Ficarra & Picone – 2 (Sette – gennaio 2017)

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(Intervista pubblicata su Sette – Corriere della Sera il 20 gennaio 2017)
Sono spietatamente lievi e didascalici nel raccontare il rapporto storto degli italiani con le regole, con la politica e con le istituzioni. Salvo Ficarra e Valentino Picone tornano al cinema con L’ora legale, un film insolitamente (per loro) corale, e srotolano un catalogo dantesco di maschere contemporanee: il voltagabbana, l’abusivo, il corrotto, l’evasore… Picone: «Il personaggio principale è il popolo». In sintesi: un paesino sul mare, elezioni in vista. Il sindaco corrotto, che ha distribuito per anni favori a tutti, viene arrestato. Il popolo porta in trionfo il candidato onesto, un professore fissato con le regole. Così le regole si impossessano della vita pubblica e i cittadini, increduli e sbalorditi, si accorgono che le regole e l’onestà comportano un cambio di costume culturale, anche faticoso. Una metamorfosi travolgente per chi non è abituato. Scena paradigmatica: un gruppo di persone è in fila per chiedere favori al neosindaco. Arriva il cognato del primo cittadino e cerca di saltare la fila. Gli uscieri, convertiti al rispetto delle regole, lo fermano. La fila, abituata a favoritismi e soprusi, protesta: «È il cognato, è giusto che passi avanti». Un cittadino indignato aggiunge: «Se persino il cognato del sindaco deve fare la fila, io chiamo i Carabinieri».
Incontro Ficarra e Picone negli studi hi tech dove stanno ritoccando le ultime sequenze. Picone: «Ascolti che meraviglia il crescendo di trombone che ha messo qui Carlo Crivelli». Poi prende uno smartphone e dice: «Guardi qui». Mi mostra un prodigio per cui se ruoto su me stesso guardando lo schermo del telefono, sul telefono stesso viene proiettata un’immagine a 360 gradi del set del film. Ficarra: «È una tecnologia nuova. Prima di noi solo Star Wars». Ci appartiamo in una stanzetta. La cadenza è decisamente palermitana. Dopo una battuta sul loro «No» al referendum costituzionale che ha travolto Renzi, partono con un duetto en grotesque sul balletto politico in corso per cambiare la legge elettorale.
Picone: «Spenga il registratore, eh». Poi, rivolto a Ficarra: «Compa’, la legge elettorale va cambiata in modo che alla fine in Parlamento ci vadano sempre le stesse persone».
Ficarra: «Ma è come se Milan, Inter e Juve riscrivessero le regole del campionato imponendo che chi ha la maglia con le righe nere quando vince faccia quattro punti. E gli altri solo uno».
P.: «E ti pare una brutta cosa, compa’? Che pretendi, che il campionato lo vinca il Brescia? E poi i cinesi che dicono? Se vuoi avere in testa alla classifica i campioni che ci invidiano in tutto il mondo…».
F.: «Giusto, i talenti vanno tutelati».
P.: «E quindi è bene sfornare leggi elettorali per fare sì che talenti politici come Roberto Calderoli siano sempre in Parlamento. Ora possiamo riaccendere il registratore».
Ficarra, rivolto a me: «Aspetti, spenga di nuovo». Poi fissando Picone: «Diciamolo: non sarebbe male se almeno il 99% dei parlamentari eletti con la nuova legge risultasse incensurato».
P.: «Non essere polemico».
F.: «Ma tu faresti amministrare il tuo condominio a uno che ha rubato i soldi per aggiustare l’ascensore?».
P.: «Se è capace sì».
F.: «Capace a fregarti».
P.: «Si chiama realpolitik. Non la conosci, compa’? E poi fammi capire: se arriva uno straniero, si affaccia in Parlamento e vede che sono tutti incensurati… ci rimane male. Mica vorrai deprimere il turismo! Va bene, ora possiamo cominciare l’intervista. Accendiamo il registratore».
La questione degli onesti poco capaci è piuttosto attuale. C’è chi rimprovera al M5S questa caratteristica. Picone, lei qualche anno fa aveva detto che le idee di Grillo le piacevano.
P.: «Il mio voto è segreto. Ma l’onestà è un presupposto che va preteso a destra, a sinistra e al centro».
Nel vostro film il popolo si ribella: il prezzo da pagare per vivere onestamente e seguendo le regole è troppo alto.
P.: «Non è un prezzo alto. È un necessario cambio di abitudini. Se il medico dice al malato di diabete di non mangiare più la cioccolata, lo fa per salvare il paziente. Non perché è fissato coi divieti».
L’onestà però non basta per amministrare una città o governare un Paese. È necessaria, ma non sufficiente.
F.: «Mi chiedo. Non è che a volte gli onesti risultano incapaci perché i disonesti remano contro? O perché gli onesti rifiutano un modo di amministrare che si è incancrenito tra scambi di favori e mazzette?».
P.: «Questa storia dell’onestà che non è sufficiente non mi convince».
Perché?
P.: «Perché poi si finisce col dire: se l’onesto è incapace, tanto vale prendere il disonesto capace. E non va bene. È un po’ come quando si è cominciato a parlar male dell’antimafia, perché qualcuno aveva usato il concetto di antimafia per fare carriera politica. Ma a me non interessa se un delinquente usa la bandiera dell’antimafia. Mi interessa la lotta contro la mafia».
In L’ora legale, che è girato in Sicilia, la mafia è praticamente assente.
F.: «È presente, è presente. Osserva, da lontano. Muta. E secondo noi è quello che sta facendo oggi la mafia: osserva, annusa il vento e pensa ai suoi affari. In altri film avevamo vestito il diavolo col forcone e le corna, qui è in incognito, ma c’è».
Siete al quinto film da registi.
P.: «E al ventitreesimo anno insieme».
F.: «È più il tempo che abbiamo trascorso lavorando insieme che quello vissuto da soli».
All’inizio eravate in tre.
P.: «In quattro».
F.: «Ne rimarrà solo uno: Ficarra e Ficarra».
Gli esordi…
F.: «Nei pub e nei ristoranti. Serate estreme».
P.: «Ci portavamo dietro una specie di separé per cambiarci. Io ancora oggi quando entro in un ristorante cerco il posto che sarebbe più adatto per piazzare quel separé».
F.: «Una gavetta che ti prepara a qualsiasi evenienza».
Imprevisti?
F.: «Una volta a Taormina, nel pieno del nostro spettacolo è partito uno show pirotecnico a pochi metri dal palco. Ci siamo messi a guardarlo seduti in platea col pubblico».
P.: «La ricordano tutti come la nostra performance migliore. Di quel periodo sono rimasti i tormentoni genitoriali».
Quali tormentoni?
P.: «Ancora oggi che, fortunatamente, riusciamo a riempire teatri, mia madre ogni volta mi chiede: “Ma ce n’era di gente?”».
F.: «E la mia: “Il proprietario è rimasto contento?”. All’epoca ti pagavano solo se rimanevano soddisfatti».
Qual è lo spettacolo che ha fatto svoltare la vostra carriera?
P.: «Vuoti a perdere. Lo portavamo nei pub e nei ristoranti, appunto. Un dirigente dell’emittente satellitare Tele+ che ci aveva visti, chiese se poteva filmarlo e mandarlo in onda».
F.: «Pensavamo che non lo vedesse nessuno. E invece… Potere delle schede taroccate!».
Ci fu un boom?
F.: «Una sera, il proprietario di un locale ci domandò: “Ma voi chi siete? Io di solito metto 400 sedie, ma stavolta ho ricevuto 800 prenotazioni”».
P.: «Siamo saliti sul palchetto convinti che il pubblico non stesse aspettando noi».
F.: «Invece, grazie a Tele+ molti conoscevano le battute a memoria».
Voi non avete studiato recitazione in Accademia.
F.: «La nostra accademia sono state le serate di fronte a gente che mangiava e che beveva. Lì l’attenzione la devi conquistare».
Oggi quale percorso formativo consigliereste a due giovani artisti?
P.: «Oggi ci sono strumenti che noi non avevamo. C’è YouTube, c’è Facebook. Il mondo per gli artisti è migliore. E grazie alla Rete stanno emergendo molti talenti».
Fuori i nomi.
F.: «Noi siamo particolarmente attenti alla scena siciliana: I soldi spicci, Roberto Lipari, I sansoni… Hanno una grande capacità di sintetizzare in pochi minuti sketch efficaci da mandare sui social».
Voi frequentate i social?
F.: «Abbiamo un profilo comune».
Vi capita di venire travolti da critiche violente?
P.: «Se decidi di scendere in piazza, devi essere attrezzato alle critiche».
F.: «Dopo un paio di post su Matteo Salvini, i militanti della Lega ci hanno massacrati. Ma siamo abituati, sono vecchie conoscenze. Il guaio è se i social vengono usati dagli spettatori a teatro o al cinema».
Capita spesso?
P.: «Sì. Succede anche con alcuni giornalisti quando vengono a vedere un film in anteprima. Li vedi lì, che chattano su whatsapp. Il problema è che così si distraggono, non colgono il lavoro di tutte le professionalità che hanno collaborato alla pellicola».
F.: «Tutti noi che recitiamo sui palchi dovremmo fare un accordo: quando sorprendiamo qualcuno del pubblico, seduto in platea, col volto illuminato dallo schermo acceso, dovremmo scendere, sequestrare il telefono, fracassarlo con una mazzata e lasciarlo lì, dietro a una quinta. Sono certo che gli altri spegnerebbero immediatamente i loro smartphone».
Vi è mai venuta la tentazione di riportare un vecchio spettacolo in scena, come fanno le star del rock?
P.: «Non mi dispiacerebbe recuperare gli sketch che in passato abbiamo tolto dagli spettacoli perché non ingranavano. Lo potremmo chiamare: «Tutto quello che non ha funzionato in questi anni». Con una buona chiave comica funzionerebbe».
Sacrificate molti pezzi di spettacolo?
F.: «Scriviamo un canovaccio. Ma sera dopo sera lo affiniamo, anche a seconda delle reazioni del pubblico. Certe parti non crescono e così le cambiamo».
Tra voi due chi scrive che cosa?
F.: «Io i pronomi».
P.: «Io gli aggettivi. Arrivando in macchina parlavamo della divisione di ruoli. Dopo aver discusso di Arthur Schopenhauer».
P.: «Lo citavamo».
F.: «Non fare il modesto. Io ero al telefono con Arthur».
P.: «È morto».
F.: «Oddio che disgrazia! E quando? Con questa cosa che stiamo montando il film non riesco più a leggere i giornali».

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