Michele Placido (Magazine – maggio 2009)

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Al cinema e in tv è stato criminale e santo. Eroe civile e stupratore. Commissario antimafia e boss della Cupola. Michele Placido, sessantatré anni, pugliese, mi accoglie nel suo studio romano in babbucce marocchine di pelle e una maglietta nera che è in contrasto perfetto con la criniera bianchissima. Da mattatore di set e palcoscenici, mentre parliamo Placido alterna toni profondi e risate beffarde. Ogni tanto, prima di una riflessione, chiude gli occhi, fa calare un breve silenzio e sforna una voce un po’ più tenebrosa. Su molti argomenti si è costruito un’opinione solida grazie alle decine di interpretazioni che lo hanno fatto immergere nella melma della storia nazionale. Si parla di etica nella politica? Ecco Il caso Ambrosoli. Di immigrazione e sfruttamento dei clandestini? Pummarò. Di violenza e spaccio truculento? Romanzo criminale. E così via. Quando gli chiedo del suo prossimo film autobiografico sul Sessantotto, Il grande sogno, e gli sottopongo l’ennesima polemica sul caso Sofri-Calabresi-Pinelli, innescata da un nuovo libro di Giampiero Mughini, Placido ricorda che negli anni della contestazione lui è stato prima celerino in divisa e poi barricadero. Mi racconta che avrebbe dovuto girare pure un film sulla storia dell’anarchico Pinelli. Partiamo da qui, allora.
Placido e il ’68.
«Ripensando a quegli anni non riesco a capire come potessi pensare certe cose».
Quali cose?
«Non ero l’unico, ma arrivai a simpatizzare con le Br durante il rapimento Moro. Pura follia. E prima ancora i giudizi sulla morte di Pinelli, sull’omicidio Calabresi… gli errori di valutazione di una certa sinistra in quel periodo, visti oggi, sembrano dettati da turbe psichiche collettive».
A distanza di decenni gli anni di piombo fanno ancora discutere. Sull’omicidio Calabresi e sulla condanna di Adriano Sofri, ci si divide: tra colpevolisti e innocentisti, tra chi, come Mughini, ritiene che Sofri sappia se non altro chi sono i veri colpevoli e chi lo ritiene estraneo alla vicenda.
«A me non dispiacerebbe assistere a una catarsi social-cristiana».
E cioè?
«Ha presente il testo teatrale La potenza delle tenebre di Lev Tolstoj?».
Lo ammetto, no.
«Be’, il protagonista alla fine, confessando malefatte e peccati di fronte alla cittadinanza del suo paesino, trova una
pacificazione».
Qualcosa di simile a quel che è successo in Sudafrica con la fine dell’apartheid.
«Chi ha vissuto gli anni di piombo, oggi è consapevole di quanto fossero assurdi i comportamenti di quell’epoca, ma una confessione pubblica per la remissione dei peccati magari servirebbe».
Come era il Placido celerino con l’elmetto?
«Maltrattato».
Da chi?
«Prima di tutto dai superiori. Ti sbattevano in gabbia alla prima insubordinazione. Quando stavo in caserma a Nettuno ci mettevano su un camion all’alba per arrivare a Roma presto, pronti per gli scontri. Un pasto alle 8 di mattina, a base di lasagne stantie, doveva bastare per tutto il giorno. E poi eravamo snobbati dalle ragazze».
Perché?
«I poliziotti erano o meridionali o figli di povera gente. Le ragazze borghesi ci disprezzavano. Per non parlare dei
manifestanti: ci sputavano, ci urlavano “pezzenti”».
Pasolini dopo le bastonate tra manifestanti e forze dell’ordine a Valle Giulia nel ’68 scrisse che i manifestanti erano i figli di papà, i poliziotti i figli del popolo.
«Già, con addosso la puzza di rancio. Nel film Il grande sogno, il mio personaggio è interpretato da Riccardo Scamarcio: il giovane poliziotto meridionale vive sulla sua pelle questa ipocrisia e guarda con un certo stupore questi ragazzi che volevano salvare il mondo».
Da poliziotto a quante cariche ha partecipato?
«A poche. Il mio era un reparto di giovanissimi».
Ha raccontato a Michele Anselmi, sul Giornale, di aver braccato una ragazza col manganello in mano.
«Una scena umiliante».
Intende dire, violenta.
«No, no. Umiliante. Inseguii questa studentessa fin dentro al bar dell’Università. La afferrai per i capelli. E in quel momento mi accorsi che il barista e due bidelli mi stavano fissando con disprezzo».
La aggredirono?
«Mi umiliarono con un processo farsesco. E uscii dal bar praticamente in lacrime. In compenso nacque una bella
amicizia con quella ragazza».
Quando il celerino diventò un contestatore?
«Quando entrai nell’Accademia di arte drammatica, nel 1968. Occupammo l’istituto. Per me fu straordinario. La spinta ideale era fortissima. E per la prima volta le ragazze di famiglia borghese mi filavano».
Flirt a parte, l’occupazione…
«Gianmaria Volonté era la guida spirituale».
Lei interveniva in assemblea?
«Un giorno proposi una pausa per un panino con la mortadella. Volonté mi fece cacciare: “Fate tacere quel fascista”».
Molto democratico.
«L’ideologia cominciava a sostituire lo spontaneismo. Ma Gianmaria era anche quello che organizzava il teatro tenda per gli operai di periferia. E cioè il modo in cui noi artisti dovremmo fare politica».
Invece di accodarvi ai partiti?
«Gli attori dovrebbero mettersi più a disposizione del Paese e meno delle ideologie. Quest’estate passerò parte delle vacanze in Abruzzo, per portare un po’ di teatro».
Non è che gli artisti usano l’Abruzzo come vetrina?
«Dipende dallo spirito con cui si fanno queste cose. A me piace l’idea della task force culturale. L’ho fatto altre volte:
ho aperto un teatro in Calabria, ho lavorato nella periferia romana…».
In passato è stato corteggiato dai radicali, dai repubblicani e dai socialisti. Craxi venti anni fa la voleva candidare alle Europee.
«Conobbi Craxi tramite il regista Giorgio Ferrara».
Il fratello di Giuliano, direttore del Foglio.
«Sì. Un giorno mi chiamò e mi disse: “So che sei in Puglia, perché quando torni a Roma, non porti i sott’olio, che piacciono tanto a Bettino?”. Quando lo incontrai Craxi mi disse: “Hai una bella fisicità. Potresti interpretare Ghino di Tacco”».
Il brigante il cui nome Craxi usava come pseudonimo.
«Bettino suggerì di chiamare un dirigente Rai per organizzare la cosa. Ma poi non se ne fece nulla».
Craxi: statista o criminale?
«In varie occasioni ha dimostrato di essere un grande politico. Ora la corruzione è la stessa degli anni Ottanta, ma
di statisti così non se ne vedono».
Qualcuno le ha proposto una candidatura alle Europee anche quest’anno?
«Sì. L’Udc. In questo Paese ancora ci si rinfaccia fascismo e comunismo, e allora forse quel che ci vorrebbe è proprio
un bel progetto di centro. Lo voterei. Tornerei alle origini della mia famiglia».
Viene da una famiglia democristiana?
«L’area era quella. Io a nove anni mi trasferii in un collegio di religiosi, grazie a uno zio prete. E lì nacque la mia
passione per la recitazione».
Che c’entra la recitazione con l’incenso delle messe?
«Ha presente la forza delle sacre rappresentazioni? Ancora oggi, pur non essendo cattolico, l’aspetto mistico della religione mi attrae. In ogni caso, una volta uscito dal collegio puntai a Roma, all’Accademia. E dopo la parentesi
in divisa, a ventitré anni ero in tournée con Ronconi. A New York ci ospitò anche Andy Warhol».
Dalla caserma alla factory. Dai fumogeni…
«…al fumo».
Il suo primo ciak?
«In un film sul caso Petrosino. Facevo il picciotto siciliano».
All’inizio della sua carriera venne aiutato anche da Monica Vitti.
«Mi vide in teatro e mi volle per Teresa la ladra. Da lì cominciò un tam tam che mi portò a recitare con i più grandi:
Monicelli, Comencini…».
Il successo vero però arrivò con il ruolo del commissario Cattani, nella Piovra.
«E fosse stato per il pubblico starei ancora a fare il commissario».
È vero che ha voluto uccidere lei il personaggio?
«L’ho suicidato. Alla terza serie ero stufo. La quarta la feci perché mi ero impegnato con un mutuo per la casa».
Chi sono i migliori giovani registi italiani?
«Matteo Garrone, che con poche immagini crea emozioni forti, e Paolo Sorrentino col suo barocchismo strepitoso».
Le migliori attrici?
«Jasmine Trinca e Giovanna Mezzogiorno».
Non cita sua figlia Violante?
«Lei preferisce che i complimenti glieli faccia qualcun altro. Non suo padre».
Violante sta girando la storia di Moana Pozzi per Sky. Da uomo del Sud che effetto le fa sapere che sua figlia si finge pornodiva?
«Nessuno. Il personaggio è molto interessante. E poi se dovessi pensare a chi ho interpretato io…».
Lei è stato pure un aguzzino stupratore di una donna incinta in La sconosciuta.
«Un ruolo che molti avevano rifiutato. Anche alla fine degli anni Settanta interpretai un personaggio che Giuliano
Gemma e Franco Nero non avevano voluto affrontare».
Quale?
«Uno dei primi omosessuali del cinema italiano, Ernesto. Tratto da un racconto di Saba».
Anche suo figlio Brenno incomincia a fare l’attore.
«Ed è il più dotato della famiglia. Gli manca la disciplina, però: l’attore dovrebbe fare una vita da atleta».
Ha mai diretto i suoi figli?
«Viola, in Ovunque sei. Ora sto lavorando alla storia di Renato Vallanzasca. E anche lì ci sarebbe un ruolo per lei. Ma forse è meglio non farglielo sapere».
Chi dovrebbe interpretare il ruolo del bandito Vallanzasca?
«Ci sono solo due facce adatte: Kim Rossi Stuart o Riccardo Scamarcio».
Entrambi erano nel suo Romanzo criminale. Quel film e la serie tv che ne è seguita sono stati accusati dal sindaco Alemanno di istigare alla violenza i giovani romani.
«Allora i mille film sui papi e sui santi dovrebbero riempire le chiese di fedeli. E non mi pare che sia così. Non mi infilo in analisi sociologiche ma credo che il motivo dell’aggressività giovanile non sia da ricercare in tv o nei cinema. E poi sono davvero le risse giovanili il male principale del Paese? Vogliamo parlare di come si sta affrontando l’immigrazione».
Come?
«Male. Si rasentano le leggi razziali».
Lei sui clandestini che vengono dall’Africa ha girato Pummarò.
«Il protagonista ghanese mi ha fatto immergere in una sorta di apartheid italiano. L’ipocrisia dello Stato raggiunge livelli incredibili».
Perché parla di ipocrisia?
«Sfoggiamo i muscoli contro i disperati, li respingiamo. Ma poi accettiamo che i clandestini lavorino in nero nelle nostre campagne».
A cena col nemico?
«Nanni Moretti. Per lui provo attrazione e repulsione. È culturalmente dotatissimo. Ci parlerei ore. Ma è anche quanto di più lontano dal mio modo di pensare».
Perché?
«È talmente egocentrico… E moralista. Da giovane per provocarlo, quando mi chiedeva “come stai?”, gli rispondevo “benissimo, sono appena andato a puttane”. Fuggiva, inorridito».
Lei ha un clan di amici?
«No. Ho un clan di parenti. Siamo otto tra fratelli e sorelle. Una tribù con decine di nipoti. La domenica spesso ci ritroviamo a pranzare insieme».
Ha avuto il suo quinto figlio a sessant’anni.
«Andrà bene? Andrà male? Non mi pongo il problema. So solo che questo bambino di 3 anni è una cosa straordinaria».
L’errore più grande che ha fatto?
«Forse essermi iscritto alla federazione giovanile del Pci, nel 1968».
Perché fu un errore?
«Perché non ero comunista. Avrei dovuto essere più onesto con me stesso».
La scelta che le ha cambiato la vita?
«Entrare in collegio. Se non fossi andato dai preti oggi forse sarei vicesindaco di un paesino pugliese».
Lei che tv guarda?
«Ne guardo pochissima, soprattutto il satellite. La sera vado a dormire presto, dopo aver letto un po’».
Il libro della vita?
«Madame Bovary. Quell’attenzione di Flaubert, un uomo, per la sensibilità femminile, mi ha sempre rapito».
Il film?
«Prima era Ladri di biciclette. Oggi dico Gomorra».
La canzone?
«Battisti, I giardini di marzo».
Sa quanto costa un biglietto della metropolitana?
«Certo. Un euro. Uso solo i piedi o i mezzi pubblici».
I confini dell’Iraq?
«Nella sua totalità?».
Certo.
«L’Iran… e poi, boh…».
Quanti articoli ha la Costituzione?
«Quattrocento?».
Centotrentanove. Dov’era il 9 novembre dell’89?
«Che cosa succede il 9 novembre…?».
Crolla il Muro di Berlino.
«Con numeri e date non vado fortissimo. E poi quel giorno non mi emozionò più di tanto».
Come mai?
«La costruzione e il crollo del Muro sono fatti che attengono alle miserie umane. Lo sbarco sulla Luna del 1969… quella sì che fu un’emozione».

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