Don Vittorio Nozza (Magazine – dicembre 2008)

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Don Vittorio Nozza, sessant’anni, bergamasco, direttore della Caritas italiana, è uno che passa le giornate a occuparsi della perduta gente: barboni, reietti, ubriaconi, nomadi sfollati, immigrati allo sbando. Pochi come lui hanno il polso dei disagi quotidiani nel Paese. L’ente che guida sforna ogni anno rapporti e volumetti sull’immigrazione e, soprattutto, sulla povertà. Constatato che a Natale si spenderà un miliardo di euro in meno in regali e abbuffate (previsione della Confesercenti), appreso che nel 2009 spariranno centinaia di migliaia di posti di lavoro precari (aspettativa della Cgil), e letto sull’Unità che gli italiani si vergognano di fare la fila per ritirare i soldi della social card, decido di andare a trovarlo. Piove. All’ingresso del palazzetto di cemento grigio, sull’Aurelia, dove si trova il suo ufficio, c’è un ritratto del Cardinal Bagnasco, con molta porpora e molto oro addosso, il che fa poco crisi, ma rende l’idea del fatto che la Caritas è sempre e comunque emanazione vescovile. Questo vuol dire che da parte di Nozza non avrò risposte poco diplomatiche su aborto, unioni civili, testamento biologico e via dicendo. Anzi, su questi temi, non avrò proprio risposte. «Sono temi su cui mi dovrei strumentare». Dopo un po’ che parliamo ci riprovo: «Ma lei, Nozza, è a contatto tutti i giorni con oppressi e maltrattati, non pensa che la Chiesa dovrebbe aprirsi a una società in evoluzione? ». Risposta inquadrata: «Il fatto che io sia in trincea non fa di me qualcosa di diverso dal resto della Chiesa». Il fatto di stare in trincea, però, su  certi temi lo porta a essere puntualmente critico coi governi. «Mi danno spesso del catto-comunista. Ma per me non c’è né destra né sinistra: sono per la centralità della persona». Ricca o povera che sia.
Monsignore, quanti sono i poveri in Italia?
«Quelli sotto la soglia dei 500 euro al mese, circa sette milioni. Il guaio è che da anni non ci sono segnali di miglioramento».
Cioè?
«Non si riesce a tirarli fuori da quel girone dantesco. Sono diventati un blocco sociale. Radicato».
Quanti ne assistete alla Caritas?
«Circa un milione».
Poi ci sono quelli a rischio povertà.
«Il girone infernale successivo. Sono tre milioni e mezzo circa. Ma la tipologia è completamente diversa».
In che senso?
«Il primo girone è formato da persone che si sono praticamente rassegnate alla vita di strada. Il secondo è fatto di famiglie che non arrivano alla fine del mese».
Sono quelli che hanno imbarazzo a farsi vedere nelle file delle vostre mense?
«Esatto. Con questi prendiamo appuntamenti privati. Farli avvicinare non sempre è facile».
Che cosa chiedono?
«Aiuto per pagare le bollette, vestiti».
Siete un bancomat per impoveriti?
«No. Cerchiamo di indirizzare le famiglie verso una via meno disinvolta ai consumi».
Ma come! Il premier ha detto che bisogna consumare.
«Probabilmente si rivolgeva a chi ha il portafogli ancora gonfio. O a chi non ha ancora realizzato che un certo stile di vita andrà ripensato».
C’è chi dice che questo parlar di crisi deprime. Che bisogna essere ottimisti.
«Ottimisti sì, ma anche consapevoli. La crisi c’è, anche se non colpisce tutti, ovviamente».
È vero che da voi, alla Caritas, ora vengono anche persone che prima non immaginavate neppure?
«Sì. E sono quelli che faticano di più. Anche perché ormai hanno abitudini consolidate: è difficile dire al proprio figlio che da un momento all’altro si dovrà mettere pantaloni scadenti e smetterla di pavoneggiarsi».
È vero anche che da un po’ ci sono molti divorziati in fila ai vostri Centri di ascolto?
«È un fenomeno che cresce. Col divorzio, spesso si raddoppiano le spese, e quindi…».
Questa risposta sembra uno spot della Cei per la difesa della famiglia.
«Doppio affitto, doppie bollette…».
Lei ha detto: «Basta con i trasferimenti monetari, bisogna puntare sui servizi». È una critica alla social card di Tremonti?
«La social card è qualcosa. Ma, lasciata così, è un fiore destinato a morire in un giardino di sterpaglie».
Fuor di metafora?
«Servono più servizi. E poi, a proposito degli imbarazzi… Davvero non c’era una formula più anonima per distribuire quei quattro soldi?».
Voi siete più discreti?
«E che lo dico a fare? Eeeh… Non siamo noi a governare».
C’è chi sostiene di sì. Ha visto la retromarcia del governo sui tagli alle scuole paritarie? Una dimostrazione di forza della Chiesa.
«…».
Perché ride?
«Mica scriverà che rido?».
Certo.
«Era solo un sorriso».
Ora è pure arrossito. Il suo suggerimento, immediato, al governo?
«Attualmente la spesa per l’assistenza sociale è gestita per il 90% a livello centrale e per il 10% a livello locale. Invertire le percentuali già sarebbe una piccola rivoluzione».
Sembra una posizione Caritas leghista.
«Leghista assolutamente no. Il nostro è un federalismo solidale».
E molto radicato sul territorio.
«Effettivamente arriviamo in ogni rigagnolo del Paese. Abbiamo 16 delegazioni regionali, 220 Caritas diocesane e c’è una Caritas in più della metà delle 25.000 parrocchie ».
Siete uno Stato parallelo.
«Macché. Siamo un motore che produce progetti per il popolo. Non ha idea di quanta fantasia ci sia nella carità».
La fantasia della carità?
«Non è un’immagine mia. È di Giovanni Paolo II».
Su questi temi Papa Wojtyla era più sensibile di Benedetto XVI?
«Diventare Papa a 58 anni, come è stato per Wojtyla, è diverso che essere eletto a 78 anni. Ma guardi che Benedetto XVI nel suo discorso per l’Immacolata ha parlato proprio delle famiglie in difficoltà per colpa della crisi».
Giuseppe De Rita ha scritto che questa crisi potrebbe portare un nuovo sistema di valori. E anche a un rapporto più sano con gli immigrati in Italia.
«Di sicuro, una crisi che ci schiaccia la faccia contro lo specchio che riflette il nostro benessere potrebbe farci recuperare un rapporto con gli “altri” ».
Chi sarebbero gli altri?
«Quelli di cui oggi abbiamo paura, perché non li conosciamo. Ci chiudiamo nel nostro piccolo bunker fatto di beni materiali. Pensi alla vicenda dei lavavetri o alla retorica del decoro urbano».
È contrario al decoro urbano?
«No. Ma un barbone con un piattino in mano mi pare meno indecoroso di un Suv parcheggiato di traverso su un marciapiede. E poi sul barbone…».
Dica.
«Non va allontanato il povero, ma la povertà. Non si può continuare a emarginare chi non partecipa allo sviluppo economico. E non si può considerare lo sviluppo economico come una soluzione per la povertà. Serve uno sviluppo… solidale».
I rom…
«Ecco, appunto. Bisogna dargli documenti e scolarizzazione, altro che impronte digitali. E poi vanno sfatate le leggende metropolitane».
Quali leggende?
«Quella per esempio che i rom rapiscono i bambini. È una balla colossale. Su 47 casi di rapimento, negli ultimi anni, in nemmeno un caso sono state accertate responsabilità dei rom. Anche sulla sicurezza bisogna stare attenti».
Immagino non apprezzi la cosiddetta tolleranza zero.
«Chi delinque va punito, ovvio. Ma nell’aprile scorso, mentre la percezione di insicurezza dei cittadini toccava picchi mostruosi, i reati diminuivano ».
Lo Stato si deve occupare anche delle paure percepite dai cittadini.
«Lo Stato deve anche educare i cittadini ad avere le giuste percezioni. La sicurezza è data da un territorio con molte strutture di accoglienza e servizi sociali. La polizia non può essere lasciata da sola a gestire il territorio. E poi lo sa che tra gli immigrati regolari si delinque meno che tra i cittadini italiani, in percentuale? Per non parlare dei soldi».
Quali soldi?
«Gli immigrati regolari contribuiscono a creare il 9% del Pil. E ricevono in cambio solo il 2,4% della spesa italiana per l’assistenza sociale».
Il responsabile Caritas per l’immigrazione disse che tra la Bossi-Fini e il progetto unionista dell’ex ministro Ferrero c’era un abisso di civiltà.
«È l’approccio a essere diverso. La Bossi-Fini gioca sulla indesiderabilità dello straniero. Ma è da venti anni che i governi, di destra e di sinistra, non sanno dove mettere le mani. Prima almeno un po’ ci ascoltavano».
E ora?
«I tavoli di confronto sono stati bloccati».
Se potesse, che cosa direbbe al ministro Maroni?
«Che se si chiede legalità, integrazione e rispetto delle regole agli immigrati, poi bisogna saper mettere sul tavolo qualcosa».
Che cosa?
«Provvedimenti che creino radicamento in Italia».
Me ne dica due.
«Un bambino che nasce in Italia deve avere subito la cittadinanza italiana».
E poi?
«Il voto. Non puoi non far votare gli immigrati alle amministrative».
La Lega propone classi separate per stranieri. Chiede di diminuire la costruzione di moschee.
«I bambini imparano dagli altri bambini. Se ci sono difficoltà linguistiche al massimo saranno utili corsi aggiuntivi, ma non classi separate. E da tempo sosteniamo che se c’è libertà di culto, allora ci deve essere anche libertà di creare luoghi di culto».
Ma i suoi parrocchiani sono sempre d’accordo con lei?
«No. Spesso mi tocca metterli di fronte alle loro ipocrisie. Si dichiarano cristiani, ma poi non si comportano di conseguenza: protestano per una comunità di recupero sotto casa, non vogliono malati di Aids nel circondario. Contro certi pregiudizi combatto da quando sono prete».
Da quando è prete?
«Sono stato ordinato sacerdote nel 1973».
Quando ha scoperto la vocazione?
«A diciassette anni circa. Quando mi affidarono l’organizzazione extra scolastica di alcune classi delle medie».
La sua famiglia.
«Sono ultimo di sette figli. Mio padre, muratore, morì che avevo due anni e mezzo. Mia madre non lavorava. Il mio fratello più grande dovette interrompere gli studi per andare in cantiere e mia sorella di 11 venne assunta in una industria che fabbricava calze».
Gli studi?
«Finite le elementari sarei dovuto andare a lavorare pure io. Ma fortunatamente finii in un istituto religioso. E così…».
Ha mai pensato di fare altro?
«Dopo la maturità mi buttai sulla teologia. Ma forse avrei potuto intraprendere un percorso per servire l’amministrazione della cosa pubblica».
Alla Caritas quando ci arriva?
«Dopo anni di lavoro sul territorio, nel 1986 vengo fatto direttore della Caritas diocesana di Bergamo. Ci sono restato fino al 1998. Nel frattempo mi occupavo di carceri, come cappellano».
Dirige la Caritas italiana dal 2001. La Padania qualche tempo fa vi ha attaccato perché dice che siete una società per azioni. Titolo: “Carita-spa”.
«Quello che facciamo è sotto gli occhi di tutti».
Chi vi finanzia?
«Per l’85% minuscole donazioni. Il 7,5% viene dall’8 per mille, e il restante 7,5% sono finanziamenti a progetti in cooperazione».
Soldi dello Stato?
«Niente».
Che cosa fa un prete come lei quando non è sul campo?
«Leggo testi di esegesi biblica e di teologia».
Letture un po’ più comuni?
«Ho appena finito Gomorra. Tra l’altro a Scampia, uno dei luoghi del romanzo/inchiesta, noi ci abbiamo lavorato parecchio».
Va al cinema?
«No. Non ho tempo».
Il film della vita?
«L’albero degli zoccoli. Che non sono mai riuscito a vedere intero. Lo proiettammo per un mese nella seconda parrocchia a cui ero stato assegnato da giovane. Ne ho visto solo qualche spezzone».
La canzone?
«Celentano. Ricordi giovanili».
Guarda un po’ di tv?
«Dieci minuti di Tg3 quando rientro in casa. Ne vedo talmente tante e di talmente tanti colori durante il giorno…».
Dieci minuti di Tg e basta?
«Sì. Poi ceno con i miei confratelli e alle 21 sono in stanza. Lì, prego. E così mi ricreo. Senza tv».
Allora immagino che non abbia una posizione sulla vicenda dell’aumento dell’Iva di Sky.
«Mi è parso un classico esempio di dibattito schizofrenico all’italiana: si protesta perché la social card dà solo 40 euro ai bisognosi. E poi ci si mobilita per l’aumento di 4 euro per un bene secondario».
Lei ha un clan di amici?
«Non a Roma».
Chi sono?
«Due su tutti: Antonio, che fa il barista a Villongo, Giusi, che è dottoressa a Brescia».
Obama…
«Mi piace sentirlo parlare. Quando affronta temi che ci sono vicini. Ma poi andrà valutato all’atto pratico ».
Le domande finali. Quanto costa un litro di benzina?
«Un euro e dieci».
Quanti anni ha la Dichiarazione universale dei diritti?
«Sessanta».
Che cos’è Facebook?
«Boh. Sono stato su internet tre volte in vita mia, per dare l’imprimatur al sito della Caritas».
I confini di Israele?
«Che domanda è? Il Libano… L’Iran».
No, l’Iran no.
«Mi trova spiazzato. Ma mica lo scriverà!».

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