Carlo Rambaldi (Magazine – aprile 2008)

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Ha i polpastrelli scavati dal minuzioso lavoro manuale con cui ha plasmato le sue creature. E un accento ferrarese per nulla intaccato dalla lunga permanenza sulle colline di Los Angeles. Carlo Rambaldi, tre premi Oscar per gli effetti speciali, ben custoditi in una cassetta di sicurezza («Se te li rubano, non te li restituisce nessuno»), è un mostrificio ambulante. Creatore di incubi (Alien) e sogni (E.T.) nell’era del cinema predigitale, a 82 anni si è messo a collaborare al musical La Divina Commedia. L’opera. Ha disegnato un Lucifero, un grifone e tre furie. Lo incontro a Milano in un hotel anni Settanta. È un uomo di poche parole. Un po’ infastidito dal frastuono del nostro dibattito partitico. Quando gli chiedo se individua mostri particolari nella politica italiana mi spiazza sibilando: «Della politica non saprei che farmene».
Il creatore di pupazzi considera i politici troppo pupazzi?
«Li considero troppo litigiosi. E quindi non li calcolo».
Tra Berlusconi e Veltroni chi è Alien e chi è E.T.?
«Visto l’odio che manifestano l’uno per l’altro…».
Sono entrambi Alien?
«Sembrano due litiganti che hanno entrambi torto».
Lei vota in Italia?
«Sì. Ma non mi occupo di queste cose».
Ha mai fatto politica?
«No, mai».
Si dice che da giovane, nel dopoguerra, illustrasse riviste di sinistra e cartelloni per la Camera del lavoro, a Ferrara.
«Dipingevo. Era più un impegno artistico, che non politico».
Con i pupazzi e con i mostri tridimensionali quando ha cominciato?
«Sono di Vigarano Mainarda, un paesino del Ferrarese. Da piccolo mi piaceva modellare. Un contadino mi disse che se avessi raschiato certe pozze vicino al Po avrei trovato dei grumi di creta».
Arte padanissima.
«Iniziai costruendo qualche giocattolo».
Studi?
«Da geometra: il primo (e l’ultimo) progetto fu la costruzione di un porcile. Poi mi trasferii a Bologna, all’Accademia di Belle Arti. Appena finito il corso andai a Roma».
Per fare l’università?
«No. La laurea (ad honorem) mi è arrivata dall’ateneo di Genova qualche anno fa, in Ingegneria meccanica. A Roma ci andai per lavoro».
Subito ingaggiato a Cinecittà?
«Un amico, nel 1957, mi disse che stavano girando Sigfrido e non sapevano come realizzare un drago semovente».
Lei invece sapeva come fare?
«Mi presentai dal regista con un modellino di trenta centimetri e gli dissi che avrei risolto i suoi problemi. Mi misero a disposizione una terrazza da usare come officina».
La pagarono molto per quel primo lavoro?
«Abbastanza. Avevo realizzato i bulbi oculari con delle sacche di carne Simmenthal, in modo che quando il drago veniva colpito, dagli occhi fuoriuscisse una poltiglia sanguigna. Un giornalista scrisse che avevo costruito un drago di 15 metri tutto di carne in scatola. Se penso che dentro al drago ci stavano rinchiusi ben cinque assistenti per farlo muovere… Da quel momento sono cominciate ad arrivare parecchie richieste».
Facciamo una carrellata.
«Aprii uno studiolo sulla circonvallazione Gianicolense. Lì realizzai l’aspide che morde Liz Taylor in Cleopatra, molte scene della Bibbia con John Houston…».
Ma quelle non sono dello scenografo Mario Chiari?
«Sì. Ma Mario mi chiedeva di fargli degli schizzi per poi lavorarci sopra. Questo magari non lo scriva… Fu uno dei primi lavori con Dino De Laurentiis. Giravamo a Dinocittà. Lì costruii anche una finta Silvana Mangano lapidata in Barabba. Poi feci il Ciclope per un episodio dell’Odissea, e alcuni pannelli fioriti per Renato Guttuso».
Il pittore?
«Metteva in scena una Carmen e mi chiese una mano. Un giorno mi venne a trovare nel mio studio. Gli piacevano molto i miei Pinocchi».
Ha fatto anche Pinocchio?
«Lasci perdere. È una storiaccia».
Racconti.
«Il mio sogno è sempre stato quello di realizzare il burattino di Collodi. L’occasione arrivò all’inizio degli anni ’70 con Luigi Comencini. Il regista mi chiese un pupazzo che camminasse e lanciasse oggetti. Mi disse che la produzione non aveva soldi, ma ci lavorai comunque e gli consegnai un modello a grandezza naturale».
Non glielo pagarono?
«Peggio. Me lo restituirono dopo qualche giorno un po’ manomesso: avevano studiato i meccanismi per copiarli».
Il Pinocchio con Nino Manfredi quindi è un po’ roba sua?
«Sì. Dato che loro non erano in grado di far camminare il burattino, Comencini stravolse il libro di Collodi e fece diventare Pinocchio un bambino dopo poche scene».
Veramente si dice che quella sia stata l’intuizione geniale e poetica che diede successo alla mini-serie Rai.
«Non è così. Quando li ho portati in Tribunale, hanno perso la causa».
Negli anni ’70 comincia il periodo del rambaldismo sanguinolento.
«Che cosa intende dire?».
Che in quegli anni lei si dà ai film splatter.
«Veramente nel 1973 sono sul set di Pane e cioccolata con Nino Manfredi. L’arancia che si auto-sbuccia l’ho fatta io».
Ma ha fatto lei anche i cani dilaniati nel film di Lucio Fulci, La lucertola con la pelle di donna. Gli animalisti non gradirono.
«Perché pensavano che fossero cani veri».
E gli squartamenti in un paio di film ultra-trash prodotti da Andy Warhol?
«Uhm… mi faccia pensare… ma dice la pellicola girata ai Castelli romani?».
Dracula cerca sangue di vergine… e morì di sete!
«Ricordo solo che quel tipo, il pittore…».
Warhol…
«…sì. Si presentò nel mio studio e rimase sulla porta. Rise molto quando facendo il calco in gesso a uno degli attori gli strappai qualche peletto. Eravamo nel 1974».
L’anno di La mazurka del barone, della santa e del fico fiorone di Pupi Avati.
«Per lui feci gli effetti speciali. Con Dario Argento, l’anno dopo, lavorai a Profondo rosso. Ha presente la testa mozzata di Clara Calamai nella scena finale?».
Horror puro.
«L’ho realizzata io. Una delle ultime cose in Italia. Poi arrivò la chiamata…».
Quale chiamata?
«Quella di Dino De Laurentiis, da Hollywood, nel cuore della notte».
Ne parla con toni epici.
«Fu la svolta della mia vita. Partii pensando di tornare dopo due settimane. Restai 15 mesi. E sì che all’inizio mi fecero dei problemi».
Tipo?
«Dino mi aveva cercato perché il King Kong che gli avevano costruito gli americani non si muoveva. Era un disastro. Mi misi subito al lavoro. Mentre ero agli studios, a un certo punto mi si avvicinò un tipaccio con le mani in tasca e mi disse: “Ce l’hai la tessera del sindacato?”. E io: “No”. E lui: “Allora adesso smetti di lavorare”. Per un po’ rimasi chiuso in casa. Con quel King Kong ci vinsi il mio primo Oscar. Alla premiazione dissi solo due parole: “Thank you”. La volta dopo, quando mi premiarono per Alien, recitai una scenetta».
Cioè?
«Salii sul palco e dissi: “Quando mi avete premiato la prima volta non sapevo l’inglese e vi ringraziai con un semplice thank you, ora sono passati tre anni e posso aggiungere qualcosa: thank you… very much”».
Spiritosissimo.
«Gli americani sono un po’ bambinoni. Risero come pazzi».
Il terzo Oscar lo prese con E.T.
«Dopo King Kong, Spielberg mi aveva cercato per creare un alieno per la scena finale di Incontri ravvicinati del terzo tipo. Glielo disegnai in aereo mentre tornavo in Italia. La trattativa per il pagamento fu paradossale».
Perché?
«Avvenne al telefono. Quando dissi la cifra che volevo, trentamila dollari, calò il silenzio. Chiesi a mio figlio, che era in America per gestire l’affare, se avevo sparato troppo alto. Mi rassicurò: “Papà, sono preoccupati perché gli sembra troppo poco”. Capito che mondo? Il contrario dell’Italia, dove si piangeva miseria».
È vero che per E.T. si ispirò a un suo vecchio quadro?
«Sì. Le donne del delta: col collo molto allungato».
Come l’extraterrestre.
«Per la faccia presi spunto da un gatto himalayano. Spielberg voleva delle rughe alla Hemingway… non gli diedi retta».
Ce l’ha ancora il pupazzo di E.T.?
«Certo. Come molte delle mie creazioni».
Il rapporto con Spielberg?
«Ottimo. Alla fine del film mi saltò al collo per abbracciarmi: col mio lavoro gli avevo fatto risparmiare una settimana di riprese e, quindi, parecchi soldi».
Un po’ venale.
«Mi regalò una maglietta con su scritto: “No problem, Steve”. Era la frase che gli ripetevo ogni volta che si presentava un problema».
Siete ancora in contatto?
«No».
Ora Spielberg gira il quarto Indiana Jones. L’ha chiamata per collaborare?
«No. Ormai gli americani fanno tutto al computer».
La cosa la avvilisce? Con le sue tecniche di meccatronica e animatronica certe cose non si possono realizzare…
«È vero. E gli americani hanno i soldi da spendere per gli effetti digitali. Le mie tecniche costerebbero molto, ma molto meno. Gli alien, i vermoni di Dune nel film di David Lynch, il bufalo di White Buffalo… al computer sarebbero costati non so quanto. Guardi…».
Che fa, si mette a disegnare?
«Le faccio uno schizzo per farle capire come funzionava il meccanismo del bufalo».
Molto artigianale. Oggi, costi più alti o no, si farebbe tutto al computer.
«È molto probabile. Ma in Italia non ci si può mica permettere effetti speciali all’americana».
Lei in Italia ci torna spesso?
«Faccio su e giù perché ho dei nipoti. Ora ho lavorato a questo musical sulla Divina Commedia ideato da monsignor Marco Frisina».
Il teatro come rifugio per i suoi mostri?
«È uno spettacolo notevolissimo».
Altri impegni italiani: è nel Cda della Scuola nazionale di cinema.
«Mi propose di entrarci il ministro Giuliano Urbani».
Perché è vicino al centrodestra?
«No. Per stima personale, credo. Le posso esternare una preoccupazione?».
Prego.
«In Italia non ci sono produttori e si fanno pochissimi film. Che fine fanno i ragazzi che escono dalla scuola?».
Consiglia loro di fuggire in America?
«Be’, io ci sarei dovuto andare venti anni prima di quando ci sono sbarcato la prima volta. Non averlo fatto lo considero l’errore della mia vita».
La cosa più assurda che le è successa su un set americano?
«Con Oliver Stone. Gli feci la mano mobile nel thriller La mano. A un certo punto il regista voleva che sopra quella mano ci andassero delle mosche. Non sapevamo come fare. Mentre ero distratto, Oliver si aprì la zip di fronte alla troupe e cominciò a far pipì sopra alla mia creaturina. È un bel matto».
Lei ora è uno dei giurati dell’Academy Awards che attribuiscono gli Oscar.
«Come tutti quelli che hanno vinto un Oscar».
Quando le viene sottoposto un film italiano lo vota sempre?
«Uhm… anche se fosse sarebbe una goccia nell’oceano: i votanti sono più di 5.000. Oggi, negli Usa, non mi pare che il cinema italiano abbia grande seguito».
Il film della vita?
«Non ne ho uno. Ma dico E.T. Pregevole».
La canzone?
«Ascolto soprattutto musica classica».
Il libro della vita?
«Tutti quelli di Antonino Zichichi. Amo sapere tutto sullo spazio e sui pianeti. E non mi dispiacerebbe essere ancora in vita quando ci si presenteranno davanti degli alieni veri».
Domande finali. Sa che cosa è YouTube?
«No».
Non usa il computer?
«E a che cosa mi potrebbe servire?».
Sa quanto costa un litro di latte?
«La spesa la fa mia moglie. Io non cucino nemmeno. Ho provato una volta a fare un riso coi fagioli. Non ha idea che cosa è venuto fuori».
Un mostro di Rambaldi?
«Praticamente».

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