “di tutti coloro che vogliono vivere meglio”. La slow life contrapposta alla fast life. Noi ci abbiamo pensato prima di Milan Kundera e di Remo Bodei. Tra i firmatari c’erano Staino, Francesco Guccini, Dario Fo, Valentino Parlato».
Ora ci sono iscritti in tutto il mondo. È una lobby.
«Ma quale lobby».
Avete amici a destra e a sinistra.
«L’ambientalismo e l’ecogastronomia sono trasversali».
Lei fino a poco tempo fa era pappa e ciccia con Gianni Alemanno, ex ministro dell’Agricoltura.
«Un socio Slow Food e un ottimo ministro. Questa storia della contrapposizione armata tra gli schieramenti è un retaggio degli anni ’70. Non la accetto».
Chi altri apprezza nel Polo?
«Letizia Moratti: da ministra mi ha permesso di aprire l’Università della Gastronomia a Pollenzo. E Enzo Ghigo, ex presidente della Regione Piemonte».
Da lui ha preso i soldi per l’Università e la Banca del Vino e poi durante la campagna elettorale per le Regionali ha appoggiato la sua avversaria Mercedes Bresso.
«Mica potevo rinnegare le mie idee per Ghigo».
Anche Carlo d’Inghilterra è slowfoodista.
«Ormai è un amico. È un uomo che appare meno di quello che è. Sarà un grande Re».
Come lo ha conosciuto?
«È venuto a Pollenzo. Durante la manifestazione Terra madre: un meeting con cinquemila contadini di tutto il mondo. Persone che tutelano il territorio e le tradizioni alimentari del pianeta e che ora sono in rete».
Altri insospettabili slowfoodisti?
«Melinda Gates, moglie di Bill, mi dicono sia una nostra sostenitrice. E poi il conservatore David Cameron. È venuto alla presentazione della sede inglese».
A Downig Street: David Cameron o Gordon Brown?
«Brown, che appena insediato, ha messo il quarantunenne David Miliband agli Esteri. Pare ci apprezzi anche Miliband».
Negli Usa: Hillary Clinton o Barack Obama?
«Obama. Hillary non gode di grande stima tra i soci democratici americani di Slow Food. È più seguito Al Gore».
Al Gore mica si è presentato alle primarie.
«All’ultimo minuto farà un test in due Stati per capire se è il caso. Sull’ambiente lui è fortissimo».
A cena col nemico?
«Giulio Tremonti. Ho sempre pensato che fosse irritante, ma l’ho sentito a un dibattito… Mi sono ricreduto».
Il peggior ministro di questo governo?
«Non mi voglio trovare in imbarazzo».
Gastrodoroteo.
«Questo governo sta in piedi con lo sputo. Tutti potrebbero fare meglio, ma appena si muovono finiscono sotto ricatto».
Lei contrappone spesso il polposo peperone di Carmagnola con l’insipido ma luccicantissimo peperone olandese. Il politico biodiverso, polposo e con l’immagine meno luccicante?
«Molti tendono a scordarsi dell’impegno, della polpa, che Fassino ha messo nella costruzione del Pd».
Un bicchiere con Beppe Fenoglio o con Cesare Pavese?
«Sono due momenti dello spirito. Ma sceglierei Fenoglio, più langarolo e viscerale. Pavese è più universale».
Delete. Cancelli un numero dal suo cellulare: Veltroni o Fassino?
«Cancello Veltroni, Fassino è un vero amico».
Chiamparino o Cofferati?
«Ahi ahi. Sono mal messo. Mi faccia pensare… Ma che gioco del cavolo… Non posso rinunciare ai loro numeri».
Alfonso Pecoraro Scanio o Ermete Realacci?
«Mannag… Ma gli altri intervistati rispondono?».
Sempre.
«Vabbé, cancello Pecoraro Scanio».
Che cosa è Second Life?
«Una realtà virtuale dove si fanno anche alcuni affari. Ma io sono analfabeta informatico. Scrivo gli articoli a penna, sui block notes».
I confini di Israele?
«Siria, Giordania, Egitto e Libano».
Giusto. Quanto costa un litro di latte?
«Ora la frego. Prenda appunti: scremato 0,80 euro, parzialmente scremato 1,30 e quello con aggiunta di Omega 3 può arrivare a 2,50. Ora scrive tutto eh?».
Certo. Il prezzo di un hamburger in un fast food?
«Duemila lire?».
Per Carlin Petrini, quella dell’hamburger è una dimensione talmente lontana che lui la immagina col vecchio conio.

LINK:

Incontro Carlin Petrini in un mega complesso ristrutturato di Pollenzo, fatto costruire da Carlo Alberto nel 1833, e che ora è la sede dell’Università della Gastronomia e della Banca del vino. Ci sono anche un albergo e due ristoranti. A tavola mi accorgo che Petrini non beve vino. Al massimo si bagna le labbra. «Ho avuto un guaio al fegato. Ma ora sono anche più raffinato come estimatore di bianchi e rossi». Possibile? «Certo, è tutto un esercizio di memoria sui dati del gusto olfattivo. Senza troppi svolazzi di fantasia». In che senso? «Beh una volta ho sentito uno che diceva: “In questo Pinot sento il sudore del cavallo in corsa”». E che cosa gli ha detto? «Mavvaf…».

Categorie : interviste
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