Sergio Chiamparino (Magazine – marzo 2007)

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Sergio Chiamparino, 58 anni, sindaco ulivista di Torino al secondo mandato, è il prototipo del democrat nostrano: sì alla Tav, sì a più truppe in Afghanistan, ma anche sì ai Dico. Si autodefinisce ichiniano in materia di welfare, nel senso che, come per l’economista Pietro Ichino, i licenziamenti non sono un dramma («Se ci sono gli ammortizzatori sociali»). E sulle liberalizzazioni appoggia l’agenda Giavazzi. Aldo Cazzullo, sul Corriere della Sera, lo ha incoronato così: «È in testa alla lista dei politici di sinistra da chiamare per sentire cose di destra».
Chiamparino dice che «ama la malinconia». E non è un caso che, anche a causa di una certa somiglianza, per molto tempo sia stato soprannominato Endrigo. Come il cantante Sergio: «La festa appena cominciata / è già finita». Dopodiché, dietro lo sguardo pensoso e un po’ abbacchiato, il sindaco nasconde la durezza del figlio di operaio che fa politica da quarant’anni: il governo cede alle alzate di voce di Letizia Moratti che chiede più polizia e organizza cortei? E lui rilascia un’intervista a Massimo Gramellini sulla Stampa in cui dichiara che attualmente «non farebbe campagna elettorale per questo centrosinistra». Poi bacchetta pure la collega milanese colpevole di «eccesso demagogico».
Moratti demagoga?
«Su temi come la sicurezza, bisogna evitare la deriva populista. E poi Milano è governata da 14 anni dal centrodestra. Moratti è stata pure ministro…».
Quindi?
«Beh, chiedere oggi 500 agenti in più, dico 500, in pratica un battaglione di alpini, mi pare sia oltre il senso comune».
Voi sindaci avete il vizio di usare la tribunetta locale per fare polemiche a livello nazionale. E non sempre la visibilità è proporzionale alla qualità dell’amministrazione.
«Ci sono casi di ottima amministrazione con poca visibilità».
Un esempio?
«Giuseppe Pericu, primo cittadino di Genova. Lui è eccellente. Non appare molto, anche perché penso che finito l’incarico voglia tornare ad occuparsi di diritto».
Casi di pessima amministrazione con troppa visibilità?
«Non faccio classifiche».
Qualcuno che usa più degli altri la comunicazione cittadina a fini politici…
«Beh, il caso Moratti mi sembra evidente».
E poi?
«Veltroni. Ma è normale che sia così. È il sindaco della capitale: le sue posizioni sono sempre politiche».
Si dice: il meglio della politica viene dalle amministrazioni locali. Faccia un governo di sindaci.
«Pericu alla Giustizia, Iervolino alla Difesa, Domenici alle Riforme, io all’Economia, Cacciari alla Cultura, Cofferati agli Interni e Veltroni premier».
Veltroni, lei lo ha indicato come possibile leader dell’Ulivo, in ticket con Enrico Letta.
«Lo dissi due anni fa, a Praga, dopo una bevuta a tavola con dei giornalisti».
Da sobrio ripeterebbe l’investitura?
«Aggiungerei, come possibili leader, Massimo D’Alema, Piero Fassino, Francesco Rutelli e Dario Franceschini. Il problema però è capire che cosa vogliono farne del Partito democratico questi leader. Per ora vedo un eccesso di tatticismo».
Si spieghi.
«Uso l’arrampicata alpina come metafora».
Prego.
«Nell’arrampicata non si dovrebbe mai muovere una mano se non si ha l’altra e i piedi solidamente attaccati alla parete…».
I leader del centrosinistra sembrano avere tutti e quattro gli arti saldati alla roccia…
«…ecco. Quando si sta così aggrappati, cominciano a tremare i muscoli. E soprattutto non ci si muove. È una posizione parecchio scomoda».
Morale…
«Mi sembra che sul Partito democratico siano tutti d’accordo sul percorso da intraprendere, ma poi stanno lì fermi che si studiano a vicenda. Prima o poi qualcuno dovrà scattare in avanti…».
Intanto c’è chi ha detto che nel Partito democratico non ci vuole entrare… Cesare Salvi e Fabio Mussi della sinistra Ds…
«Se si vuole fare un partito che abbia una prospettiva solida per il futuro e che allarghi, anche variandolo, l’elettorato, è normale mettere in conto di perdere qualche pezzo. Ma se ne possono coinvolgere altri».
Quali?
«Non so… Guido Crosetto, piemontese di Forza Italia e Michele Vietti dell’Udc. Sono persone con cui mi sono trovato spesso d’accordo. Ma anche i socialisti di Boselli e Intini. Guardi, se il Partito democratico sarà la semplice alleanza tra Ds e Margherita, prima di tutto c’è il rischio che finisca come il patto confederale tra sindacati: dopo qualche anno ognuno per i fatti suoi. E poi ci dovremo rassegnare a discussioni quotidiane defatiganti».
Tipo quelle tra la teodem Paola Binetti e l’ultralaico Franco Grillini.
«Altra cosa, invece, sarebbe la costruzione di un partito a partire da alcuni fondamenti culturali comuni. Cambiando le proporzioni, io sarei per tornare agli anni Sessanta».
Cioè?
«Un partito comunista, ma più piccolo, che oggi potrebbe essere la Sinistra europea».
Con Bertinotti, Salvi…
«Una Dc, anche questa più piccola, dove far confluire l’area centrista di ispirazione prevalentemente cattolica».
Chi ci vedrebbe bene?
«La stessa Binetti, ma anche Pierferdinando Casini, Clemente Mastella, Rocco Buttiglione».
E poi un partito socialista?
«Che oggi sarebbe il Partito democratico».
Uno come Ciriaco De Mita dove dovrebbe finire?
«Nel partito centrista. Dario Franceschini ed Enrico Letta invece nel Pd. Di Enrico penso spesso: “Ma perché siamo in partiti diversi?”. Tra l’altro un Partito democratico aperto, sarebbe naturalmente predisposto al ricambio generazionale. Che è qualcosa di diverso e più profondo del ringiovanimento periodico che faceva il Pci».
Lei approfittò di una di queste fasi di ringiovanimento?
«Nel 1983, a 34 anni, fui nominato responsabile delle fabbriche. Fassino, che è mio coetaneo, venne fatto segretario del Partito torinese».
Esordio in politica?
«Padre operaio e poi camionista. Nonno soprannominato “Barba Lenin”. Aderii prestissimo al movimento studentesco. Vivevo a Moncalieri. Frequentavo i gruppi di lettura di Marx del Centro Gobetti. I Quaderni Rossi. Leggevo il Massimo Cacciari che scriveva su Contropiano».
Era anche un po’ fricchettone?
«Macché. Venivo da una famiglia timorata di Dio, anche se non praticante. Avevo paura dei vigili urbani quando li incrociavo. Da ragazzo la mia marachella più grande consisteva nello spostare i cartelli stradali: chi voleva andare a Carignano finiva a Poirino».
Da militante ha mai tirato un sampietrino?
«Mai. Il mio approccio alla politica era mediato dallo studio.
Spinelli?
«Niente. Ma nel tempo sono arrivato a fumare le Stop senza filtro, il massimo dell’intossicazione. Ho smesso perché mio figlio Tommaso mi attaccò la pertosse. Diciamo che la liberazione sessuale sessantottina per me è stata irrilevante».
Non batteva un chiodo.
«Esatto. Passavo la domenica coi compagni a leggere Mario Tronti e la sera o in balera o in qualche piola (osteria, ndr.), a cantare Fischia il vento. Anche se avevo idee estreme, è in quel periodo che ho scoperto il mio riformismo».
Come?
«Sul 52 barrato. Era l’autobus con cui tornavo a casa. Una sera, durante la lettura del Capitale, avevamo parlato dell’alienazione. Seduto dietro all’autista, pensai: ma se ora si libera dal lavoro e si ferma, io che faccio? Conclusi che ci si poteva liberare, ma solo parzialmente».
Il riformismo spiegato ai bambini. Ingresso nel Pci?
«Nel 1971. Prima sono stato qualche anno nella sezione Moncalieri del Psiup. Una delle prime sere nella sezione del Pci presi la parola. Cominciai un discorso altisonante sulla Cina. Un compagno mi interruppe: “Me car cumpagn, stasera si discute della festa dell’Unità e non di quelle palle su Pechino”».
Real politik. Nel Pci torinese c’era Giuliano Ferrara.
«Lo ricordo bene. Arrivò da Roma per fare l’esperienza della fabbrica. La formazione per eccellenza. Girava e viveva con un cane lupo. In un primo momento, aveva avuto qualche problema con i compagni che parlavano in dialetto».
Si dice che lei usi spesso due espressioni dialettali: fa fiuché e pisa pi curt.
«Rispettivamente per descrivere una persona che parla parla… (fa fioccare la neve) e per invitare qualcuno ad abbassare il tiro (piscioa più corto)».
Un esempio di politico che fa fiuché?
«Gianni Vattimo, che è un amico, è il principe dei fa fiuché».
Un politico a cui direbbe pisa pi curt?
«Alfonso Pecoraro Scanio, a prescindere da quel che dichiara».
Torniamo alla gavetta. Anni ’70.
«Ero segretario della sezione universitaria. Ricordo un’assemblea durissima nell’Aula Magna di palazzo Nuovo. Seicento persone. Io cercavo di difendere la legge Reale…».
Quella anti-terrorismo.
«Sì. E gli studenti mi urlavano contro: Compagno Berlinguer / ricordati che in Cile / il compromesso storico / lo fanno col fucile».
Nel 1980 la battaglia alla Fiat.
«Coi compagni ai cancelli che si rifiutavano di distribuire i volantini del partito. E poi il referendum sulla scala mobile. Io ero contro».
Contro la linea del Pci?
«Sì. Lo dichiarai in assemblea. Feci comunque la campagna elettorale a favore, anche se blandamente. Ma ormai non mi sentivo più in sintonia. Lo dissi a Fassino. Lui mi trovò un ruolo a Bruxelles».
In esilio.
«In pratica sì. Fu il momento più difficile della mia carriera. Tornato in Italia mi feci anche un anno con l’assegno di disoccupazione».
Un passo indietro. Piero Chiambretti ha raccontato di un giovane Fassino danzereccio.
«In realtà il ballerino sono io. Piero me lo ricordo alle feste dell’Unità quando accennava qualche passo. Io battevo le balere: il Diamant a Bra e il Prater a Poirino».
Dopo Bruxelles ci sono stati: gli anni al sindacato, l’invenzione della candidatura a sindaco di Valentino Castellani. La sconfitta nel collegio Mirafiori contro il forzista baffuto Alessandro Meluzzi alle elezioni del 1994, l’elezione alla Camera nel 1996 e quella a sindaco nel 2001. L’errore della vita?
«Ne ho fatti tanti, ma non indelebili».
Aggiunga un punto ai dodici del nuovo programma prodiano.
«Invece di aggiungere, ne toglierei un paio».
Quali?
«Gli ultimi due».
Quello sul portavoce e quello sull’autorità del premier.
«Sono cose scontate».
Dell’affaire Sircana che cosa pensa?
«Che avrebbe dovuto dire tutto subito. Non c’è niente di peggio per un politico che dare la sensazione di mentire».
A cena col nemico.
«L’avversario. Se è solo una cena, Silvio Berlusconi. Sa creare empatia».
Elezioni francesi. Ségolène Royal o François Bayrou?
«Ségolène. Per appartenenza al Pse».
A molti suoi colleghi dell’Ulivo piace Bayrou.
«Lo so. Va di moda».
Bayrou ha detto che lui vorrebbe come ministri i migliori della destra e della sinistra. Lei chi sceglierebbe?
«D’Alema e Beppe Pisanu».
Ospite da Bruno Vespa o da Michele Santoro?
«Da Vespa».
Perché?
«Non mi piacciono le trasmissioni aggressive».
Applichiamo alla politica la sentenza Bosman, quella sul libero mercato dei calciatori alla politica. Faccia campagna acquisti in Europa.
«Prendo Blair, ma quello giovane».
Campagna acquisti, senza macchina del tempo.
«Mi butto sul solito Zapatero».
Delete. Cancelli un numero dal suo cellulare. Quello di Fausto Bertinotti o quello di Bruno Tabacci?
«Fausto è un amico».
Tabacci o Diliberto?
«Non avrei dubbi: cancello Diliberto».
Marco Follini o Fabio Mussi?
«Tengo Follini».
Lo vorrebbe anche nel Partito democratico?
«Ci potrebbe stare tranquillamente».
Cultura generale. Quanto costa un pacco di pasta?
«Due euro».
Sbagliato. 90 centesimi.
«Ma io prendo quella di Gragnano».
Vabbé. Che cos’è la Dia?
«L’antimafia».
Con quali Paesi confina l’Afghanistan?
«Pakistan, Uzbekistan, Turkmenistan…».
Si fermi, si fermi. Promosso.

LINK:
Mimmo, il barbiere di Chiamparino, nel suo locale ha l’immagine del primo cittadino affrescata sul muro. Culto della personalità? «No, amicizia», mi dice il sindaco. Ma non è molto convincente. A proposito di sovrani cittadini, allora, gli chiedo del suo rapporto con l’Avvocato. Mi risponde con un aneddoto: «Gianni Agnelli mi venne a trovare nel 2002. Affacciandosi alla finestra del mio studio disse: Lei fa un lavoro bellissimo. Da qui, ogni mattina può salutare idealmente i cittadini. E la sera può valutare se ha fatto qualcosa per loro». E quindi? «Le dirò. A me i padroni, quelli che rischiano, non sono mai dispiaciuti».

Categorie : interviste
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