Carlo Fontana (Magazine – gennaio 2007)

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Per quindici anni è stato il dominus del teatro più importante d’Italia: la Scala di Milano. Poi, nel 2005, il capitombolo. Rimosso dall’incarico di Sovrintendente, a causa di uno scontro frontale con il direttore musicale Riccardo Muti. Ora, Carlo Fontana, un passato mai rinnegato nel Psi meneghino di Bettino Craxi e un presente in Senato con i Ds, ha scritto un libro A scena aperta: che è un diario scaligero, ma anche una raccolta di sassolini sfilati dalle scarpe.
«Mettiamola così», dice. «Io con Muti avrei voluto riprodurre il sodalizio che c’era stato tra Paolo Grassi, il mio maestro, e Giorgio Strehler: i due creatori del Piccolo Teatro di Milano».
E invece?
«Invece Muti mi ha pugnalato alle spalle».
Esagerato. Avevate due modi differenti di pensare la Scala.
«Io ho sempre dato la precedenza agli artisti. Per molto tempo siamo andati d’accordo. Abbiamo deciso insieme di riportare a Milano i grandi titoli del melodramma popolare. Spesso ho fatto dei passi indietro per accontentare scelte sue che non condividevo. Gli ho sempre riconosciuto grandi qualità di direttore…».
Però…
«Quando Muti ha pensato che le divergenze fossero eccessive, invece di venirmelo a dire, si è sottratto al confronto, mi ha aggirato, ha trovato una sponda e…».
Zac! Chi gli ha fatto da sponda?
«Alcuni membri del Consiglio di amministrazione della Scala e l’allora sindaco Gabriele Albertini. Con il quale avevo un buon rapporto. Durante il suo primo quinquennio, lui, insieme con il vice Riccardo De Corato, ha contribuito a ristrutturare la Scala. Ma poi Albertini è diventato subalterno di Muti e di certi poteri forti».
A proposito di poteri forti, Fedele Confalonieri, presidente di Mediaset, in quel periodo disse: «Fontana ha sbagliato tutto».
«Sotto l’apparenza della persona di buon senso Confalonieri nasconde la sua vera natura. Quella di campione di una vecchia cultura padronale. Il berlusconismo… quel mondo lì».
Confalonieri non è stato l’unico a criticarla in tutti questi anni. Già nel 1993 i leghisti volevano impallinarla.
«A quel tempo c’era la caccia al socialista. Presentai le mie dimissioni a Marco Formentini, allora sindaco eletto con il Carroccio. Lui, un vero galantuomo, le rifiutò».
Lei era stato fortemente voluto alla Scala nel 1990 da due socialisti: il sindaco Paolo Pillitteri e il ministro Carlo Tognoli.
«Era una nomina che teneva conto della mia storia professionale. Nella logica della lottizzazione toccava al Psi. E io della mia generazione ero quello col pedigree giusto».
Modesto! Fuori il pedigree socialista.
«Mio nonno è stato fondatore del Psi di Magenta, sindaco della sua città e antifascista di ferro. Mio padre, capo di gabinetto di più sindaci milanesi, sul modello asburgico. Nonché esperto di teatro e loggionista. Ma soprattutto ero un allievo di Grassi. Frequentavo i teatri da anni. Quando ne avevo tre, papà mi portò a Pesaro a un festival di filodrammatiche. Lì, Antongiulio Bragaglia, teatrante di razza, mi usava come termometro: se restavo sveglio voleva dire che lo spettacolo era buono, se mi addormentavo era scadente. Andai a lavorare al Piccolo Teatro subito dopo il liceo».
Liceo fatto dove?
«I primi tre anni al Parini. Poi mi bocciarono e mi trasferii al Berchet».
Perché la bocciarono?
«Problemi di condotta».
Dicono tutti così.
«Era una scuola autoritaria. Il disagio adolescenziale era forte. Feci molte assenze ingiustificate. Andavo al cinema Rubino. Durante le proiezioni mattutine la sala era stracolma di studenti che bigiavano le lezioni».
Compari di liceo?
«Il mio compagno di banco era Ferdinando Mach di Palmenstein».
Che poi divenne faccendiere socialista e fu travolto da Tangentopoli.
«Non ho mai smesso di considerarlo un amico».
Torniamo alla gavetta.
«Al Piccolo, con Grassi, mi occupavo degli spettacoli per le scuole superiori».
Erano gli anni in cui cominciavano le occupazioni studentesche.
«Già, ma io nel 1968 mi ero iscritto al Psi. Ero convinto che le istituzioni andassero cambiate dall’interno: una scelta poco popolare per quei tempi. L’aspetto demagogico della contestazione non mi interessava».
Dopo il Piccolo, alla Scala come assistente dello stesso Grassi e cinque anni alla Fonit Cetra.
«Come amministratore delegato. Avevo l’ambizione di creare una grande etichetta nazionale. Scoprimmo alcuni talenti: portammo Luca Barbarossa a Sanremo».
All’inizio degli anni Ottanta finì a Bologna come Sovrintendente del Comunale. La città di Prodi.
«E di Beniamino Andreatta. Ricordo una cena a casa sua. Allora era ministro del Tesoro. Io ero passato agli Enti lirici e cercavo di perorare la nostra causa. Non risultai molto convincente».
Poi a Venezia.
«Dove guidai la sezione musicale della Biennale. Lì, mettemmo in scena un Prometeo che non scorderò mai. Il gruppo di lavoro era formato da Claudio Abbado, Renzo Piano, Emilio Vedova e Massimo Cacciari».
Com’era il Cacciari comunisteggiante?
«Cacciari era Cacciari. Si occupava dei testi. Gli incontri con quel gruppo erano formidabili. Intellettualmente molto stimolanti».
Nel 1990 il ritorno alla Scala. Il momento più traumatico dei 15 anni di Sovrintendenza?
«Estate del 1995. In cartellone c’era la Traviata. Mi dovetti presentare davanti al pubblico per annunciare che l’orchestra era in sciopero».
Ci fu una rivolta?
«No. Perché Muti accettò generosamente di suonare l’opera al piano. Quella sera è rimasta nella storia».
Fuori dalla Scala ogni 7 dicembre, all’apertura della stagione, ne succedono di tutti i colori: una volta gli animalisti si misero a tirare fegatelli contro le donne impellicciate.
«La Scala è un luogo di amplificazione mediatica. Basta non farci caso. Io sono intervenuto una sola volta».
Quando?
«Nel 2002. C’erano gli operai dell’Alfa Romeo. L’Alfa è Milano, e allora con Muti decidemmo di permettere a un sindacalista di leggere un comunicato dal palco».
Fontana operaista.
«All’intervallo venne da me l’allora ministro del Tesoro Giulio Tremonti. Mi disse che avevo strumentalizzato la Scala a scopi politici e minacciò di ridurre i fondi statali per il teatro. È l’episodio più sgradevole legato a un sant’Ambrogio».
Da ex Sovrintendente della Scala chi è stato secondo lei il peggior ministro della Cultura?
«Giuliano Urbani. Aveva suscitato grandi attese. Invece ha dimostrato un disamore assoluto per la materia di cui si doveva occupare. Un disamore che è tipico del mondo berlusconiano. Per cui cultura uguale televisione».
Oddio. Fontana, mi fa l’intellettuale che disprezza la tv?
«Non amo una certa idea di televisione».
Un’idea di televisione che Craxi ha sponsorizzato negli anni Ottanta.
«Craxi voleva aprire il mercato ai privati».
Sarà, ma le ricordo che moltissimi suoi colleghi dei Ds considerano Berlusconi una specie di successore di Craxi.
«Sbagliano. E sbaglia chi lo considerava di destra. Bettino negli anni Settanta era la persona politicamente più interessante di Milano. Voleva coniugare socialismo e libertà: prima di Tony Blair».
Lei si è mai considerato craxiano?
«Mica è una bestemmia. Dovrei pentirmi? Facevo parte del gruppo di Claudio Martelli».
Chi c’era in quel gruppo?
«Vittorio Giacci, Bruno Pellegrino… Anche loro si occupavano soprattutto di cultura».
Pellegrino, Martelli… Come altri socialisti vennero coinvolti in Tangentopoli.
«Dal punto di vista emotivo quello è stato un periodo molto doloroso».
Che effetto le ha fatto vedere negli ultimi anni l’ex ministro Martelli presentare un programma in tv?
«Pessimo. Rispetto le sue scelte. Ma il Martelli di cui sono stato amico è un lontano parente del Martelli in maniche di camicia sulle reti Mediaset».
E che Martelli era?
«Quello del convegno di Rimini sul merito e il bisogno. Quando si farà una storia laica del nuovo corso socialista si capirà che noi eravamo avanti anni luce rispetto agli altri».
Si racconterà anche della Milano da bere, della villa sull’Appia dello stesso Martelli, dei nani, delle ballerine…
«Io negli anni Ottanta ero a Bologna. E nella villa di Martelli a Roma non ci sono mai stato».
Non frequentava nemmeno il Matarel, il leggendario ristorante craxiano?
«Negli anni Settanta, il sabato e la domenica Bettino usciva coi ragazzi. Io ero uno dei giovani che frequentavano quell’appuntamento. Più che al Matarel andavamo all’Angolo. Erano normali riunioni conviviali».
C’è chi sostiene che a Craxi andrebbe dedicata una strada. Veltroni e Moratti dovrebbero pensarci?
«In questa storia di dedicare strade e monumenti ci sento un che di strumentale».
Pensa che Craxi vada riabilitato?
«Non mi piace la parola riabilitazione. Sono convinto che la figura di Craxi statista, una volta studiata e approfondita, non avrà bisogno di riabilitazioni».
Le ruberie di quel periodo verrebbero fuori comunque.
«Credo che vada tenuta distinta la vicenda politica da quella giudiziaria. Comunque io mi riconosco nella storia dei socialisti riformisti, che ha avuto ragione con Filippo Turati, Pietro Nenni e Bettino Craxi».
Nell’Unione, la sua coalizione, non la pensano tutti così. Il ministro per le Infrastrutture, Antonio Di Pietro, ha appena ricordato che per lui Craxi rimane un pregiudicato…
«Non ero d’accordo con Di Pietro negli anni Novanta. Non sono d’accordo oggi».
Uno dei leader della sua maggioranza, Francesco Rutelli, in quegli anni Novanta disse che avrebbe voluto vedere Craxi mangiare il rancio della galera.
«È acqua passata. La politica non può vivere di rancori. Nella primavera di quest’anno andranno a votare i ragazzi nati nel 1989. Lei pensa che conoscano o si facciano influenzare dalle vicende e dalle dichiarazioni degli anni Novanta?».
Nella primavera del 2007, ci dovrebbero essere anche i congressi di scioglimento della Margherita e dei Ds. In teoria si avvicina il Partito democratico. Lei, chi vorrebbe come leader, Rutelli o Veltroni?
«Colui che sappia meglio cogliere la novità del nuovo partito. Ho stima dell’intero gruppo dirigente dei Ds».
Nella Quercia c’è anche una donna, Anna Finocchiaro, data in pole position per quel ruolo.
«Apprezzo molto Finocchiaro. Ma prima di conoscere il nome del leader vorrei capire di che partito parliamo. Quali sono i contenuti. Che a mio giudizio non potranno prescindere dalla tradizione socialista. Quindi una grande attenzione alla laicità».
Sui temi della famiglia tra l’ultracattolica Paola Binetti e il pacsista Franco Grillini chi sceglie?
«Grillini».
Risposta secca. Allora è pronto per giocare. A cena col nemico?
«Pierferdinando Casini. Anche se non lo considero un nemico».
Perché?
«L’ho conosciuto a Bologna quando dirigevo il Comunale. Lui era responsabile culturale della Dc».
Com’era il Casini anni Ottanta?
«Come è adesso: intelligente, abile e furbo. Si è sempre mosso con accortezza».
Gioco della torre. Chi butta? L’ex sottosegretaria agli Esteri Margherita Boniver pasionaria craxiana e forzista o Patrizia Sentinelli di Rifondazione, che ha preso il suo posto?
«Faccio salire Ugo Intini, vice ministro dell’Unione alla Farnesina. Tra l’altro Intini era il capo della redazione milanese dell’Avanti quando mi occupavo di teatro per quel quotidiano».
Rimaniamo tra craxiani. Anja Pieroni o Sandra Milo?
«Non le ho mai conosciute».
Allora passiamo ai Craxi. Bobo o Stefania?
«Butto Stefania. Invece di entrare in Parlamento, credo che si sarebbe dovuta occupare esclusivamente della Fondazione intitolata al padre. Ma pensandoci bene tutti e due i Craxi si sarebbero potuti risparmiare la politica».
Il cardinal Camillo Ruini o Vladimir Luxuria?
«Ru… Anzi. Mi butto io».
Prima di buttarsi dedichi una romanza a Berlusconi.
«Addio, del passato bei sogni ridenti / le rose del volto già sono pallenti».

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A un Sovrintendente della Scala non si può non chiederla. Fontana, fuori la formazione ideale. Il ballerino? «Io ho portato Roberto Bolle a Milano. Ma nel mondo della danza il più affascinante è Roland Petit». La ballerina? «Alessandra Ferri, che tra l’altro è un’amica». Il soprano? «Mirella Freni è la voce che ha accompagnato tutta la mia vita. Ma ho un buon rapporto anche con Renata Tebaldi». Il tenore? «Facile. Placido Domingo e Luciano Pavarotti». Ne butti uno giù dal palco. «Butto Roberto Alagna». Senza esitazione.

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