Ferdinando Scianna (Sette – marzo 2010)

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Ferdinando SciannaHa firmato libri con Leonardo Sciascia e con Manuel Vázquez Montalbán. Ha inventato l’immagine siculo dark di Dolce&Gabbana. Ed è stato il primo italiano a entrare nella leggendaria agenzia Magnum Photos. Ferdinando Scianna, 66 anni, siciliano di Bagheria è una star della fotografia. Lo intervisto dopo i trionfi dei suoi giovani compatrioti agli ultimi World Press Photo. Durante il primo contatto telefonico conferma la fama di burbero. Gli dico che vorrei discutere di quanto la nostra stampa consideri poco la fotografia. Replica: «E ne dovrei parlare con un giornalista?». Quando lo incontro nel suo studio milanese è meno scontroso. “Logorroico reo confesso”, condisce la parlata siculo-cosmopolita con citazioni e aforismi. Un esempio: «La mafia? È quando ti fanno sembrare un favore qualcosa che ti spetta per diritto». Appena ci sediamo, provo a reintrodurre l’argomento della fotografia maltrattata in Italia. Lui, prima prende in prestito un’interpretazione storico-sociologica di Giulio Bollati («L’Italia non ha avuto una rivoluzione borghese, ha un rapporto ambiguo con la modernità e quindi con la fotografia»), e poi mi fa notare che mentre i fotografi italiani lodati a livello internazionale sono moltissimi, di giornalisti italiani premiati fuori dai nostri confini non ce ne sono proprio.
I nostri fotografi trionfano all’estero malgrado vengano snobbati dai giornali italiani?
«È così. Da noi il fotografo è “al seguito” del giornalista. Una volta un cronista mi disse: “Tu sei troppo intelligente per fare foto, devi scrivere”».
Lei è stato anche giornalista.
«Sì per l’Europeo. Ma nascendo fotografo, per molto tempo ho avuto un contratto da impiegato, pagato meno. In redazione fu uno scandalo quando il direttore Tommaso Giglio decise di pubblicare le mie corrispondenze da Praga, nella primavera del 1968».
È ancora così?
«Ora è anche peggio. I fotografi ormai da anni sono stati fatti fuori dalle redazioni».
Perché?
«Gli editori e i direttori hanno deciso che era più facile e conveniente affidarsi alle agenzie».
È stato un errore?
«Dal punto di vista economico forse no. Ma in questo modo hanno lasciato alle agenzie il potere di decidere che cosa fotografare. E capita spesso di vedere la stessa foto su più giornali».
Un’evoluzione c’è stata: oggi molti quotidiani hanno grandi scatti in prima pagina.
«Sono decorative. Come in certe riviste per turisti: c’è la foto della spiaggia bianca con le palme, la didascalia che dice “spiaggia bianca con palma” e l’articolo del giornalista che elogia lo splendore della spiaggia bianca. Da pazzi. La foto non deve essere per forza descrittiva. Deve raccontare. Può essere metaforica. Un colpo d’occhio».
Arrigo Benedetti, grande direttore dell’Europeo e dell’Espresso, diceva: «Gli articoli si guardano, le foto si leggono».
«Ed Enzo Biagi aggiunse: “Senza immagini, niente emozioni”. Però i grandi reportage degli italiani premiati non hanno quasi mai una committenza italiana».
Esiste uno stile italiano in fotografia?
«La globalizzazione ha allineato anche il gusto fotografico, ma negli italiani riemergono le geometrie e le architetture che hanno respirato sin dall’infanzia nelle piazze delle loro città. È una forma classica».
C’è anche nei suoi scatti?
«Ma io sono storia ormai, come Masaccio, eh eh»
Alcuni critici le rimproverano l’attaccamento a Bagheria, al barocco e alle donne siciliane in nero.
«L’antropologo Ernesto de Martino scrisse: “Soltanto chi ha un villaggio nella memoria, può fare un’esperienza cosmopolita”. La mia Sicilia è soprattutto al centro delle foto fatte altrove».
In che senso?
«Come Cartier-Bresson, nato sotto le nuvole della Normandia, diceva che la sua luce ideale era un giorno luminoso senza ombre, la mia luce ideale è quella per cui mia madre mi ordinava di mettermi un cappello che se no schiattavo per l’insolazione».
Quando ha cominciato a fare foto?
«Quando mia madre mi regalò la prima macchina, a sedici anni».
I suoi genitori la spronarono?
«Quando dissi a mio padre che volevo fare il fotografo, cominciò a chiedermi: “Ma che vuol dire? Che mestiere è?”. Ammise in pubblico che facevo quel lavoro solo quando iniziai a scrivere».
I primi soggetti fotografati?
«Le ragazze».
Rimorchiava facendo foto?
«Rimorchiare è una parola grossa per la Sicilia degli anni Cinquanta. Mi piaceva che venisse apprezzato quel che facevo. La fotografia per me non è mai stata una vocazione. Era la via di fuga dalla Sicilia».
Oltre alle ragazze
«Fotografavo i riti religiosi. I contadini. Alcuni di quei primi scatti, conservati per decenni in una scatola di legno, li ho pubblicati nel 2002 nel libro Quelli di Bagheria. A vent’anni, comunque, feci la mia prima mostra, nel piccolo circoletto culturale cittadino. Fu importantissima».
Vendette tutte le foto?
«No. Venne a vederla Leonardo Sciascia. Io non c’ero, ma lui mi lasciò un biglietto di complimenti. Dopo qualche settimana, mentre giravo per la Sicilia fotografando la miseria e coagulando indignazione, decisi di andare a trovarlo. Il 16 agosto 1963, bussai alla porta della sua casa di villeggiatura vicino a Racalmuto. Fu un colpo di fulmine».
Sciascia era già famoso?
«Aveva già scritto il Giorno della civetta».
Andrea Camilleri ha detto che Sciascia non avrebbe dovuto pubblicare quel libro: perché i mafiosi ne escono troppo affascinanti.
«È una stronzata. Ma una sera andammo a vedere la rappresentazione teatrale del libro. Quando il pubblico cominciò ad applaudire il monologo mafioso-nazista di Don Mariano Arena, quello sugli ominicchi e i quaquaraquà, Leonardo rimase impietrito: “Perché applaudono?”».
La vostra amicizia…
«Io leggevo le rubriche di Sciascia su L’Ora di Palermo. Pensavo: “Ma cosa ho io per interessare a quest’uomo?”. Mi portò a Bari per trovare un editore per le mie foto. E alla fine scrisse la prefazione al mio libro Feste religiose in Sicilia. L’Osservatore romano ci stroncò».
Lei come si guadagnava da vivere, allora?
«Vendevo qualche foto al Mondo. Sono venuto a sapere che era Flaiano a sceglierle. Nel 1966, poi, mi trasferii a Milano e venni preso all’Europeo».
Di che cosa si occupava?
«Imparai il mestiere a colpi di stroncature. Il commento più frequente alle prime foto era: “Che cos’è ’sta cacata?”. Per l’Europeo sono stato ovunque: a Sanremo per il Festival, per le strade di Milano a seguire i cantanti popolari, in Bangladesh per l’alluvione… A metà anni Settanta, il direttore Giglio mi mandò a Parigi».
Perché?
«La leggenda narra che si volesse liberare della mia rumorosa risata».
A Parigi conobbe Henri Cartier-Bresson.
«Avevo una lettera di presentazione di un amico comune. Non la usai mai. Ma quando pubblicai il libro Les Siciliens, gliene mandai una copia con una “dedica tappetino”. Tipo: “Se sono fotografo è solo grazie a lei”. Lui mi rispose dicendo che gli avevo fatto tornare voglia di scattare foto».
L’insegnamento di Cartier-Bresson?
«L’impegno quotidiano. Da operaio del mestiere. Quando Henri seppe che volevo lasciare l’Europeo, nel 1982, mi disse che avrei dovuto mandare il mio portfolio all’agenzia Magnum».
La presero?
«Nel 1983 ero un fotografo di Magnum, ma disoccupato. Quando decisi di andare in Spagna per fare un lavoro sulla Guerra Civile, Sciascia mi consigliò di andare a trovare Manuel Vásquez Montalbán. E così a Barcellona trovai un nuovo amico: la mia vita è scandita da incontri straordinari».
Quello con Dolce&Gabbana quando avviene?
«A metà anni Ottanta. Mentre ero a Milano ricevetti una loro telefonata. Erano giovani e sconosciuti. Mi dissero che durante una vacanza a Palermo avevano visto una mia foto. Mi volevano incontrare. Gli spiegai che non mi occupavo di moda. Tra l’altro ora so che lo scatto che avevano visto non era mio».
Pare che fosse della fotografa Letizia Battaglia.
«Vennero nel mio studio. Stefano Gabbana, guardando i miei libri, disse una frase memorabile: “È proprio quel che vogliamo. Il nostro look, con il suo feeling”. Scoppiai a ridere. Poco dopo partimmo per Palermo, con l’automobile che ci aveva prestato il fratello di Domenico Dolce. Mi mostrarono due polaroid con delle modelle. Scelsi Marpessa. Quella campagna sfondò. Venne pure recensita dal Washington Post».
Quanti anni è rimasto nel mondo della moda?
«Sette. Tra modelle e albergoni. Era un tradimento permanente del maestro Cartier-Bresson e delle sue regole: “Mai mettere in posa il mondo”. Mi divertivo, ma con un forte senso di colpa. Il massimo».
Perché lasciò la moda?
«Perché ero stanco. Continuai a fare pubblicità. Che insieme con i matrimoni è l’unico modo per fare soldi con la fotografia».
A cena con il nemico?
«Sui nemici la penso come Jorge Luis Borges. A uno che lo attaccava disse: “La mia nullità differisce troppo poco dalla tua perché valga la pena di considerarti un nemico!”».
Lei ha fotografato anche Borges?
«Sì. Tra l’altro il mio prossimo libro sarà di ritratti».
Qual è la scelta che le ha cambiato la vita?
«Le mie fughe. Dalla Sicilia e dall’Europeo. In materia di fuga sono un campione. Batto Bach».
L’errore più grande che ha fatto?
«Uno? Milioni ne ho fatti!».
Quanto costa un pacco di pasta?
«Tra i settanta centesimi e un euro e venti».
Conosce i confini di Israele?
«Egitto, Siria, Giordania…».
Sa anche quanti articoli ha la Costituzione?
«No».
Centotrentanove. Il suo libro preferito?
«Come faccio a scegliere tra Shakespeare e Dante? Facciamo i Saggi di Montaigne, dove si ritrova per la prima volta l’uomo libero occidentale».
La canzone?
«Tutto Paolo Conte».
Il film?
«Otto e mezzo di Fellini e Quarto potere di Orson Welles».
Lei guarda la tv?
«Certo. Difendo il mio diritto alla stupidità e alla passività».

Categorie : interviste
Commenti
annad 3 Ottobre 2012

salve
vorrei sapere come entrare in contatto col fotografo.. non trovo mail in giro ma ho proprio bisogno di parlare con lui, mi sapete indicare dove trovare un contatto di chi gestisce le sue interviste-incontri ecc?

Pino Ammendola 12 Marzo 2013

Vorrei entrare in contatto con Scianna per chiedere la sua autorizzazione ad usare una sua foto (di proprietà di Anna Melato) per un premio dedicato alla memoria di Mariangela Melato

Ferdinando Longhi 18 Gennaio 2014

Vorrei entrare in contatto con Scianna per chiedere un suo parere
su un mostra che ha fatto recentemente in Europa.

Baracca Giuseppe 21 Aprile 2014

Buon giorno,
sono un medico volontario in Africa, ho conosciuto Ferdinando in Bolivia nel 1986 a Kami durante una sua missione per conto di COOPI. Mi piacerebbe rientrare in contatto con lui. Potete trasmettergli questo messaggio? Grazie.

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