Vincenzo Cerami (Magazine – novembre 2007)

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Pop-intellettuale. Vincenzo Cerami, 67 anni, scrittore, sceneggiatore, gagman, giornalista, poeta, con radici visibilissime nella periferia romana e citazioni libere di De Saussure. Copyright pasoliniano. Lo incontro al bar Rosati, in Piazza del Popolo, a Roma. Scandisce i tempi delle sue risposte con il ticchettio della fede sul tavolo. Vocione e risata calda. Cerami, dopo essere cresciuto sotto l’ala di Pasolini, dopo aver scritto Un borghese piccolo piccolo (ritratto feroce dell’Italia anni 60), dopo aver sceneggiato Amelio, Albanese, Bellocchio, Benigni, nonché il Rockpolitik di Celentano, approda alla corte del piddì di Walter Veltroni. Nell’esecutivo. Si occuperà di cultura.
Appena ha aperto bocca nel Loft, è stato impallinato dalla stampa.
«Mi avevano avvertito. Pare sia inevitabile».
Ha citato Gramsci come “grande da recuperare”. E il Foglio… zac… ha pubblicato una lettera in cui si leggeva: “Che pizza senza fine!”.
«Gramsci è solo il primo che mi è venuto in mente, tra gli scrittori che come me sono passati alla politica».
Nessun riferimento all’egemonia culturale e agli intellettuali organici del Pci?
«Ma no».
Lei è mai stato comunista?
«No. Ho avuto un periodo, da ragazzo, in cui frequentavo i lombardiani».
Socialista di sinistra.
«Ho sempre creduto che l’integrità morale di certi dirigenti del Pci, come Togliatti, Pajetta e Longo, fosse gravemente intaccata dal fatto che nascondevano ai militanti gli orrori del gulag sovietico. Detto ciò, smettiamola di usare il passato come arma di ricatto per il presente. I nati dopo la caduta del Muro di Berlino hanno compiuto 18 anni, e noi stiamo ancora qui a chiacchierare».
Cerami si presenterà alle prossime elezioni?

«No. Vorrei solo far circolare idee. Il Pd nasce per intrecciare diverse linee culturali».
Che a volte non sembrano conciliabili. Che cosa pensa dei Dico e delle coppie di fatto?
«La società è andata per conto suo. Ed è evidente che alcune leggi andranno fatte».
Dice? Molti cattolici non la pensano così.
«Su alcuni argomenti ci dovrebbe essere più libertà. Poi ognuno affronterà il giudizio di Dio. Spero che il Pd aspiri a essere moderno. Se no nasciamo già cadaveri».
Nel Loft democratico…
«Non lavorerò lì. Quel posto è troppo piccolo».
Veltroni come lo ha conosciuto?
«L’ho visto di sfuggita decine di volte. Poi, insieme con Benigni, abbiamo cominciato a vederci con più calma. Qualche cena…».
Cerami dice «Basta» a…
«Alla cultura fatta di ragazzini delle scuole deportati nei teatri e torturati con quattro ore di Sturm und drang. L’arte dovrebbe emozionare».
Veltronismi. L’arte che la emoziona, oggi?
«Il fumetto: ho appena fatto un lavoro con Milo Manara. Ma anche i murales di strada».
C’è chi li considera atti vandalici.
«Bisogna evitare lo scempio. Ma ne ho visti di belli pure a Borgo Pio, vicino a San Pietro».
La Fontana di Trevi rossa: una performance o uno scempio?
«Una cosa postmoderna, simpatica».
Lei ha detto che vorrebbe vedere rinnovato il linguaggio della politica.
«I politici si parlano addosso. E poi quando li sento parlare di “tesoretto”… Mi ricorda il risparmiuccio piccolo borghese. Una mentalità che combatto da sempre. Ci sono nato dentro: mio padre era maresciallo dell’aeronautica, monarchico».
Infanzia?
«Quando avevo 9 anni ci siamo trasferiti a Ciampino. A 10 mi sono ammalato di difterite e per poco non morivo. Per un anno ho perso la vista. Completamente. Diventai timidissimo: a scuola non rispondevo all’appello».
Era allievo di Pier Paolo Pasolini.
«Alle medie. Dopo una bocciatura me lo trovai come professore. Fu lui a incoraggiarmi a scrivere».
Pasolini era un prof severo?
«Segnava in blu, come errori gravissimi, i luoghi comuni e le banalità. Mi dava 9. Leggeva i miei temi ad alta voce. Durante il periodo del ginnasio continuai a portargli quello che scrivevo. Lo andavo a trovare a Monteverde. Abitava nello stesso palazzo di Attilio Bertolucci. Nel periodo universitario, poi, Pasolini mi chiamò a lavorare con lui».
Per il cinema?
«Sì. Cominciai come pizzardone sul set del Vangelo secondo Matteo».
Pizzardone?
«Il vigile, in romanesco: bloccavo il traffico per permettere le riprese. In Uccellacci e uccellini, invece, facevo proprio l’aiuto regista: leggevo a Totò la parte da ripassare. Lui era praticamente cieco. Stavamo ore nella roulotte. Ascoltando le sue improvvisazioni ho imparato la comicità».
Ed è diventato un battutista.
«Un gagman: cioè mi chiamavano per rianimare una sceneggiatura quando non funzionava. Ma prima ancora avevo fatto il negro».
Scusi?
«A certi sceneggiatori servivano ragazzi svelti per scrivere testi minori. In gergo, i “negri”. Per un po’ lavorai con Ugo Pirro».
Oscar con Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto.
«Poi mi chiamò la Metro Goldwyn Mayer per fare il gagman in un western ambientato in Giappone e partii per New York».
Parlava inglese o giapponese?
«No. Facevo effetti, facce, mosse… bang… parapam… shhhh. Comunque c’era il traduttore».
La Roma anni 70. I giovani della Fgci erano vicini a Pasolini.
«Già. Goffredo Bettini, Gianni Borgna e Ferdinando Adornato, nel 1975, due giorni dopo la morte di Pier Paolo, mi accompagnarono al congresso dei Radicali, dove lessi il testo che lui aveva scritto per i pannelliani».
L’anno dopo uscì il suo romanzo Un borghese piccolo piccolo.
«Fu lanciato da una quarta di copertina scritta da Italo Calvino».
Lei partecipò pure alla sceneggiatura del film di Monicelli?
«Diedi una mano. All’inizio lo sceneggiatore, Sergio Amidei, voleva fingere che la storia fosse tutta un sogno. Monicelli disse: “Se facciamo così, la gente a fine spettacolo ci tira le sedie”».
Roberto Benigni quando lo incontra?
«Alla fine degli anni 70. A Roma. Lo andavo a vedere quando faceva il suo personaggio Cioni Mario nei teatrini. Poi ci siamo conosciuti grazie ai Bertolucci: venivano tutti da me a schitarrare. E nel 1981 abbiamo lavorato a un primo film: il Minestrone insieme con Sergio Citti e Giorgio Gaber. Nell’88, arrivò il successo con Il piccolo diavolo».
Nel frattempo lei si era messo a fare anche il giornalista.
«Di nera. Taccuino in mano e fotoreporter al seguito. A 46 anni, praticante al Messaggero».
Torniamo a Benigni. Johnny Stecchino, Il Mostro e La vita è bella (film da Oscar con cui lei ha vinto il David), è cominciata una parabola discendente dei vostri film.
«Pinocchio e La Tigre e la neve sono stati capiti meno».
Dicono tutti così.
«Pinocchio è un film bellissimo, ma sgradevole. Perché svela la storia di Collodi per quello che è: il romanzo più violento della letteratura italiana».
Boom. È vero che durante la stesura delle sceneggiature, lei recita le parti?
«Con Benigni le storie nascono cominciando a parlare a vanvera. Finite le varie stesure, lui fa il suo personaggio, e io gli altri, con smorfie e caricature».
È diventato ricco, scrivendo film per Benigni?
«Sono gli sceneggiatori americani a guadagnare più dei registi».
Certo… Per il Pd lavorerà gratis?
«Spero in un piccolo rimborso spese. Ora che faccio politica dovrò rinunciare al cinema».
Ma non alla letteratura. È appena uscito un suo romanzo per Mondadori: Vite Bugiarde. Lei prima di arrivare al Pd, ha sceneggiato una kermesse di Prodi e ha scritto un intervento per l’ultimo congresso dei Ds. Ma poi ha lavorato anche col ministro forzista Giuliano Urbani ai Beni culturali.
«E che male c’è?».
Prima con Forza Italia e poi con il Pd.
«No, guardi, Urbani mi ha chiamato come tecnico nella Commissione che giudicava le sceneggiature da finanziare. Lui era ministro e io ho rispetto delle Istituzioni».
Il cinema va finanziato dallo Stato?
«Io ho sempre scritto cercando di conciliare la qualità col mercato. Coi finanziamenti pubblici, invece, la sala e il botteghino hanno cominciato a contare sempre meno. E molti sono finiti a scrivere cose banali e consolatorie, sperando in uno sbocco televisivo. Lì dentro ho visto anche un mercimonio insano di finanziamenti tra produttori».
Della tv salva qualcosa? Qualche fiction?
«Quelle italiane sono spesso troppo demagogiche».
I telefilm americani?
«Un’altra storia. Ci mettono la cattiveria. E c’è voglia di vedere cattiveria in tv».
Detto da un veltroniano! I programmi italiani sono troppo buonisti?
«C’è un’idea moralistica dei prodotti culturali. A Milano sono arrivati a censurare una mostra di arte omosessuale. Ma come si fa?».
Tre libri che un giovane del Pd non può non leggere.
«La cattedrale di Carver, i racconti di Cechov e il Qoelet curato e tradotto da Guido Ceronetti».
I tre film immancabili?
«Non si può non vedere La donna che visse due volte di Hitchcock, Zelig di Woody Allen, e Blade Runner di Ridley Scott».
I cantanti pop.
«Paolo Conte su tutti: Un giorno Gondrand passerà / te lo dico io…».
Che fa, si mette a cantare?
«Aggiungo i Radiohead e i Rem. E ora la sorprenderò… Considero Clint Eastwood un grande intellettuale. Ho letto una cosa che ha scritto sulle famiglie allargate. Illuminante».
Lei ha sposato Graziella Chiarcossi, cugina di Pasolini.
«L’ho vista arrivare dal Friuli, nel 1963. E da lei ho avuto Matteo. Prima avevo avuto Aisha da Mimsy Farmer».
Ha un clan di amici?
«Ho tre amici veri: Benigni che è un fratello, Mario Guazzelli, psichiatra all’Università di Pisa e il musicista Nicola Piovani».
Piovani come lo ha conosciuto?
«L’ho incrociato spesso negli anni 70, poi abbiamo lavorato insieme a un film di Bellocchio. Ricordo una serata assurda di quel periodo: noi tre, in una cantinaccia romana, che cantiamo in mezzo ai marxisti leninisti».
Come ci eravate finiti?
«Per curiosità. La canzone faceva così… Lu comunismu è… è proprio bellu…».
Si rimette a cantare?
«Un po’ in ciociaro, perché bisognava essere popolani… Du populo è la forza brincipali / e poi tutti insieme… evviva Brandirali…».
Una riga di autoritratto.
«Sono un cronista: provo a raccontare il mondo».
Cultura generale. Che cosa sono le Winx?
«Delle streghette?».
Delle fate/cartoon. Quanti sono gli articoli della Costituzione?
«Perché fa queste domande a trabocchetto? Direi 100 e rotti. Centoquaranta?».
Centotrentanove.
«Ecco. Non sia crudele, eh».

Categorie : interviste
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